di Flannery O’Connor
Nella primavera del 1960 ricevetti una lettera da Suor Evangelist, la superiora della Casa per malati di cancro “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” di Atlanta. «Questa è una strana richiesta – diceva – ma cercheremo di esporre la nostra storia nel più breve tempo possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni.
Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti in qualche modo furono influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. E’ vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso, un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta, non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?».
Non io, mi dissi. «Si sono offerte suore, e altre persone, ma noi non vogliamo un raccontino pio. Vogliamo un racconto che abbia un reale impatto sulla vita dei lettori, lo stesso impatto che Mary Ann ha avuto su ogni vita che ha toccato. Non c’è bisogno che sia un resoconto fattuale. Potrebbe essere un romanzo con molti altri personaggi, ma con Mary Ann come protagonista».
“SENZA MACCHIA SARESTI PERFETTA” Un romanzo, pensai. Orrore. Suor Evangelist concludeva invitandomi a scrivere la storia di Mary Ann e a venir su per trascorrere qualche giorno nella loro casa di Atlanta e «assorbire l’atmosfera» in cui la piccola aveva vissuto per nove anni. è sempre difficile ficcare in testa a chi non è una scrittore professionista che avere talento non vuol dire essere capaci di scrivere qualunque cosa. Non avevo intenzione di assorbire l’atmosfera di Mary Ann. Non sarei stata capace di scrivere la sua storia.
Suor Evangelist aveva allegato una foto della bambina. Le avevo dato un’occhiata appena aperta la lettera e l’avevo subito messa da parte. La ripresi per darle un ultimo rapido sguardo prima di rispedirla dalle suore. Mostrava una ragazzina con l’abito e il velo della Prima Comunione. Era seduta su una panca e teneva in mano qualcosa che non riuscivo a riconoscere.
Un lato del suo visetto era regolare e luminoso; l’altro lato era protuberante, l’occhio bendato, il naso e la bocca troppo vicini e leggermente fuori posto. La bambina guardava l’osservatore con evidente gioia e compostezza.Dopo aver pensato di aver visto quel che c’era da vedere, continuai a fissare la fotografia ancora a lungo. Dopo un po’ mi alzai, andai allo scaffale e ne tirai fuori un volume dei racconti di Nathaniel Hawthorne. La Congregazione domenicana alla quale appartengono le suore che si erano prese cura di Mary Ann era stata fondata dalla figlia di Hawthorne, Rose. La foto della bambine mi aveva portato alla mente uno dei racconti, La voglia.
Lo trovai e lo aprii alla pagina dello stupendo dialogo in cui Alymer parla per la prima volta alla moglie del suo difetto: «Un giorno Alymer sedeva fissando la moglie con un’espressione preoccupata che crebbe finché non aprì bocca. “Giorgiana – esordì – hai mai pensato che la macchia che hai sulla guancia potrebbe essere tolta?”. “No, davvero”, rispose lei sorridendo; ma percependo la serietà del marito, arrossì.
“A dire il vero, è stata definita così spesso un vezzo che sono stata così ingenua da immaginare che lo fosse davvero”. “Ah, potrebbe esserlo, forse, su un altro viso – replicò il marito – ma mai sul tuo. No, adorata Giorgiana, tu sei uscita così perfetta dalle mani della Natura che questo difetto, così lieve che non sappiamo se definirlo un difetto oppure un pregio, mi sconvolge perché segno visibile dell’imperfezione terrena”.
“Ti sconvolge, marito mio!” gridò Giorgiana, profondamente offesa, per un momento arrossendo di collera, e poi scoppiando in lacrime. “Perché allora mi hai portato via dalla casa di mia madre? Non puoi amare ciò che ti sconvolge!”».
Il difetto sulla guancia di Mary Ann non poteva essere preso per un vezzo. Era qualcosa di palesemente grottesco. Lei apparteneva alla realtà, non alla fantasia. Sentii di dover scrivere a Suor Evangelist che se qualcosa andava scritto su quella bambina, doveva essere proprio «un resoconto fattuale», e proseguii dicendo che se qualcuno doveva raccontare i fatti, soltanto le suore stesse che l’avevano conosciuta e assistita avrebbero potuto farlo.
