di Massimo Introvigne
I. Da “La città secolare” a “Fuoco dal Cielo”
Trent’anni fa il teologo battista americano Harvey Gallagher Cox divenne famoso con La città secolare (1), un’opera in cui sosteneva che il processo di secolarizzazione e la progressiva diminuzione d’interesse per la religione da parte degli uomini contemporanei erano ormai un dato evidente, che le Chiese cristiane non si potevano ostinare a trascurare. Particolarmente chiara era la scomparsa di ogni interesse socialmente rilevante per gli aspetti più direttamente soprannaturali della religione: escatologia, angeli, diavoli, guarigioni e miracoli.
Anziché lottare contro la secolarizzazione – impresa impossibile, e pertanto puerile – le Chiese dovevano interrogarsi sul loro ruolo nella “città secolare”, a cui avrebbero potuto apportare un utile contributo – accettando modestamente un ruolo limitato, ma almeno salvandosi dalla totale scomparsa – attraverso un impegno di tipo prevalentemente sociale.
La città secolare ebbe un enorme impatto sulla vita di numerose denominazioni protestanti “ecumeniche” – così chiamate in quanto fanno parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese -, che procedettero – una dopo l’altra – a forme di “aggiornamento” secondo le linee indicate dal teologo americano. L’influenza de La città secolare non mancò di farsi sentire anche nella Chiesa cattolica.
A trent’anni di distanza, La città secolare viene ancora sventolata come una bandiera da quanti – particolarmente in Europa – guardano con sospetto alle statistiche e alle teorie che provengono soprattutto da sociologi statunitensi e che mirano a mettere in dubbio il concetto e la realtà stessa della secolarizzazione. Dopo tutto, si obietta, gli stessi Stati Uniti d’America non hanno prodotto anche La città secolare?
Fra coloro che sostengono che si tratta di un’opera superata – o, meglio, che nasceva da un’illusione ottica all’epoca stessa in cui veniva scritta – si schiera ora, forse con sorpresa di qualcuno, il suo stesso autore, Harvey G. Cox. Nel suo volume del 1995 Fire from Heaven, “Fuoco dal Cielo” – un’analisi dell’“ascesa della spiritualità pentecostale e riformulazione della religione nel ventunesimo secolo” (2) – il teologo di Harvard ritorna su La città secolare, un libro, afferma, in cui “cercavo di elaborare una teologia per l’epoca “postreligiosa” che molti sociologi ci avevano prospettato con fiducia come prossima”.
Al contrario, scrive Harvey G. Cox, “oggi è la secolarità [secularity], non la spiritualità, che può essere vicina all’estinzione”. È diventato “ovvio che al posto della “morte di Dio” che alcuni teologi avevano dichiarato non molti anni fa, o del declino della religione che i sociologi avevano previsto, è avvenuto qualcosa di veramente diverso”.
A proposito de La città secolare, il teologo americano aggiunge: “Forse ero troppo giovane e impressionabile quando gli accademici facevano queste previsioni tristi. In ogni caso me le ero bevute davvero troppo facilmente, e avevo cercato di pensare quali avrebbero potuto essere le loro conseguenze teologiche. Ma ora è diventato chiaro che le predizioni stesse erano sbagliate. Chi le faceva […] ammetteva che la fede avrebbe potuto sopravvivere come un’eredità culturale, forse in ridotti etnici o abitudini di famiglia, ma insisteva che i giorni della religione come una forza capace di dare forma alla cultura e alla storia erano finiti. Tutto questo non è accaduto. Al contrario, prima che i futurologi accademici facessero in tempo a ritirare la loro prima pensione, una rinascita religiosa – di un certo tipo – ha cominciato a manifestarsi in tutto il mondo. […] Che stiamo entrando in una nuova “età dello Spirito”, come alcuni osservatori più entusiasti sperano, può essere oppure non essere vero. Ma ci troviamo certamente in un periodo di rinnovata vitalità religiosa, un altro “grande risveglio” se vogliamo chiamarlo così, con tutte le promesse e i pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé, questa volta tuttavia su scala mondiale” (3).
