Viaggio nella storia della nostra bandiera
Una celebrazione autentica e fruttuosa del simbolo dell’unità nazionale deve radicarsi soprattutto nei valori che esso rappresenta e veicola. Sarebbe un grave errore indicare una data per la festa del Tricolore unicamente in base a criteri e riferimenti “cronologici” ed “archeologici”, mettendo in secondo piano quelli “simbolici” e “valoriali”. Non importa tanto “la prima volta” che sventolò la bandiera dei tre colori, quanto invece il momento in cui divenne simbolo condiviso delle speranze e dei valori dell’intera nazione.
don Maurizio Ceriani
Già nel 1897, con un’enfasi che non rende giustizia alla verità dei fatti, nel suo estremo bisogno di simboli di unità nazionale, il giovane Regno d’Italia celebrò il centenario del tricolore e Giosuè Carducci ne cantò le glorie con queste parole: “Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani”.
Diversa e più modesta fu invece l’alba della nostra bandiera, senza romantiche evocazioni di Alpi, valli e vulcani, nelle segrete riunioni di cospiratori bolognesi, che nel desiderio di emulare la rivoluzione francese ne copiarono il più possibile i simboli, tra cui la coccarda giacobina, sostituendo il blu d’oltralpe col verde accanto al bianco e al rosso. Correva il 1794 e l’insurrezione di Bologna fallì, chiudendosi con l’impiccagione di Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, ma il tricolore italiano sommessamente era entrato nella storia.
Due anni più tardi Napoleone, entrato da vincitore a Milano il 10 maggio 1796, nella sua cronica fame di soldati, promosse l’organizzazione della “Legione Lombarda” e nell’ottobre dello stesso anno i volontari italiani che si unirono all’esercito francese assunsero il vessillo tricolore in onore dei caduti bolognesi, come bandiera del reggimento cacciatori a cavallo.
Pochi mesi dopo, a Reggio Emilia, nella seduta del 7 gennaio 1797 i delegati della neonata Repubblica Cispadana, accogliendo una mozione di Giuseppe Compagnoni, decretarono: “che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”. Per la prima volta il tricolore rappresentò uno stato italiano, sia pur satellite della Francia rivoluzionaria.
La prima bandiera tricolore Cispadana ebbe i colori disposti in tre strisce orizzontali: il rosso in alto, il bianco in mezzo, il verde in basso. Al centro vi era dipinto il Turcasso o Faretra con quattro frecce, a simboleggiare l’unione delle quattro popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Le lettere “R” e “C”, poste ai lati erano le iniziali di Repubblica Cispadana. La vita della Repubblica Cispadana fu brevissima, perché i capricci francesi – a cui per vent’anni sarà sottoposta la geografia politica italiana dal 1796 al 1815 – disegnarono un nuovo stato: la Repubblica Cisalpina con capitale Milano.
Il Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina, nella seduta dell’11 maggio 1798, decretò che: “La Bandiera della Nazione Cisalpina è formata di tre bande parallele all’asta, la prossima all’asta verde, la successiva bianca, la terza rossa. L’asta è similmente tricolorata a spirale, colla punta bianca”. La Repubblica Cisalpina diventò poi Repubblica Italiana e il 20 maggio 1802 compare una nuova bandiera: su proposta del Ministro della Guerra Trivulzi, il Governo della Repubblica approvò il cambiamento della “Bandiera di terra e di mare” dello Stato.
La forma del nuovo vessillo fu: “un quadrato a fondo rosso, in cui è inserito un rombo a fondo bianco, contenente un altro quadrato a fondo verde”. La decisione adottata restò in vigore, immutata anche dopo che Napoleone ebbe cinto la corona del Regno d’Italia, fino al 1814. Con la Restaurazione il tricolore si eclissò e con gli antichi stati tornarono i vecchi vessilli; a mio avviso nel 1815 finisce quella che può essere indicata come la prima fase nella vicenda storica della nostra bandiera, che chiamerei del “tricolore giacobino”.
Mi pare di poter vedere una seconda fase negli anni che vanno dal Congresso di Vienna alla Prima Guerra d’Indipendenza, cioè dal 1815 al 1848, che si potrebbe appellare del “tricolore insurrezionale”. La vecchia bandiera giacobina viene recuperata nei diversi moti carbonari che percorrono la penisola, spunta qua e là nelle insurrezioni autonomiste e costituzionaliste e infine approda all’utopia mazziniana della Giovine Italia. Il tricolore viene sventolato durante i moti liberali del febbraio 1831 che, scoppiati a Modena per iniziativa di Ciro Menotti, si estendono a Parma e a Bologna.
A Reggio Giuditta Bellerio, vedova del patriota reggiano Giovanni Sidoli, porta alla Guardia Civica costituitasi per l’occasione, la bandiera tricolore che viene poi esposta al balcone del Municipio. Quando poi a Marsiglia Giuseppe Mazzini fonda la Giovine Italia, la bandiera della nuova associazione rivoluzionaria avrà i colori bianco, rosso e verde, con le scritte “Libertà, Uguaglianza, Umanità” da un lato e “Unità, Indipendenza” dall’altro.
