(proponiamo questo intervento scritto il 18 marzo 2009 in occasione della nomina di Dario Franceschini alla carica di segretario del PD)
di Giovanni Formicola,
dirigente di Alleanza Cattolica
Quando il presidente del consiglio ha definito cattocomunista Dario Franceschini è stata fatta molta ironia, ed i sorrisi di compatimento si sono sprecati.
L’ironia è un’arma potente, soprattutto quando fa breccia e diventa luogo comune. Così, un certo anticomunismo – radicale perché esistenziale, che non si fida delle metamorfosi di chi è stato comunista impenitente o di chi lo è ancora – viene sbeffeggiato, squalificato, intimidito e infine ridotto al silenzio (spesso in forma di auto-censura) riducendolo alla tesi che «i comunisti mangiano i bambini».
Eppure ci sarebbe ben poco da ironizzare con aria di superiorità sulla questione. Infatti, i comunisti, se proprio non se li mangiavano i bambini (ma è accaduto anche questo, e ad essere mangiati sono stati pure gli adulti), hanno certamente creato le condizioni per atroci e diffuse forme di cannibalismo nei luoghi e nei tempi (anche presenti) del socialismo reale. E le testimonianze sono numerosissime.
Si potrebbe cominciare dall’appellativo di «cannibale» riservato a Stalin (1878-1953) dagli ospiti, detti zek, dell’universo concentrazionario sovietico, quell’arcipelago GuLag mostruosamente esteso nello spazio e nel tempo sì da costituire una delle peggiori imprese criminali della storia. Ma questo potrebbe provare poco, trattandosi di testimonianza «di parte», e potendo essere inteso solo metaforicamente.
Allora, si può ricordare Nazino, l’Isola dei cannibali, nella Siberia profonda dei primi anni 1930, di cui ci narra lo storico Nicolas Werth (1), dove migliaia di deportati, ridotti ad una condizione estrema, si risolsero a divorare i più deboli fra loro per sopravvivere.
Oppure l’holomodor, la terribile carestia artificiale provocata per dekulakizzare l’Ucraina, ma anche il Kazachstan e le regioni del Kuban, del Don e della Volga, in attuazione del piano di collettivizzazione della terra già iniziato da Lenin (1870-1924) e portato a termine con singolare ferocia dal caro amico di Togliatti (1893-1964), l’«uomo d’acciaio». Neanche in tale occasione mancò il cannibalismo, che anzi fu diffuso e divenne un tragico costume: vennero procreati bambini per sopravvivere mangiandoli (2).
Se però anche queste testimonianze fossero ritenute di parte, o tali da far attribuire tali orrori allo «stalinismo», autentica categoria di comodo per giustificare l’«ideale» comunista, allora soccorre una testimonianza insospettabile di partigianeria anticomunista e soprattutto che colloca il cannibalismo tra i primi effetti dell’attuazione dell’«ideale» comunista.
È una lettera «segretissima» di Lenin al Politbjuro, estratta dagli archivi di Mosca, in cui il «fondatore» così si esprime: «È ora, solo ora, quando nelle regioni affamate la gente mangia carne umana e migliaia di cadaveri coprono le strade, che possiamo e dobbiamo procedere alla confisca dei preziosi della Chiesa con la più selvaggia e spietata energia […]. Quanto più clero e borghesia reazionari giustizieremo per questo, tanto meglio» (19 marzo 1922) (3).
Il riferimento del «capo» è alla prima carestia artificiale, che il comunismo fin da subito portò in dote ai popoli ch’ebbero la fortuna di conoscerlo bene e provarne sulla propria pelle la sperimentazione. Un testimone diretto ci offre il dettaglio di quanto noto a Lenin, e dissipa ogni sospetto di esagerazione.
«La gente mangiava soprattutto quelli che gli erano più vicini, a mano a mano che morivano; si alimentavano i bambini più grandi, ma i neonati, che non avevano ancora imparato a vivere, non venivano risparmiati, per quanto magro potesse essere il ricavato. Ciascuno divorava nel proprio cantuccio, non alla tavola comune, e nessuno ne parlava» (4). Naturalmente tutto per amore e soccorso dei poveri.
Il fenomeno è piuttosto comunista che russo. Infatti, se si registrano tutt’ora episodi di cannibalismo in Corea del Nord, dove il socialismo per quello sventurato popolo è ancora reale, è in Cina che sotto questo profilo il comunismo ha dato il meglio di sé. E non mi riferisco tanto alla mostruosa carestia artificiale – anche lì –, provocata per effettuare un «balzo in avanti» nella produzione agricola in violazione di tutte le leggi della terra, della chimica, della fisica, dell’economia e della ragione, e che causò, secondo le stime più prudenti, circa quaranta milioni di vittime, molte delle quali divorate dagli affamati (5).