Dopo nove capitoli in cui esamina come e perché le previsioni de La città secolare si sono dimostrate false negli Stati Uniti d’America, in America Latina, in Asia e in Africa, Harvey G. Cox arriva all’Europa e riferisce che, secondo la maggioranza dei teologi europei che ha incontrato negli ultimi anni, “l’Europa è veramente un’eccezione” alla tesi, che ora lo studioso americano fa sua, secondo cui si approssima un risveglio religioso mondiale: in Europa le chiese si spopolano, e per la religione “non c’è nessuna rinascita in vista” (4).
Questa opinione, tuttavia, veniva riferita a Harvey G. Cox principalmente da teologi. I sociologi, anche in Europa, fornivano informazioni diverse. Citando un suo incontro con Eileen Barker, la nota sociologa della London School of Economics, Harvey G. Cox racconta di essersi trovato di fronte, per la Gran Bretagna, a “statistiche […] molto significative, ma ancora una volta non sorprendenti. Mi raccontavano una storia familiare. Negli anni tra il 1985 e il 1990 le ricerche mostrano che i battisti, i metodisti, i presbiteriani, gli anglicani e i cattolici nel Regno Unito hanno tutti perso membri, con le maggiori perdite a carico dei cattolici e degli anglicani, che hanno perso il 10% dei membri di ciascun gruppo. Nello stesso periodo di cinque anni le cosiddette “Chiese cristiane indipendenti” – il che significa soprattutto pentecostali e carismatiche – hanno guadagnato intorno al 30% di fedeli”.
Sulla base di queste statistiche, racconta Harvey G. Cox, “ho cominciato a pensare che forse l’Europa non era, dopo tutto, un’eccezione” (5). Il teologo americano riferisce di aver trovato una notevole resistenza a staccarsi dal modello de La città secolare negli ambienti teologici da lui visitati in Italia.
Tuttavia, quando ha potuto finalmente esaminare statistiche sulla crescita del pentecostalismo in Sicilia – statistiche, aggiunge, completamente ignorate dalla maggioranza dei suoi interlocutori italiani -, sui diversi movimenti carismatici cattolici e sul numero di italiani che si sono recati in pellegrinaggio a Medjugorje e in altri luoghi, il teologo di Harvard ha concluso che l’Italia non è un’eccezione alla regola secondo cui, “benché la frequenza nelle chiese cattoliche e protestanti abbia raggiunto nuovi record negativi in anni recenti, milioni di europei affollano nuovi e vecchi luoghi di pellegrinaggio, spesso non autorizzati” (6).
Con l’eccezione dell’Italia – dove la sua attenzione si è portata anche su nuove forme di devozione cattolica – le conclusioni di Harvey G. Cox derivano principalmente da un lungo esame della corrente pentecostale-carismatica, a cui attribuisce – citando lo specialista di statistiche religiose David Barrett – “oltre quattrocento milioni di seguaci”, “un cristiano ogni quattro nel mondo” (7).
In realtà, le statistiche citate dal teologo americano si riferiscono alla World Christian Encyclopedia, curata da David Barrett nel 1982 (8), e sono pertanto vecchie di tredici anni. Nel 1994 lo stesso David Barrett riteneva che i cristiani pentecostali o carismatici avessero raggiunto la cifra di 446 milioni, con possibilità di raggiungere i 600 milioni di fedeli intorno all’anno 2000 (9). Tenendo presente che le origini del pentecostalismo risalgono al primo decennio del nostro secolo, si comprende come l’impetuosa avanzata pentecostale sia sufficiente, da sola, a smentire il quadro de La città secolare.
Ma vi è di più. Harvey G. Cox affonda impietosamente il coltello nella piaga per quanto riguarda il suo famoso best seller di trent’anni fa, rilevando che non è stato smentito solo in senso quantitativo, ma anche qualitativo. Non solo le statistiche mostrano non un declino ma una rinascita della religione – e, in particolare, del cristianesimo -, ma la rinascita si è verificata proprio nell’area di quel tipo di cristianesimo che sembrava destinato a una più rapida scomparsa.
