I due fidanzati devono affrontare numerose sfide se non vogliono finire prigionieri di situazioni capaci di sabotare il loro bagaglio di belle speranze. Per il benessere affettivo e relazionale delle future famiglie si dovrebbe pensare a una sorta di “contratto” comunicativo.
di Vittoria Cesari Lusso
(docente universitaria presso le Università di Ginevra, Lugano e Neuchâtel, ricercatrice e terapeuta della comunicazione)
Tra queste due polarità troviamo tutta una casistica di situazioni intermedie: si stava già assieme durante le vacanze; ciascuno aveva già un proprio appartamento indipendente, ciò che consentiva incontri più o meno fugaci e furtivi; anche dopo il matrimonio, si vive e si lavora in città diverse per cui ci si ritrova solo per il fine settimana.
La situazione che comporta i più radicali cambiamenti sul piano comunicativo è senza dubbio quella più tradizionale. La prenderò quindi come situazione di riferimento per evidenziare una serie di sfide che i due protagonisti devono affrontare se non vogliono finire prigionieri di trappole comunicative capaci di sabotare il loro bagaglio di belle speranze. Ma la riflessione si potrebbe rivelare utile anche per coloro che rientrano negli altri modelli.
Cos’è che genera cambiamenti nella comunicazione durante il passaggio dal fidanzamento al matrimonio? Ci sono almeno tre fattori che meritano di essere evidenziati: il tipo di relazione; le questioni di cui si parla; il tempo. Vediamoli con ordine.
La relazione tra due fidanzati è in genere caratterizzata da una certa dose di reciproca idealizzazione e dal fatto che ciascuno impersona per l’altro una sorgente (più o meno reale o sognata) di gratificazioni affettive, e di altro tipo. Tutti i grandi studiosi dei processi psicologici comunemente indicati con le nozioni di “identità personale” e “stima di sé” (ad esempio, Erikson E.H., Winnicott D.W., Mead G.H.) hanno messo in evidenza il ruolo svolto dallo “sguardo dell’altro” (la madre, il padre in primo luogo) nella costruzione di un’immagine positiva del proprio sé.
I gesti dell’amore
Dopo l’infanzia, le fasi dell’innamoramento e del fidanzamento con i loro rituali comunicativi costituiscono una delle esperienze di vita maggiormente capaci di nutrire l’identità positiva del soggetto. Cosa succede infatti di solito in questi momenti? Succede che gli innamorati non cessano di proferire parole e promesse che fanno sentire l’altro unico, straordinario, meraviglioso, degno di ammirazione e capace di stupire.
E oltre alle parole, ci sono gli sguardi, i gesti affettuosi, le attenzioni. Linguaggi spesso ancora più potenti delle parole stesse. Tutto questo avviene anche perché la relazione con l’altro non viene data per scontata e la persona amata è vista come un terreno tutto o in parte ancora da conquistare. Il desiderio dell’altro, che conosce sfumature appassionate in questa fase, funziona insomma come una potente lente che esalta le qualità della persona amata, celandone nel contempo i limiti.
Il matrimonio e l’inizio della convivenza segnano quindi un importante cambiamento psicologico su questo piano: il desiderio si è realizzato e la relazione con l’altro assume ormai i caratteri del bene acquisito su cui si può contare. Certo, oggi, con il divorzio largamente praticato e con l’allentamento delle norme morali riguardanti la fedeltà, un certo grado di incertezza rimane. Tuttavia, dopo il fatidico “sì” in chiesa o in municipio qualcosa cambia sul piano della percezione: il partner si trasforma da soggetto ideale non ancora definitivamente espugnato in persona reale, presente nel quotidiano.
Le questioni di cui si parla. Prima del matrimonio, gli argomenti di cui i due promessi sogliono parlare contribuiscono quasi sempre a rafforzare l’immagine dell’altro come dispensatore di gratificazioni. Si parla di ciò che amiamo nell’altro, di gusti, idee e valori che si condividono; di amici e nemici comuni; di progetti vicini e lontani da realizzare insieme.
Dopo il matrimonio gli scambi dovranno allargarsi a tutta una serie di compiti quotidiani (a volte anche alquanto gravosi e fastidiosi) che implicano un’infinità di decisioni da negoziare e continui scambi per stabilire chi fa che cosa. Tale allargamento prenderà a volte la forma di “alluvione”, nel senso che non ci sarà quasi più spazio o energie per alimentare il dialogo con scambi stile fidanzamento. In un mio recente libro sulla comunicazione interpersonale (Cesari Lusso V.) ricordo a questo proposito che viviamo nell’epoca e nelle società della negoziazione perenne dei rapporti interpersonali.
