Intervista pubblicata su Panorama n. 133
Dagli esordi marxisti alle polemiche sul consenso al fascismo. L’autore del “Passato di un’illusione” giudica l’importanza del padre del revisioniamo italiano. Intervista con François Furet
a cura di Marina Valensise
A me sembra duplice. L’originalità fondamentale di De Felice consiste nell’aver scelto il fascismo come tema di un’ampia indagine storiografica, che avrebbe occupato la sua esistenza. Da questo primo aspetto se ne può dedurre un secondo, che è consistito nell’affrontare l’argomento a partire dalle fonti e non già da ciò che era diventato per l’opinione pubblica nel dopoguerra.
Il fascismo, dopo essere stato sconfitto, era stato oggetto di una condanna morale talmente forte che era estremamente difficile considerarlo da un punto di vista storico. Non voglio dire con questo che la condanna non fosse giustificata: lo era. Ma non al punto da arrivare alla censura di chi volesse guardare la questione con gli occhi dello storico. Renzo De Felice è stato uno dei rari studiosi che hanno avuto subito il coraggio, anzi, l’audacia intellettuale di esercitare le regole del mestiere di storico su un tema circondato da una forte passione collettiva.
Marxista di formazione e militante comunista negli anni di gioventù, sino all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, De Felice ha iniziato la sua carriera come studioso del giacobinismo, prima d’intraprendere la biografia di Mussolini. Questa esperienza della militanza in che misura ha contribuito, secondo lei, a far uscire la storiografia contemporanea dai confini dell’insegnamento universitario
Renzo De Felice apparteneva alla mia stessa generazione e ha condiviso il mio stesso abbaglio di gioventù, visto che tutti e due, negli anni del dopoguerra, abbiamo subìto l’attrazione profonda dell’idea comunista. Questo abbaglio probabilmente è la radice esistenziale della sua opera storiografica.
Che cosa pensa del metodo De Felice e della sua avversione all’astrattezza?
Sì, De Felice diffidava delle teorie astratte, in cui sospettava una filosofia della storia, aperta o nascosta. Dopo il periodo marxista (che del resto non è una cattiva introduzione alla storiografia), era ritornato a un’epistemologia positivistica, fondata sulla scienza della costituzione dei fatti, la sola capace di rivelare la verità. In tal modo, aveva acquisito sul proprio tema di studio il controllo di un volume di conoscenze straordinario, a cui nessun altro storico è mai andato vicino.
Ha dedicato poi un’attenzione scrupolosissima al trattamento di questi dati, nell’intento di ricostruire la successione cronologica degli eventi, anziché proporne un’interpretazione causale. In fin dei conti, però, è la sua opera a far capire meglio che cosa è stato, nella realtà storica, il fascismo mussoliniano. L’ironia del successo di De Felice è che la sua “modestia” metodologica è stata il fondamento di una delle più grandi opere storiografiche sul XX secolo.
Il primo tomo della biografia di Mussolini, “Mussolini il rivoluzionarlo (1883-1920)”, pubblicato da De Felice nel 1965, fece scalpore per l’interpretazione del fascismo come movimento rivoluzionario, iscritto in una tradizione democratica di sinistra. Come giudica lei, oggi, la fecondità di questa idea? Vi ha trovato ispirazione per la sua lettura del XX secolo?
Sì, certo. Mi sembra incontestabile che nel caso italiano il fascismo nasce a sinistra, non solo perché Mussolini proviene dalla sinistra massimalista del Partito socialista, ma anche perché il movimento che egli inventa si inscrive nella continuità del Risorgimento e degli ideali risorgimentali. Anzi, io penso che si debba andare oltre, mostrando come l’invenzione che fu propria di Mussolini consistette nel recuperare l’idea rivoluzionaria a favore della destra, che nel XIX secolo, in Europa, era rimasta in larga misura prigioniera delle difficoltà senza via d’uscita rappresentate dall’idea controrivoluzionaria. In sostanza, era sottomessa a ciò che detestava.
A partire dal fascismo, anche la destra europea avrà un suo progetto esclusivo per superare l’universo borghese, per creare una comunità e un uomo nuovi, liberi dall’alienazione. lo penso che nulla del XX secolo è comprensibile, se non si capisce che la passione rivoluzionaria, da Mussolini in poi, esercita il proprio fascino anche su quelli che si pongono a destra dello schieramento politico.
Condivide lei la distinzione che De Felice ha stabilito tra il fascismo italiano e il nazismo tedesco?