Il pentecostalismo, secondo Harvey G. Cox, è un cristianesimo “primario” i cui temi centrali sono i segni – a partire dal dono delle lingue -, i miracoli, le guarigioni, l’interesse per la demonologia, il primato dell’escatologia e dell’attesa della fine del mondo, cioè, precisamente, tutti quei temi che non avrebbero dovuto sopravvivere nella nuova “città secolare”. Inoltre il quadro statistico dell’avanzata del pentecostalismo si situa in un contesto più generale – oggi dato per scontato dai sociologi statunitensi -, all’interno del quale tutte le denominazioni protestanti “ecumeniche” – che hanno proceduto negli anni 1970 a forme di “aggiornamento” proprio sulla scorta dell’ipotesi della secolarizzazione – perdono membri, talora fino a rischiare la sparizione, mentre le denominazioni “evangeliche” – cioè quelle che non fanno parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese, accusando questo organismo di essere troppo “progressista” – consolidano le loro posizioni oppure le migliorano.
Su quest’ultimo punto, tuttavia, la posizione di Harvey G. Cox è particolarmente articolata.
Uno degli errori della teologia “progressista” o liberal – di cui, naturalmente, il teologo di Harvard continua a ritenersi un portavoce, senza dichiararsi affatto “convertito” a prospettive diverse – è consistito, precisamente, nel non conoscere in modo sufficiente la corrente pentecostale-carismatica e nel ritenerla, quindi, frettolosamente un’alleata naturale del mondo “evangelico” conservatore e della sua ala più estrema detta “fondamentalista”.
In realtà, nota Harvey G. Cox, il pentecostalismo non è nato da una scelta di campo culturale o teologica, ma da un desiderio di risveglio, di percezione immediata della presenza di Dio e dello Spirito Santo, di esperienza. Soltanto perché questo bisogno non è stato accolto dal protestantesimo maggioritario i pentecostali, a poco a poco, hanno cercato la loro teologia nel mondo evangelico e talora nel mondo fondamentalista, anche se quest’ultimo continua, ancora oggi, a sospettare i pentecostali di eresia e a tenerli a distanza.
Benché negli Stati Uniti d’America di oggi molti pentecostali si schierino politicamente “a destra”, non avviene lo stesso in altri paesi del mondo e la partita non può ancora definirsi chiusa. Di per sé, secondo Harvey G. Cox, il primato dell’esperienza religiosa sul discorso teologico tipico del pentecostalismo potrebbe – e forse dovrebbe – portare a posizioni culturali e politiche “progressiste”, liberal, piuttosto che “conservatrici” o “fondamentaliste”.
Di fatto – per una serie di circostanze storiche – questo, particolarmente negli Stati Uniti d’America, non è avvenuto e i pentecostali sono in genere conservatori nella cultura – per esempio strenuamente anti-abortisti e contrari agli “uguali diritti” per gli omosessuali -, repubblicani in politica e “tradizionalisti” in teologia (10). Ma, aggiunge il teologo di Harvard, il pentecostalismo su scala mondiale è ancora un movimento giovane e non sono da escludere sorprese.
II. Una riflessione sulla corrente pentecostale-carismatica
Non è questa la sede per delineare la storia della corrente pentecostale-carismatica dalle origini ai giorni nostri, nonché i problemi estremamente complessi che questa corrente pone alla ricerca storica, che sarebbe illusorio pensare di poter riassumere in poche righe. L’opera di Harvey G. Cox Fire from Heaven offre tuttavia l’occasione per tre brevi considerazioni.
1. Anzitutto, le osservazioni di Harvey G. Cox attirano l’attenzione sulla compresenza nella storia della corrente pentecostale-carismatica di due elementi, uno di forma e uno di contenuto, ovvero – se si preferisce – uno utopistico e uno storicamente concreto. Come ogni nuova ondata nella storia del protestantesimo, il pentecostalismo è nato come protesta nei confronti delle denominazioni e delle strutture, a cui si pensava di sostituire un network di piccole comunità più o meno indipendenti che – a differenza delle grandi strutture – non avrebbero impedito allo Spirito di soffiare dove voleva.
L’assenza di controllo centralizzato ha dato, appunto, al pentecostalismo delle origini le caratteristiche di un network in cui si trovavano elementi disparati, tutti però tratti dalla tradizione del protestantesimo popolare a cui appartenevano i suoi primi fedeli. La mancanza di contatti – almeno per i primi decenni della loro storia – con la teologia accademica ha isolato i network pentecostali dalle prime spinte modernizzatrici e “progressiste” del nostro secolo, il che spiega perché – con alcune eccezioni – gli impulsi contraddittori presenti nei network più antichi hanno tuttavia sempre mantenuto uno stile culturale generalmente “conservatore”. Con il tempo l’aspirazione a non costituire denominazioni o strutture, e a non darsi un credo determinato, si è – come sempre avviene – rivelata utopistica.