Diversamente accadeva in passato o accade tuttora in altre culture. In altre parti del mondo i diversi ruoli (ad esempio, ciò che deve fare un marito, oppure una moglie) sono rigorosamente codificati e predeterminati. Ciò che invece spesso non è ben determinato a priori è il prezzo delle varie merci: quando viaggiamo in quei Paesi ci stupiamo – a volte ci scandalizziamo – degli infiniti (estenuanti, per alcuni di noi) mercanteggiamenti che si fanno nei souk.
Ebbene, da noi, se è vero che non si contratta quando si va al supermercato, quante e quante negoziazioni interpersonali si svolgono in famiglia! Si negozia: a chi tocca fare la spesa, pagare le fatture, portare i figli dal pediatra, prendere questa o quella decisione quotidiana, come stabilire chi invitare, se andare o no a pranzo dai suoceri, dove passare le vacanze, ecc… Non a caso, quando arriva il momento delle decisioni concernenti i preparativi per il matrimonio, iniziano in certi casi a manifestarsi i primi “temporali comunicativi”.
Il fattore tempo entra in gioco poiché con il matrimonio aumenta solitamente il tempo che si trascorre assieme. Se due persone decidono di sposarsi è anche perché ciascuna rappresenta agli occhi dell’altro la compagnia più gradevole che si possa immaginare. Quando si è fidanzati, l’idea di stare sempre assieme e di fare tutto assieme appare come una prospettiva ricca di infinite piacevoli e dolci promesse.
Il ragionamento è in fondo il seguente: se adesso che siamo fidanzati è bellissimo ritrovarci qualche mezza giornata alla settimana, quando potremo trascorrere assieme sette giorni su sette la dose di piacere non potrà che aumentare proporzionalmente. Il ragionamento spesso mostra dopo il matrimonio qualche pecca: in effetti, anche le cose più buone al mondo stancano un po’ se sono assunte in overdose.
Quanto detto non vuole scoraggiare il matrimonio, anzi! Quando funziona, la vita a due rappresenta uno dei fulcri della terrena felicità. Ma per costruire una relazione che duri negli anni con reciproca soddisfazione, occorre investire molte energie e prendere una serie di precauzioni, che concernono anche la comunicazione. Su questo piano, se si vuole avere il massimo di probabilità di far parte tra venti, trenta, quarant’anni delle coppie che hanno saputo costruire una gratificante e stabile relazione, è importante superare alcune convinzioni-trappola che elenco qui di seguito.
Un modo per essere più sicuri di superarle, è quello di stipulare prima del matrimonio una sorta di contratto comunicativo, contenente alcune clausole che mi sembrano essenziali per una sana comunicazione di coppia. Il cinema, la televisione e la stampa popolare ci mostrano che va di moda oggi tra i vip stipulare contratti matrimoniali per regolare a priori le questioni finanziarie e tutti i dettagli in caso di divorzio. Personalmente mi sembrerebbe più utile per il benessere affettivo e relazionale delle future famiglie che si affermasse la moda dei contratti comunicativi.
Prima trappola: pensare che sul piano della comunicazione tutto sarà come prima automaticamente. È la questione di cui ho parlato nelle righe precedenti, quindi mi limito qui a citare le clausole da inserire nel contratto. Gli sposi si impegnano a:
■ praticare almeno tre volte a settimana aspetti della comunicazione correntemente utilizzati nel fidanzamento, quali complimenti reciproci, sguardi positivi di ammirazione, piccole sorprese;
■ stabilire regole chiare su chi fa che cosa e esplicitare con serena chiarezza le reciproche esigenze e aspettative;
■ concedersi rispettivamente, se auspicato, spazi di autonomia per praticare attività o frequentare amici in modo indipendente.
Seconda trappola: pensare che non si abbia bisogno di imparare ad ascoltare il proprio partner. Più approfondisco le mie ricerche e i miei studi in materia di comunicazione e più mi convinco che saper ascoltare non è una manna che viene dal cielo, ma una pianticella che va coltivata e accuratamente accudita. Essa sembra proprio non crescere spontanea in natura.
Forse, durante il fidanzamento ci si ascolta di più, ma in generale in molte coppie la comunicazione avviene secondo questo schema: «Sai, caro, oggi è stata una giornataccia in ufficio»; «Non parlarmene, a me è andato tutto storto»! Oppure, «Da un paio di giorni ho un po’ di mal di testa»; «Adesso che lo dici, mi fai venire in mente che c’è stato un periodo in cui avevo paura che la testa mi scoppiasse».