Ne ero sicura. Allo stesso tempo volevo fosse chiaro che io non ero la persona adatta a scrivere quella storia, e non c’è modo più sbrigativo per liberarsi di un lavoro che farlo fare a chi l’ha prescritto a te. Aggiunsi che se avessero seguito il mio consiglio sarei stata felice di aiutarle nella preparazione del manoscritto, apportando le piccole correzioni che si rivelassero necessarie. (…)
LA MORTE MODERNA E LA VITA DI MARY ANN Il manoscritto arrivò il primo di agosto. Dopo essermi fatta coraggio, mi sedetti e iniziai a leggerlo. Per quanto riguardava la forma non mancava nulla di ciò che fa indignare lo scrittore professionista: quasi tutto era riferito, molto poco drammatizzato; nei punti forti – quando ce n’era uno – l’osservatore sembrava dissolversi, e quando sarebbe servita una parola o espressione esatta, in genere se ne presentava una vaga. Tuttavia appena finita la lettura, dimenticate le imperfezioni di forma, rimasi a lungo a pensare al mistero di Mary Ann. Le suore erano riuscite a trasmetterlo.
Il racconto era incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore era chiamato a fare qualcosa del racconto come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso. Lei e le suore che l’avevano educata, dal suo viso incompiuto avevano modellato il materiale della sua morte. L’azione creativa della vita del cristiano consiste nel preparare la propria morte in Cristo. (…)
La morte è il tema di tanta letteratura moderna: Morte a Venezia, Morte di un commesso viaggiatore, Morte nel pomeriggio, Morte di un uomo. Quella di Mary Ann era la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma infinitamente più rivelatrice. Quando varcò la porta della Casa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, finì nelle mani di donne che non si spaventavano facilmente e che amavano tanto la vita da spendere la propria per rendere sopportabile la condizione di coloro a cui era stato diagnosticato un cancro incurabile. La sua prognosi era di sei mesi, ma visse dodici anni, abbastanza perché le suore le insegnassero ciò che solo poteva avere importanza per lei.
La sua fu un’educazione alla morte, ma non condotta in maniera invadente. Le sue giornate furono piene di cani e vestitini per la festa, di suore e sorelle, di Coca-Cola e panini, e dei suoi molti e diversi amici, da Mr. Slack e Mr. Connolly a Lucius, il giardiniere; da pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita e ai quali, quando andavano via, veniva forse detto di pensare quanto dovessero essere grati a Dio per aver dato loro una faccia perfetta. Ma c’è da chiedersi se qualcuno di loro fosse altrettanto fortunato di Mary Ann. (…)
IL GOVERNO VIOLENTO DELLA TENEREZZA Il vescovo Hyland pronunciò il sermone al funerale di Mary Ann. Disse che il mondo avrebbe chiesto perché Mary Ann dovesse morire. Senza dubbio pensava a coloro che l’avevano conosciuta e che sapevano quanto amasse la vita, lei che una volta aveva stretto con tanta forza un hamburger da precipitare all’indietro la sedia senza lasciarlo cadere; o che pochi mesi prima di morie, con Suor Loretta, aveva avuto un bambino vero da accudire. Il vescovo stava parlando ai suoi familiari ed amici. Non pensava sicuramente a quel mondo, tanto più lontano ma tuttavia ovunque, che avrebbe chiesto non perché Mary Ann fosse morta, ma perché innanzi tutto fosse nata.
Una delle tendenze della nostra epoca è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta screditata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui. Gli Alymer che Hawthorne vedeva come una minaccia si sono moltiplicati. Intenti a tagliar via l’umana imperfezione stanno facendo progressi anche sulla materia prima del bene.
Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un bambino che soffre; l’eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristo per via del massacro degli innocenti. In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede.
Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas. (tratto da A memory of Mary Ann, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1961)