A poco a poco, al network si sono sostituite denominazioni pentecostali, oggi spesso di notevoli dimensioni come le Assemblee di Dio, che contano nel mondo ventidue milioni di seguaci. Constatato questo irrigidimento del pentecostalismo – che ha portato anche a formulazioni più precise dal punto di vista teologico -, l’ideale anti-denominazionale del network è riemerso in una “seconda ondata”, che si è manifestata particolarmente nel Latter Rain Movement – “Movimento della seconda pioggia”, con riferimento a Gioele 2, 23 -, nato in Canada nel 1948, e ha ricompreso in seguito i fenomeni di rinnovamento carismatico all’interno di alcune denominazioni protestanti ecumeniche, influenzando infine il Rinnovamento nello Spirito che, a partire dal 1967, si è diffuso nella Chiesa cattolica.
Quando anche la “seconda ondata” ha cominciato a produrre movimenti organizzati – all’interno delle Chiese e comunità non pentecostali sotto forma di gruppi di rinnovamento carismatico, o all’esterno sotto forma di nuove denominazioni -, l’impulso anti-denominazionale si è manifestato in una “terza ondata”, nata negli anni 1980 fra i professori carismatici del Fuller Theological Seminary, una prestigiosa università evangelica di Pasadena, in California, e caratterizzata da una particolare insistenza sulla demonologia.
Pochi dubitano che il gruppo più rappresentativo fra quelli che hanno aderito alla “terza ondata” – l’Association of Vineyard Churches – si stia ora trasformando a sua volta in una denominazione. Nelle contemporanee culture wars, “guerre delle culture” – espressione che ricorda il bismarckiano Kulturkampf ed è oggi corrente negli Stati Uniti d’America -, dove – intorno ad alcuni temi-chiave come l’aborto, l’omosessualità, la verità storica degli eventi centrali della storia della salvezza cristiana – si confrontano due diverse concezioni della civiltà occidentale, quella nonostante tutto ancora cristiana e quella secolarista e relativista moderna, la scelta di campo dell’immensa corrente pentecostale-carismatica dipende dal prevalere dei suoi utopistici ideali di forma ovvero dei suoi elementi di contenuto.
L’originario rifiuto delle strutture e il prevalere del network sull’istituzione, dell’esperienza sulla teologia – temi ultimamente legati, senza che questo elemento venga normalmente tematizzato, al primato filosofico del divenire sull’essere – potrebbero far schierare molti pentecostali nel campo della modernità. Di fatto, tuttavia, gli esponenti della corrente pentecostale-carismatica si schierano quasi sempre nel campo opposto, facendo prevalere sull’ideale del network – che si rivela impossibile da perseguire in modo duraturo nel tempo – e sullo stesso primato dell’esperienza – che continua a orientare, in vario modo, tutto il mondo pentecostale-carismatico – alcuni elementi di contenuto che, mutuati da altre tradizioni cristiane, sono stati mantenuti fermi.
Giacché nelle “guerre delle culture” non è irrilevante sapere dove si schiereranno cinquecento milioni di cristiani, si comprendono le preoccupazioni di Harvey G. Cox, a cui naturalmente dovrebbero corrispondere preoccupazioni simmetriche da parte di chi non condivide le opinioni liberal del teologo di Harvard.
2. Una seconda osservazione riguarda la rapidissima frequenza con cui si assiste a cambiamenti di scenario nel mondo pentecostale-carismatico. Il volume di Harvey G. Cox è stato scritto nel 1993 (11), e non tiene pertanto conto di un nuovo, spettacolare sviluppo. A partire dal gennaio del 1994 una chiesa canadese dell’Association of Vineyard Churches, situata presso l’aeroporto di Toronto e chiamata Toronto Airport Vineyard, è diventata il centro di straordinari fenomeni carismatici noti come Toronto Blessing, “benedizione di Toronto”.