Cosa voglio dire con questi esempi? È che anche in età adulta si conserva una certa dose di egocentrismo infantile, e in genere si tende a parlare più volentieri di ciò che ci concerne in prima persona che ad ascoltare in modo interessato ciò che l’altro vorrebbe comunicarmi.
Clausola da inserire nel contratto: quando il mio coniuge desidera parlarmi delle sue gioie o dei suoi dolori, mi impegno a non mettere in avanti subito le mie proprie gioie e i miei propri dolori, bensì gli dedico tutta la mia attenzione affinché possa esprimere quello che sente, magari cercando anche di fare domande pertinenti per aiutarlo a sviluppare ciò che desidera dirmi.
Terza trappola: pensare che quando si vuol comunicare tutti i luoghi vanno bene. Non è vero: un contesto adatto non solo è opportuno, è indispensabile. Clausola da inserire nel contratto: quando abbiamo qualcosa di importante da dirci, evitiamo di farlo in condizioni di fretta, di nervosismo o in presenza di altre persone, ma cerchiamo di scegliere un luogo e un momento adatto.
Quarta trappola: credere che chi mi ama possa facilmente indovinare cosa desidero e sento senza che io lo dica. È vero che la persona di cui mi sono innamorato mi ha spesso mostrato che riesce a intuire meglio di chiunque altro cosa succede dentro di me. Si tratta di una sensazione meravigliosa. Come era meraviglioso da piccoli accorgersi che gli adulti erano capaci di mettere delle parole sui nostri sentimenti, sensazioni e bisogni inespressi.
Cosa succede infatti nel primo periodo della vita, quando il cucciolo umano non sa ancora parlare? Succede che gli altri parlano per lui, interpretando i suoi gorgheggi e i suoi pianti: «Ah… hai fame! Hai caldo! Vuoi dire che ti piace! Reclami delle coccole! Ti fa male il pancino!».
Poi il piccolo comincia a parlare. Grande conquista, ma come ben mostrano tutti gli studi sulla psicologia dello sviluppo, tutte le conquiste evolutive hanno un prezzo da pagare: così come quando si impara a camminare si deve abbandonare il piacere di essere sempre portati in braccio, quando si impara a parlare si deve rinunciare al comfort di “essere indovinati”. Anche in età avanzata conserviamo poco o tanto la beata speranza che chi ci sta vicino indovini cosa vogliamo senza bisogno di dirlo.
Vorremmo insomma che chi ci sta accanto fosse una sorta di veggente. Diventare adulti vuol anche dire abbandonare tale sogno e imparare a esprimere in prima persona, con parole adeguate, tutta una serie di desideri, bisogni, percezioni, aspettative che il nostro prossimo non può indovinare.
Clausola da inserire nel contratto: ti sarò grato(a) quando indovini quello che c’è nella mia mente e nel mio cuore, ma se ciò non accade mi impegno a esplicitarlo con parole adeguate.
Quinta trappola: essere costantemente convinti che se la comunicazione non funziona la colpa è sempre degli altri! Nei suoi celebri lavori sulla comunicazione Jacques Salomé afferma che il problema centrale nelle relazioni interpersonali è passare “dal reazionale al relazionale”.
Reazionale è la comunicazione che soggiace a quella che potrebbe essere chiamata la dittatura delle emozioni negative. Parlo per sfogare le mie paure, la mia rabbia, il mio nervosismo, le mie frustrazioni, le mie antiche nevrosi, senza tenere in considerazione l’effetto che le mie parole avranno su di te. Senza preoccuparmi insomma della nostra relazione.
È un modo questo di parlare che fa un uso smisurato di frasi del genere «Tu non capisci niente», «Sei tu che…», «Non si può discutere con te», «Tu mi fai arrabbiare», «È tutta colpa tua». Un’infinità di Tu…Tu… Tu… insomma, che ricordano l’esasperante suono di un telefono occupato!
È un modo di esprimersi che costituisce un vero e proprio virus nefasto per la salute della relazione. A questo proposito direi che le relazioni si “ammalano” più frequentemente delle persone! Esistono vaccini contro tale virus?
Fattori protettivi
Molti studiosi hanno isolato alcuni fattori protettivi, tra i quali figura al primo posto lo sviluppo di tre capacità fondamentali:
■ avere consapevolezza delle proprie emozioni, ossia riconoscere i propri talloni di Achille emotivi che ci fanno iper-reagire;
■ utilizzare un linguaggio Io (Gordon T.): «Io mi innervosisco… Io mi sento frustrato quando vivo questa o quella situazione». In tal modo si assume la responsabilità dei propri sentimenti senza accusare subito l’altro;
■ capire che non posso cambiare l’altro, ma possono cambiare l’effetto che l’altro ha su di me e il tipo di relazione che io ho con lui.