Mi riferisco soprattutto al cannibalismo praticato proprio dai comunisti (bisogna concedere che ad essere mangiati non erano solo i bambini). Come narra la storica cinese Jung Chang, all’epoca della Rivoluzione culturale, che molti ex giovani – oggi tutt’altro che innocui, visto che occupano spesso posti potere di vario tipo – all’epoca esaltarono come esperienza di libertà meritevole d’importazione pure nel nostro Paese, furono organizzati «banchetti di carne umana».
E non per fame, stavolta, ma come modo in un certo senso rituale per colpire e terrorizzare i «nemici del popolo», dentro e fuori il partito, che venivano divorati per significare che mettendosi contro il partito perdevano la loro umanità.
Le fonti cui attinge la Jung Chang sono costituite soprattutto da atti – oggi non più accessibili – d’inchieste e processi promossi dallo stesso partito comunista cinese all’epoca di Deng Xiao Ping (1904-1997), raccolti a suo tempo da Zheng Yi, già Guardia rossa e giornalista comunista. Da essi risulta come, in occasione delle pubbliche adunate di denuncia dei «contro-rivoluzionari», questi – anche Guardie Rosse della fazione perdente – venissero macellati, privati di cuore, fegato, talvolta del pene – anche prima che fossero morti –, che venivano cucinati e mangiati sul posto (6).
Come si vede, c’è poco spazio per il solito sorrisetto ironico e di superiorità, se non di compatimento, nei confronti dell’anticomunismo e degli anticomunisti, accusati di pensare che «i comunisti mangiano i bambini», visto che, se è sbagliato pensarlo, probabilmente è sbagliato per difetto, non potendosi mai immaginare quali livelli abbia raggiunto tale specifico – e reale – orrore.
Ma questa ironia mal diretta deve appartenere sicuramente all’attuale segretario pro tempore del PD, Dario Franceschini. Altrimenti, difficilmente avrebbe sopportato un lungo periodo di comunione con ex e post, ma soprattutto neo orgogliosamente, comunisti alla Diliberto. Né, come è ormai chiaro, auspicherebbe di riallacciare il sodalizio politico-elettorale-programmatico con i residui italici del comunismo che non cessa di definirsi tale.
E nemmeno avrebbe salutato con tanta gioia il rinnovo della tessera del partito da parte di Romano Prodi, l’ineffabile professore che, sia in campagna elettorale che da presidente del consiglio, nel 2006 ha avuto l’impudenza di chiedere scusa al governo cinese perché Berlusconi aveva parlato – con storica ragione – del cannibalismo nella Cina di Mao.
E dunque, è forse sbagliato parlare a suo proposito di cattocomunismo? O non è piuttosto sbagliato spendere nei confronti di tale giudizio la stessa ironia mal spesa nei confronti di quelli che «i comunisti mangiano i bambini»?
In effetti, a voler guardare l’attualità, egli ha ripetuto (7) la nota tesi secondo la quale «la DC prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra» (8), così confermando di essere un democristiano di quelli che preferiscono il 25 aprile al 18 aprile, e Bella ciao a Biancofiore. Poi, la sua rancorosa proposta di tassare i «ricchi» per aiutare i poveri – al di là dell’intrinseca demagogia – ha le sue radici proprio nel Manifesto del Partito Comunista, che individua nella forte progressività dell’imposta uno dei mezzi privilegiati per abolire la proprietà e la libertà economica.
Ma ne ha anche di più profonde, addirittura nella Sacra Scrittura, che invero non è che l’apprezzi molto. Infatti, nel Vangelo troviamo l’archetipo di ogni umano pensare e agire, che ne svela l’effettiva natura. Il modello che qui c’interessa è quello del «cristiano sociale», tutto preso dalla passione per i poveri, e che per questo contesta l’astrattezza e il trionfalismo del culto, proponendo come alternativa la concretezza pauperista della redistribuzione ai poveri di ogni ricchezza, comprese quelle della Chiesa.
Siamo a Betania, nella casa di Lazzaro, il risuscitato, Maria e Marta, dove Gesù con alcuni discepoli si è recato a cena. Maria comincia a ungergli i piedi con un olio preziosissimo, del valore di un anno di salario. Qualcuno si scandalizza per un simile «spreco»: sarebbe stato meglio – protesta – confiscare quell’unguento, venderlo e donare il ricavato ai poveri.
Ma è Gesù stesso a rimproverarlo per la sua proposta, affermando il primato del culto, costi quel che costi. Il contestatore si chiama Giuda Iscariota (Gv., 12, 1-8). Sa di vecchio, allora, il prode Franceschini, come sa di vecchio il cattolicesimo comunista, che è certamente esistito.
Infatti, uno dei principali consiglieri del mitico segretario del Pci Enrico Berlinguer (1922-1984), Franco Rodano (1920-1983), nel 1942 fonda il Partito Comunista Cristiano e poi, tra il 1943 e il 1944, dà vita al Movimento Cattolico Comunista, che avrà un’influenza sulla politica italiana e sul mondo cattolico ben maggiore della sua effettiva consistenza. Non è difficile, a questo proposito, ricordare anche solo gl’interventi contro il «capitalismo», il libero mercato e la proprietà alla Costituente da parte di uomini come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira (1904-1977) e l’esponente democristiano e poi monaco Giuseppe Dossetti (1913-1996), che pure non furono formalmente cattocomunisti.