I fedeli cadono a terra nel “riposo dello Spirito”, ridono – sempre “nello Spirito”, a volte per molti minuti e in modo incontrollabile -, piangono, talora ruggiscono come leoni. Nessuno di questi fenomeni è di per sé nuovo – se ne trovano tracce nella storia della corrente pentecostale-carismatica e anche nei movimenti “di risveglio” del protestantesimo anglo-americano a partire dal Settecento – ma colpisce, nel caso di Toronto, la regolarità con cui si manifestano per sei sere alla settimana da ormai quasi due anni a migliaia di fedeli che ogni sera affollano la chiesa provenienti da tutto il mondo.
Molti arrivano all’aeroporto di Toronto, partecipano a un paio di servizi, ritornano a casa con uno degli aerei successivi portando la “benedizione di Toronto” nella loro congregazione di origine (12).
Soltanto in Gran Bretagna oltre quattromila congregazioni locali – cioè circa il dieci per cento delle congregazioni cristiane, di qualunque denominazione, di tutto il paese – avevano importato la “benedizione di Toronto” prima dell’aprile del 1995 (13).
Molte congregazioni sono state coinvolte nel movimento di Toronto anche in Germania, in Svizzera, in Asia, in Australia oltre che nell’America Settentrionale. A proposito del movimento nato a Toronto si dibatte se si tratti di una “quarta ondata” della corrente pentecostale-carismatica, che sarebbe caratterizzata dall’irruzione del rinnovamento carismatico anche nel mondo protestante “evangelico”, rimasto precedentemente per lo più estraneo – a differenza delle denominazioni “ecumeniche” – ai fenomeni carismatici, oppure – come personalmente mi sembra più esatto – di una nuova fase della “terza ondata”.
Comunque è certo che il movimento di Toronto non è affatto confinato ai fedeli dell’Association of Vineyard Churches. Accorrono all’aeroporto di Toronto battisti, anglicani, metodisti, pentecostali di tutte le ondate, mennoniti e anche cattolici, che costituiscono in media dal quindici al venti per cento dei partecipanti ai servizi serali (14).
Com’era prevedibile, lo straordinario fervore carismatico di Toronto – e qualche fenomeno non del tutto inedito, ma comunque non usuale – hanno provocato anche forti critiche e controversie. L’osservazione diretta mostra come, in realtà, i servizi serali – condotti da pastori di diverse denominazioni: occasionalmente vengono invitati a predicare anche sacerdoti cattolici – seguono uno schema controllato, una sorta di ordine nel disordine, e i volontari che guidano la preghiera vengono sistematicamente incoraggiati a evitare di trasmettere agli altri “profezie” troppo precise ovvero opinioni su argomenti dottrinali controversi.
È piuttosto nelle riunioni pomeridiane di “intercessione” e nei piccoli gruppi che si radunano spontaneamente intorno alla chiesa – o che si formano in altre congregazioni o paesi fra chi è stato a Toronto – che non sempre queste precauzioni sembrano essere seguite. In ogni caso, l’influenza della “benedizione di Toronto” nel mondo pentecostale-carismatico in meno di due anni è stata straordinaria, e obbliga a rivedere alcune prospettive sul suo futuro, particolarmente per quanto riguarda l’Europa centro-settentrionale.
Una terza osservazione – che emerge dall’opera di Harvey G. Cox ed è confermata dal movimento di Toronto – riguarda specificamente la Chiesa cattolica. Harvey G. Cox non ha torto quando osserva che molti teologi cattolici – come loro colleghi del protestantesimo ecumenico – non si sono accorti per decenni del fatto che un movimento cristiano di oltre quattrocento milioni di persone – probabilmente, in termini quantitativi, il più grande movimento di risveglio nella storia del cristianesimo – stava crescendo sotto i loro occhi.
Qualunque cosa si pensi delle sue valutazioni, il volume del teologo di Harvard dovrebbe almeno servire ad attirare sul mondo pentecostale-carismatico l’attenzione maggiore che merita da parte dei teologi, e in particolare dei teologi cattolici (15).
Questo monito dovrebbe valere anche per gli esperti cattolici di ecumenismo, che – quando guardano al mondo protestante – spesso commettono l’errore di prendere in considerazione soltanto il protestantesimo ecumenico delle denominazioni che fanno parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese, qualche volta senza neppur sapere che si tratta di un mondo ormai largamente minoritario, al di fuori dell’Europa, nel contesto del protestantesimo internazionale (16).