In quel momento storico in Italia l’identità nazionale era ancora di là da venire, tanto meno il tricolore poteva esserne simbolo; tuttavia diventò segno comune sotto cui raccogliere un caleidoscopio di sentimenti eterogenei, che andavano disgregando l’ “ordine” uscito dal Congresso di Vienna: dalle aspirazioni di libertà delle classi colte al desiderio di riforme liberali della borghesia imprenditoriale, dalla spinta emancipatrice dall’Austria di larga parte della nobiltà settentrionale e del mondo cattolico, rimasti legati alla secolare tradizione autonomista italiana, alle rivendicazioni delle masse contadine.
Questo fermento che percorre la penisola, come “voglia di nuovo” dai contorni ancora non ben definiti, si catalizzò tra il 1846 e la primavera del 1848 attorno alla figura di Pio IX ed esplose poi incontrollato in quella serie di moti, insurrezioni, tumulti e anche pacifiche riforme – ai quali risulta difficile dare un denominatore comune di “rivoluzione popolare per l’unità d’Italia” – che nei primi mesi del ’48 furono il risvolto italiano della grande rivoluzione europea e il preludio a quella che per noi divenne la Prima Guerra d’Indipendenza. E qui sono convinto si apra la terza fase della storia della nostra bandiera, quella che dura fino ad oggi e che si può definire del “tricolore nazionale”.
Infatti Carlo Alberto, quando rompendo ogni indugio il 23 marzo 1848 passa il Ticino dichiarando guerra all’Austria, si propone come “campione” di quel “desiderio di nuovo” che aleggia nella penisola, re costituzionale e liberale, paladino delle aspirazioni d’Italia; marciando verso la Milano delle cinque giornate vuole dare un segno esplicito agli insorti del Lombardo-Veneto e presentare la sua avanzata non come l’ennesima guerra di conquista sabauda verso est, pertanto ordina: “Le truppe che entreranno sul suolo lombardo inalberino ed assumano la bandiera italiana bianca, rossa e verde, con in mezzo lo scudo di Savoia (croce bianca in campo rosso)”.
Quel giorno naque la bandiera italiana, perché si espresse il primo e forse anche il più autentico sentimento di coscienza unitaria.
Si comprende allora come in quell’epopea primaverile del 1848, non senza il sentimento emozionato proprio del secolo romantico, sotto la “bandiera nuova” – simbolo non tanto dei trascorsi giacobini quanto invece delle nuove aspirazioni, che andavano via via prendendo forma in Pio IX, nelle insurrezioni padane, nel re Savoia che legava le sorti della dinastia alla causa italiana – si raccogliesse, combattese e vincesse l’unico esercito pienamente italiano del Risorgimento.
I carabinieri e i dragoni piemontesi, gli insorti lombardi, i volontari delle università toscane e le truppe granducali, la guardia civica romana, i regolari pontifici del generale Durando e i battaglioni della fanteria napoletana di Guglielmo Pepe, i veneziani di Tommaseo e Manin, la guardia ducale di Parma e di Modena, e persino i reggimenti svizzeri papali, si trovarono fianco a fianco in una guerra forse senza strategia, forse nata da una serie di equivoci ed emozioni, forse così improbabile che nessuno l’aveva nemmeno immaginata, ma che fu l’unico episodio di unione italiana di tutto il Risorgimento.
La Prima Guerra d’Indipendenza fallì, ma il tricolore rimase come simbolo dell’unità nazionale – anche se successivamente questa si realizzò purtroppo solo con guerre di conquista – e giunse fino a noi. Sarebbe allora più giusto e più veritiero che, se ci dev’essere una festa della bandiera, questa sia al 23 di marzo.
Sarebbe un errore e un torto festeggiare il 7 gennaio, data della nascita del tricolore giacobino; un errore perché quella bandiera non significò certo l’identità e la libertà di una nazione quanto invece il peso di una sudditanza politica e culturale; un errore perché fu vessillo aborrito dai popoli italiani che dal 1796 al 1799 diedero vita al più imponente, diffuso, spontaneo e popolare moto insurrezionale che la storia della penisola abbia mai registrato: quello dell’insorgenza anti-giacobina.
Alle poche migliaia di “volontari” italiani arruolati negli eserciti della rivoluzione francese sotto i tricolori cispadani e cisalpini stanno opposti nello scenario della storia centinaia di migliaia di nostri antenati, la cui memoria non può essere obliata né dissacrata: i Vivamaria toscani, la Massa Cristiana lombardo piemontese, gli Insorgenti romagnoli e marchigiani, i Sanfedisti calabresi, i Lazzari napoletani.
Quel tricolore del 1797 fu non già simbolo di libertà ma di oppressione, di violenza e di barbarie, bandiera temuta e odiata dagli Italiani, segno di un potere nemico che voleva sovvertire e depredare, distruggendo le più autentiche tradizioni culturali e i più radicati valori della storia del nostro popolo.