Come non ha mai fatto parte del movimento di Rodano l’ex democristiano e «cattolico di sinistra», come amava definirsi, Mario Montesi, che da fondatore e capo del Movimento Cristiano del Lavoro (erede del Movimento dei Cristiani Progressisti) e dirigente del Movimento dei Partigiani della Pace entra nell’orbita del Pci fino all’adesione al Fronte Popolare nel 1948. Costui è un personaggio singolare, la cui vicenda illumina più di ogni dissertazione teorica certe liaison che solo all’osservatore superficiale possono apparire improbabili.
Egli, infatti, da cattolico filo-comunista entra in contatto con i fascisti filo-comunisti di Stanis Ruinas (1899-1984) e collabora assiduamente alla rivista, Il Pensiero Nazionale, dal giornalista sardo fondata e diretta per un trentennio, tra il 1947 e il 1977 (9) L’uno e l’altro si erano dati il compito di traghettare verso la sinistra socialcomunista, rispettivamente, i cattolici e i fascisti, soprattutto quelli «erresseisti» (da RSI, Repubblica Sociale Italiana [1943-1945], la Repubblica fondata da Mussolini [1883-1945] nel Nord Italia dopo l’8 settembre). E solo chi ignora l’esistenza di profondi giacimenti culturali che rendono possibili simili relazioni può stupirsene, come dicevo sopra.
Il noto sacerdote modernista e cattolico democratico Romolo Murri (1870-1944) – co-fondatore del primo movimento cattolico che, alla fine del XIX secolo, assunse il nome di «Democrazia Cristiana» –, prima di riconciliarsi con la Chiesa, e dopo diverse vicissitudini, aveva aderito al fascismo; uno dei più noti vescovi progressisti del secolo scorso, famoso per il suo filo-comunismo, mons. Helder Pessoa Câmara (1909-1999), negli anni della sua gioventù, ma già sacerdote, fu segretario nazionale del movimento fascistico brasiliano delle «camicie verdi» fondato da Plinio Salgado (1895-1975) con il nome di «Azione Integralista Brasiliana» (10).
Tornando al Montesi, sulle pagine della già citata rivista dei fascisti rossi – o, come loro stessi preferivano definirsi, «fascisti di sinistra» –, Il Pensiero Nazionale, pubblica, in evidente chiave antiamericana e antiatlantica (nihil sub sole novi), una sconcertante apologia dell’URSS. «[…] quando ci venne il raro ed onorevole invito di visitare l’Unione Sovietica e le Repubbliche popolari, corremmo a quelle grandi manifestazioni di umanità rinascente, deprecando l’odio e la menzogna che dall’esterno le avviluppano, […] dove, ogni giorno, bagna le proprie mani, pronte e disposte al lavoro, la gente rinnovata già in su l’aurora della giustizia» (11).
Forse anche Franceschini – che certamente non l’ammetterà mai, ma se tra i suoi maestri c’è sempre Prodi, che ne fu grande amico, la cosa è assai verosimile – ammira l’URSS e la rimpiange un po’. Anche perché, in un luogo storico come quello, certamente liberato dalla potenza corruttrice dei ricchi e della ricchezza (ed anche della libertà), un Berlusconi ed un Popolo della Libertà non sarebbero mai stati possibili.
Per fortuna, però, siamo in Italia.
Note:
1) Nicolas Werth, L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all’interno dell’arcipelago gulag, trad it., Corbaccio, Milano 2007.
2) Cfr, fra tutti, Robert Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, trad. it., Liberal edizioni, Roma 2004.
3) Cit. in Richard Pipes, Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin, trad. it., Mondadori, Milano 2000, pp. 405-06 (trad. leggermente modificata).
4) Cit. in Mihail Geller [1922-1997] e Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 132.
5) Cfr. Jasper Becker, La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962 la carestia segreta, il Saggiatore, Milano 1998.
6) Cfr. Jung Chang, con Jon Halliday, Mao. La storia sconosciuta, Longanesi, Milano 2006.
7) Cfr. Aldo Cazzullo, Storie di Dario. Nonno fascista e papà partigiano, in Corriere della Sera, 23-2-09.
8) Ciriaco De Mita, intervista al Corriere della Sera del 23 agosto 1999.
9) Cfr. Paolo Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al Pci. La storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943-53, Mondadori, Milano 2007 (I ed. 1998).
10) Cfr. Massimo Introvigne, Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa, Sugarco, Milano 2008.
11) M. Montesi, Cristiani del lavoro, in Il Pensiero Nazionale, Roma, anno V n. 17-18, 1-15/10/1951, p. 7.