Tutto questo non significa sottovalutare la distanza dottrinale che separa la Chiesa cattolica dagli ambienti pentecostali-carismatici non cattolici, né l’ambiguità di fenomeni “inter-denominazionali” che coinvolgono anche i cattolici come il movimento di Toronto. Significa, tuttavia, riconoscere che la straordinaria crescita del mondo pentecostale-carismatico rappresenta un grande “segno dei tempi” che non può essere ignorato semplicemente perché non va nella direzione attesa da quei teologi che, più di altri, hanno insistito sulla necessità di riconoscere i “segni dei tempi”.
Poiché per questi teologi La città secolare è stata per anni una sorta di manuale, si può auspicare che Fire from Heaven li convinca, almeno, che i “tempi” oggi sono cambiati. Per quanto riguarda invece i cattolici non “progressisti” – che nelle culture wars contemporanee si schierano, su molti punti, dalla parte opposta rispetto a Harvey G. Cox – il dialogo con cinquecento milioni di cristiani della corrente pentecostale-carismatica diventa – a prescindere dai diversi problemi di carattere più strettamente ecumenico – una priorità culturale della massima importanza.
Come ho accennato, infatti, non è indifferente per chi liberal non è – come non lo è per i liberal alla Harvey G. Cox – sapere – o contribuire a determinare – da quale parte si schiererà l’immenso movimento pentecostale-carismatico nelle culture wars del ventunesimo secolo.
III. Secolarizzazione, postmodernità e “ritorno del sacro”
I trent’anni che separano La città secolare dall’ultimo lavoro di Harvey G. Cox offrono l’occasione anche per alcune considerazioni di carattere più generale, che mi limito ad accennare in forma di tesi.
1. Il dibattito sulla secolarizzazione – che costituisce, da sempre, uno dei temi centrali della sociologia della religione – sembra cristallizzato, da molti anni, in una sorta di polarizzazione geografica. La maggior parte dei sociologi statunitensi e, più in generale, di lingua inglese, ritiene che la secolarizzazione costituisca un errore di prospettiva, una semplice illusione ottica che ha scambiato la perdita di vigore di una parte del mondo delle religioni per una perdita di vigore della religione in generale.
Da una parte – secondo questa teoria – i sociologi dell’Europa continentale hanno generalizzato quanto succedeva nei loro paesi, ipotizzando che quello che avveniva in nazioni come la Francia – dove effettivamente il declino della religione in genere è stato rapidissimo – si verificasse su scala internazionale, il che non era vero.
Dall’altra parte, i sociologi europei avevano concentrato la loro attenzione sulle statistiche relative alle denominazioni protestanti ecumeniche – e, limitatamente a certi paesi, alla Chiesa cattolica -, ritenendo che il declino quantitativo di queste denominazioni fosse sinonimo di un declino della religione o almeno della cristianità in genere: tesi errata, perché le perdite delle denominazioni “ecumeniche” erano più che compensate dagli incrementi – soprattutto negli Stati Uniti d’America, ma anche in America Latina, in Africa, in Asia e in una certa misura in Europa – delle denominazioni “evangeliche” e, in particolare, del pentecostalismo (17).
Dal canto loro, i sociologi europei continuavano a ritenere la secolarizzazione un fenomeno più o meno universale. Più recentemente – tuttavia – il dibattito si è spostato sulla definizione di che cosa la secolarizzazione precisamente sia. Accanto alle classiche teorie quantitative – che interpretavano la secolarizzazione come semplice diminuzione progressiva dell’interesse per la religione – sono così emerse teorie qualitative. Queste ultime postulano che la secolarizzazione è un fenomeno reale e, almeno in Occidente, universale, ma non consiste principalmente in un declino quantitativo dell’interesse per il sacro e la religione. Questo interesse, al contrario, può anche crescere.
La secolarizzazione è un processo qualitativo nel corso del quale la religione si marginalizza e determina in misura sempre minore le grandi scelte culturali, morali e politiche (18). A questo processo di marginalizzazione – che in certi paesi determina una vera e propria “scristianizzazione” della vita pubblica e privata – corrisponde un successo di forme religiose nuove che o non pretendono di orientare la cultura ovvero non sono attrezzate per svolgere questo compito.