La clausola da inserire nel contratto in questo caso è: se ci accorgiamo che dopo sposati il nostro modo di comunicare somiglia troppo spesso a un telefono occupato «Tu… Tu… Tu…», ci impegniamo a riflettere sulle modalità di comunicazione, leggendo magari un paio di buoni testi in materia e/o a seguire qualche corso sulla comunicazione interpersonale.
Sesta trappola: sottovalutare le contraddizioni tra il verbale e il non verbale. È noto che nella comunicazione ci serviamo di una molteplicità di canali, verbali e non verbali. Ciò arricchisce l’interazione, ma può anche generare problemi, in particolare quando c’è incongruenza tra i due canali, ad esempio: lei fa il muso, ma dice che va tutto bene. Lui le dice che è d’accordo di fare una certa spesa, ma la guarda di traverso. Se tale tipo di comunicazione diventa usuale nella coppia la relazione finirà prima o poi con l’ammalarsi.
Clausola da inserire nel contratto: ci impegniamo a evitare il ricorso a messaggi contraddittori.
Settima trappola: sottovalutare la complessità del rapporto con i suoceri. Non posso dilungarmi nello spazio di questo articolo su tale tema, che merita sicuramente un serio approfondimento al di là dei soliti stereotipi. Voglio solo ricordare un aspetto che ho sviluppato in un mio libro dedicato al rapporto tra le generazioni.
Oggi si parla molto di relazioni interculturali a proposito di contatti tra culture diverse, ma va considerato che ogni famiglia – anche quelle che vivono da sempre sullo stesso territorio – costituisce un microcosmo culturale in sé. Da questo punto di vista, ogni persona proveniente dall’esterno costituisce una sorta di “straniero” e gli shock culturali con la famiglia del coniuge sono sempre in agguato, come ci ricordano due testimonianze.
«A casa mia era normale invitare amici a cena anche all’ultimo momento, invece dai miei suoceri ciò non si fa assolutamente. Già invitano poco, ma quei pochi inviti devono esse annunciati molto prima. Inoltre, a casa mia si ride e si scherza, dai miei suoceri sembra di essere in chiesa». Oppure: «Ci sono delle differenze che mi hanno molto sbalordito tra casa mia e quella dei genitori di mia moglie: il fatto che da loro tutti conoscono più o meno la situazione finanziaria degli altri. Da noi era un tabù».
Clausola da inserire nel contratto: ci impegniamo certo a rispettare i nostri rispettivi genitori ma anche a evitare, da un lato, le idealizzazioni troppo frettolose, dall’altro i giudizi spietatamente critici. Personalmente tra l’altro mi pare giovi mantenere una chiara distinzione anche in termini di appellativi tra i ruoli di madre e suocera, di padre e suocero.
Chiamare la propria suocera “mamma” e il proprio suocero “papà” è per certi aspetti un simpatico gesto che mostra la volontà di costruire positive relazioni, ma rischia di confondere a livello inconscio figure, ruoli e persone fra loro molto diverse. Confusione che può bloccare il cammino, che occorre sempre compiere per conoscere l’altro così com’è e non come lo si immagina, e creare rischiosi transfert emotivi inconsci.
Basta sottoscrivere un contratto contenente le suddette clausole per garantire una buona qualità della comunicazione dopo il matrimonio? Diciamo che è già un buon aiuto per lanciarsi in tale impegnativa e affascinante comune avventura. Tuttavia, è mia convinzione che se le attività di preparazione al matrimonio sono importanti, altrettanto importante sarebbe offrire corsi dopo un anno, due anni di esperienza, e nei grandi momenti di svolta, come la nascita dei figli, le crisi, le migrazioni…
La comunicazione è una pianta che si coltiva tutta la vita.
BIBLIOGRAFIA
Cesari Lusso V., Il mestiere di… nonna e nonno, Erickson, Trento 2004.
Cesari Lusso V., Dinamiche e ostacoli della comunicazione interpersonale, Erickson, Trento 2005.
Erikson E.H., Infanzia e società , Armando, Roma 1967, trad. it.
Gordon T., Genitori efficaci, La Meridiana, Bari 1991.
Mead G.H., Mind, Self and society, University Press, Chicago 1950.
Salomé J., Il dono di farsi capire, “Famiglia Cristiana”, Milano 2005.
Winnicott D.W., I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore, Milano 1987, trad. it.