Sì. Lo seguo anche in questa distinzione: non solo perché il fascismo italiano è stato un’esaltazione della nazione, mentre il nazismo si è costruito sull’idea razzista, ma anche perché il regime di Mussolini è ben lunga dall’aver costituito un disastro di tipo apocalittico nella storia italiana, paragonabile a quanto si è prodotto in Germania con il nazismo. Anzi, io tenderei persino ad andare un po’ oltre De Felice nella separazione tra i due regimi, e a escludere il regime italiano dal concetto stesso di “totalitarismo”.
È un po’ paradossale, giacché il termine “totalitario” è un’invenzione di Mussolini o dei fascisti italiani. Eppure, nel regime di Mussolini non troviamo quel controllo assoluto della società da parte dello Stato, quella rivoluzione operata nel tessuto sociale che invece appare sin dai primi anni nel nazismo. Di fatto, il concetto di totalitarismo, secondo me, accomuna il regime di Stalin e quello di Hitler, anziché quelli di Mussolini e di Hitler. Fra l’altro, non sono sicuro che lo stesso De Felice non propendesse in questo senso, quando parlava di “gradi” che separano le esperienze totalitarie, come nell’ultima discussione che abbiamo avuto insieme, dove lascia aperta la questione.
Nel 1974, la pubblicazione del quarto tomo della biografia di Mussolini, “Gli anni del consenso: 1929-1936”, ha infranto uno dei tabù più inveterati dell’antifascismo democratico militante, rivelando l’entusiasmo degli italiani per la politica fascista all’epoca della guerra d’Etiopia e dell’impero. L’idea di consenso ai regimi totalitari, oggi, per gli storici è una verità dimostrata. Ma per molti è ancora un’idea difficile da accettare. Come mai?
Di fatto, il dominio dell’ideologia antifascista nel dopoguerra ha reso quasi impossibile capire perché il fascismo è stato un regime popolare. De Felice ha riportato questa dolorosa questione, che effettivamente è una delle questioni centrali dell’epoca, nella storia del XX secolo. Tra il 1929 e il 1936, Mussolini e il suo regime non solo sono popolari in Italia, ma godono di una reputazione favorevole in quasi tutta l’Europa, compresa l’Europa delle democrazie. Questo fatto è un buon esempio del punto dal quale siamo partiti.
Il secondo dopoguerra ha reso quasi impossibile la ricerca delle ragioni della popolarità del fascismo. Renzo De Felice ha avuto l’intrepidezza intellettuale e morale, nonostante gli insulti e gli attacchi subiti, di affrontare il problema. t un interrogativo che naturalmente porta molto lontano nella revisione di una storiografia ricalcata sulle passioni politiche del dopoguerra.(…)
Dominati dai mass media e dal collegamento informatico planetario, oggi noi stiamo assistendo alla distruzione della memoria e della tradizione. li mestiere di storico avrà ancora un senso nel nostro futuro? A quali condizioni?
In realtà, l’evoluzione attuale è percorsa da un doppio movimento. Da un lato, i progressi della tecnica strappano sempre di più l’uomo moderno al passato e alla tradizione. Rafforzano l’ambizione fondamentale della democrazia di autoistituirsi come società attraverso un atto d’associazione volontaria, rinnovato costantemente da parte dei propri membri. Le democrazie moderne sono ossessionate dal cambiamento, dal futuro, dalla continua invenzione dell’uomo da parte di se stesso, e sono persino troppi gli esempi del disprezzo o dell’ignoranza in cui versano, ogni giorno di più, nei confronti del passato, anche prossimo.
Da un altro lato, però, lo sradicamento temporale dell’individuo moderno è generatore di angoscia. Il cittadino di oggi riesce sempre meno a trovare il proprio posto nell’ordine delle generazioni o in una realizzazione collettiva di ordine storico. Ossessionato dal cambiamento, ha anche paura dell’avvenire. Si spiega così, nelle nostre società, la passione per le identità culturali, dal villaggio alla nazione, l’attenzione verso il patrimonio storico-artistico, nei suoi molteplici aspetti, e persino l’idealizzazione del passato preindustriale.
È uno stato d’animo diffuso, che forma un terreno propizio a una grande curiosità nei confronti del passato e può favorire la ricerca storica, a condizione che gli storici aggiungano alla domanda d’identità culturale la passione della ricerca e della verità. L’opera di De Felice, da questo punto di vista, è un modello. Resterà nel tempo come un monumento di coraggio intellettuale e di lucidità storiografica.