Da ultimo, tuttavia, la secolarizzazione, intesa in senso qualitativo, favorisce la riduzione della religione a semplice religiosità – e spesso in Occidente a una “nuova religiosità”, diversa nelle sue dottrine dal cristianesimo -, a un believing without belonging, a un “credere senza appartenere”, o a una “deistituzionalizzazione” della religione, secondo le formule di successo di due sociologhe europee contemporanee, Grace Davie e Danièle Hervieu-Léger (19).
La secolarizzazione, beninteso, non va confusa con il secolarismo – spesso inopportunamente trascurato dalle analisi sociologiche -, cioè con la promozione attiva della secolarizzazione, in senso sia quantitativo che qualitativo, da parte di forze organizzate e potenti. In ogni caso, fatti come la crescita del pentecostalismo confermano la crisi delle teorie quantitative della secolarizzazione. Ma, a mio avviso, non smentiscono le teorie qualitative, e confermano che sono anzi più adeguate per comprendere il fenomeno.
2. Si collegano oggi volentieri fenomeni come quelli descritti da Harvey G. Cox alla dialettica fra moderno e postmoderno. Sfortunatamente, tuttavia, non esiste una definizione del postmoderno – o della postmodernità – largamente condivisa. Il punto di partenza della discussione sul postmoderno è, in genere, la crisi dei miti centrali della modernità: la “ragione” – nel senso illuminista del termine -, la scienza, il progresso e la democrazia. L’epoca postmoderna è, in senso cronologico, l’epoca successiva alla crisi di questi miti. Oltre questa semplice constatazione comincia il disaccordo.
Per i primi teorici del postmoderno – che, in genere, venivano dalla critica letteraria – la postmodernità è l’epoca in cui non si crede più che per ogni domanda esista una sola risposta “razionale” e “scientifica”. Ciascuno formula la risposta che più gli aggrada, e non vi è nessun criterio per affermare che una risposta sia più o meno “vera” di un’altra.
Dalla letteratura l’interpretazione postmoderna si è estesa a tutta la vita sociale, così che oggi non è raro sentir affermare che non vi è nessuna ragione certa per sostenere che la medicina è una scienza più “sicura” della magia, o la storia accademica è più “vera” della ricostruzione del passato effettuata dal medium in trance o da chi guarda in una sfera di cristallo.
Quando si leggono queste affermazioni ci si rende tuttavia conto che si può parlare di epoca postmoderna in due sensi diversi. Anzitutto – in senso sociologico – si può constatare semplicemente una serie di fatti: caduti i miti della modernità, per una percentuale significativa dei nostri contemporanei oggi la scienza non è più sicura della magia, la medicina della fede nelle guarigioni miracolose, e così via.
La diffusione, socialmente rilevante, di questa persuasione può essere misurata attraverso strumenti sociologici appropriati. Diversa è la teoria dei filosofi del postmoderno secondo cui è giusto che sia così, e il reale è semplicemente un fascio di infinite, possibili interpretazioni. Questo tipo di teorie – per quanto si annuncino come il “nuovo” assoluto – rappresentano semplicemente un’ulteriore, forse più estrema, gradazione di quel relativismo che costituiva già l’essenza della modernità.
Se, invece, ci si limita al fatto, si può semplicemente constatare che la crisi dei grandi miti moderni – che si può chiamare, se si vuole, passaggio all’epoca postmoderna – rimescola le carte e rimette tutte le posizioni sulla stessa linea di partenza: scienza e magia, “ragione” e intuizione, e così via. Si spiegano così fenomeni che hanno sorpreso molti, dal massiccio ritorno della magia negli ultimi decenni al ritorno, all’interno del cristianesimo, di una religiosità “primaria” fondata sull’immediatezza dei miracoli, delle guarigioni, delle profezie escatologiche come quella descritta nell’ultimo lavoro di Harvey G. Cox.
3. La crisi della modernità – che, nella sua linea principale, era certamente antireligiosa, e aspirava a sostituire le risposte religiose alle grandi domande dell’uomo con risposte di altro tipo presentate come “scientifiche” – fa anche da sfondo a quello che molti – e lo stesso Harvey G. Cox – descrivono come un grande risveglio religioso su scala mondiale.
