Genocidio del Ruanda: intervista a Patrizia Paoletti Tangheroni

Il Corriere del Sud 23 Aprile 2024  

di Andrea Bartelloni  

Trenta anni quasi completamente dimenticati, quelli che ci separano dal più grande crimine contro l’umanità della seconda metà del secolo scorso, il genocidio del Ruanda. Il 6 aprile del 1994, dopo l’abbattimento dell’areo che trasportava il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia hutu, scatta il genocidio dei ruandesi di etnia Tutsi.

Un milione di morti in poco più di tre mesi grazie ad una strategia pianificata nei minimi particolari e che aspettava il pretesto per scatenarsi. Armi cinesi e impotenza occidentale se non vera e propria connivenza che assieme ad una preparazione lunga e martellante propaganda ha ottenuto il risultato. Una campagna d’odio attraverso la stampa e anche nelle scuole dove venivano insegnate delle canzoncine per imparare ad odiare i Tutsi. E questo ha funzionato.

Ma il Ruanda ha superato questo trauma e ci chiediamo come sia stato possibile. «Tutti tralasciano una verità. Facendo un paragone con altri genocidi, il Ruanda lo ha vissuto, e lo vive, in modo totalmente diverso». Dice Patrizia Paoletti che ha conosciuto dal vivo la tragedia ruandese in quanto, assieme al marito Marco Tangheroni, hanno adottato tre ragazze Tutsi scampate al genocidio: Beatrice, Gaudelive e Yvonne.

«Subito dopo il genocidio, mentre il tribunale internazionale ha comminato novantadue condanne, il Ruanda ha riattivato i cosiddetti Gacaca. Gacaca in ruandese vuol dire radura, il luogo dove si riunisce la comunità e il giudice di questo tribunale è colui che è in grado di dirimere le contese, quasi sempre l’anziano del villaggio.

Il “processo” consiste in un riconoscimento delle proprie colpe da parte dell’accusato e nell’offerta di un servizio in riparazione (pagare gli studi ai sopravvissuti, ricostruire la casa…) ed espiazione. Se i superstiti e la comunità ritengono che il pentimento sia reale e i propositi equi, il colpevole viene prosciolto da ogni pena. Altrimenti c’è il carcere”.

Per molti sopravvissuti non deve essere stato facile accettare questo percorso.

«Certamente, ma alla fine è stata la soluzione più ragionevole per fare giustizia di fronte a numeri di responsabili del genocidio difficilmente gestibili dalla giustizia ruandese. Questi tribunali tradizionali sono dei veri e proprio “tribunali del perdono”. Migliaia di genocidari si sono autodenunciati e hanno deciso di riappacificarsi con le famiglie cercando di aiutare i superstiti».

Una lezione anche per il futuro per superare nuove situazioni di crisi?

«Questi tribunali sono l’unica soluzione per uscire dalla spirale delle vendette e fare una vera pacificazione. Lo scorso 7 aprile, anniversario dell’inizio del genocidio dei Tutsi, i sopravvissuti dovevano raccontare la loro esperienza e spiegare come anche qualcuno dell’etnia Hutu avesse contribuito alla loro salvezza. Una delle mie figlie mi ha raccontato come una mamma di un genocidario la nascondesse in un armadio quando suo figlio tornava col machete sporco di sangue. Poi riuscì a farla scappare, ma per più di una settimana si era fatta carico di questa bambina di nove anni. Questi “tribunali del perdono” sono stati quattro-cinquemila in tutto il paese affinché questo milione di genocidari potessero essere in qualche modo riappacificato riappropriandosi di un valore molto importante: il perdono».

«E poi, Paul Kagame, presidente dall’anno 2000, la prima cosa che ha fatto ha eliminato la distinzione etnica tra Hutu e Tutsi, ci sono solo ruandesi ciascuno con le proprie tradizioni, usi e costumi, poi ha subito abolito la pena di morte dal sistema giudiziario del suo paese. Ci sono opzioni diverse per risolvere una questione terribile come è un genocidio che vanno oltre la perpetrazione dell’odio e il Ruanda ha cercato una via d’uscita che ha portato ad una pacificazione di fatto. Potrebbe essere una strada per altri conflitti anche cercare di eliminare le cause dell’odio che forse è più facile».

«Noi occidentali operiamo in questi paesi senza tenere conto delle realtà locali. La tragedia ruandese vedeva una orchestrazione a monte sostenuta anche da una Radio rurale, l’emittente radiofonica Radio Mille Colline, nota anche come Radio Machete che coordinò il genocidio fin dal suo primo giorno dando indicazioni su dove trovare le persone da ammazzare. Radio che operava nella zona oggetto dell’operazione Turquoise dove operavano le truppe francesi. Terribile anche la responsabilità della Chiesa cattolica perché tutti i sacerdoti Hutu avevano trasformato le chiese da luoghi di asilo a luoghi di morte. Non c’è stato un martire».

«Su Youtube si trova un bellissimo film-documentario in francese, Opération Turquoise, che narra la storia vera di un soldato della Legione straniera che ha partecipato all’operazione di caschi blu, denominata appunto “Opération Turquoise”, creata per evitare rappresaglie, ma in realtà è servita anche per nascondere alcuni genocidari».

«Sembra che tutta questa connivenza possa ricondursi al fatto che Jean Christophe Mitterand, figlio dell’allora presidente francese François Mitterand, avesse interessi in vari conflitti africani essendo implicato in compravendita di armi. E verrà incriminato per “complicità nel traffico illecito di armi” e posto in custodia cautelare. I giudici scopriranno in particolare che aveva ricevuto, dal trafficante d’armi Pierre Falcone, 1,8 milioni di dollari versati su un conto cifrato in Svizzera. Al momento il Presidente francese Emmanuel Macron ha ristabilito dei buoni rapporti con il Ruanda dopo uno storico discorso nel corso del quale ha riconosciuto le gravi responsabilità della Francia».

In Italia è presente L’associazione Ibuka – Memoria e Giustizia Italia che si prefigge lo scopo di mantenere viva la memoria del genocidio ruandese combattendo la banalizzazione di questo genocidio e molto altro. Vicepresidente di questa associazione è proprio Yvonne Ingabire Tangheroni che, all’epoca del genocidio aveva nove anni e che in modo rocambolesco è riuscita a sopravvivere allo sterminio della sua famiglia fuggendo in Congo: “viva per testimoniare”.

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