Non mancano, in effetti, gli indicatori quantitativi – anche al di fuori del pentecostalismo – per sostenere la tesi che l’interesse per temi religiosi – o che comunque hanno a che fare con il sacro – non soltanto non è diminuito, come postulavano le teorie quantitative della secolarizzazione, ma sta lentamente aumentando dopo essersi, peraltro, così abbassato nei decenni e nei secoli in cui i miti della modernità dominavano incontrastati, da rendere difficile dire se comunque non permanga tuttora in Occidente una maggioranza di persone “non religiose”.
Per i cattolici questo risveglio religioso è insieme, come si suol dire, una buona notizia e una notizia cattiva. È una buona notizia, perché mostra come – nonostante secoli di propaganda “moderna” – il senso religioso sia capace di riemergere, insopprimibile, presso un numero significativo di nostri contemporanei.
È una notizia cattiva, perché il senso religioso riemerge in forme inaspettate – spesso “deboli”, poco istituzionali, poco capaci di incidere sulla cultura e sulla società – e solo in una piccola misura spinge i nostri contemporanei a ritornare alle Chiese e comunità un tempo maggioritarie. Per la parte maggiore si rivolge a forme di religiosità individualistiche non strutturate – come avviene nel cosiddetto New Age (20) – o a movimenti religiosi di origine più recente, come il pentecostalismo o le nuove religioni.
Il risveglio religioso di cui tanto si parla esiste, ma è un fenomeno strutturalmente ambiguo. La Chiesa cattolica – e ancor più le denominazioni protestanti ecumeniche – non ne hanno tratto grande vantaggio per una serie di ragioni complesse: una delle principali consiste nel fatto che le teologie “aggiornate” – nel caso cattolico “post-conciliari” – hanno pensato di salvarsi inseguendo la modernità senza rendersi conto – come oggi nota Harvey G. Cox – che stavano nascendo, al contrario, grandi movimenti di protesta contro tutto quello che si presentava come moderno.
Di fronte all’ambiguità del risveglio religioso postmoderno sono possibili diversi atteggiamenti. È in corso, anzitutto, una reazione in nome della modernità che squalifica il nuovo interesse per la religione e la religiosità come irrazionalismo socialmente pericoloso. Non è sorprendente che sia questo l’atteggiamento del cosiddetto “movimento anti-sette” di origine laicista – che sempre di più si va precisando come un movimento ostile non solo ai nuovi movimenti religiosi, ma anche al protestantesimo evangelico e al pentecostalismo -, bastione di una difesa acritica della modernità.
È più singolare – ma non del tutto imprevedibile – che il risveglio religioso contemporaneo infastidisca anche un buon numero di ambienti cattolici e protestanti – ecumenici -, non disponibili a una nuova “conversione” dopo essersi appena convertiti alla modernità. Sostenere questo “passato che non vuole passare” sembra, tuttavia, per i cattolici e per gli uomini religiosi in genere, una posizione insieme pericolosa – perché fa il gioco dei difensori di una modernità essenzialmente anti-religiosa – e sterile, perché le campagne propagandistiche raramente fermano i processi storici.
Di fronte a questo ambiguo risveglio occorre piuttosto avere pazienza e, insieme, capacità di riflettere e di sperare. Il fatto che una sete di religiosità – anche, per usare l’espressione di Harvey G. Cox, “primaria” – si manifesti nuovamente nell’epoca postmoderna non è certamente, di per sé, un fenomeno negativo. Perché questa sete possa essere soddisfatta nella verità – e preservata da risposte nel migliore dei casi approssimative, nel peggiore semplicemente false – è necessario che le sue esigenze vengano comprese, analizzate, valutate con attenzione.
Perché questa valutazione sia possibile, è necessario che tutti – teologi “post-conciliari” compresi – si rendano conto che il quadro dipinto ne La città secolare non è più adeguato o, più probabilmente, non è mai stato adeguato, come oggi lo stesso autore di quel fortunato volume dichiara onestamente di riconoscere.
Note
(1) Cfr. Harvey G. Cox, The Secular City, Macmillan, New York 1965 (trad. it., La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968).