Studi cattolici n.641/42 luglio-agosto 2014
di Nicola Guiso
George Soros è uno dei più grandi speculatori di borsa al mondo e il più grande finanziatore privato (in particolare in Occidente, in Italia lo è dei radicali di Palmella) di chi sostenga i cosiddetti «diritti» civili e umani quali: libertà di aborto (anche per minorenni e donne in avanzatissimo stato di gravidanza); eutanasia attiva (anche per i bambini malformati); manipolazioni genetiche (senza limiti per la ricerca scientifica e per i suoi risultati); contrasto con ogni mezzo del matrimonio tradizionale; sostegno deciso alle unioni monosessuali; mobilitazione da parte dello Stato della scuola pubblica (con norme tali da vincolare anche quella privata) contro le «pretese» che possano avanzare le famiglie e le associazioni religiose e civili per avere un ruolo centrale nell’educazione dei figli, anche, e soprattutto, sulla natura e sui ruoli e funzioni nella vita dei generi e del sesso.
Recentemente Soros ha deciso di impegnarsi ancora di più rispetto al passato in favore dell’eutanasia attiva – fatta praticare nel 1994 alla madre – avendo «scoperto» che «la morte ha preso il posto del sesso come tabù del nostro tempo […] e questo è un aspetto sfortunato della civiltà perché produce molta sofferenza che si potrebbe evitare». Forse perché impegnato in nuove grandi speculazioni, la «scoperta» di Soros è certamente tardiva. In apertura del suo prezioso – e at-tualissimo — Scommessa sulla morte (1982) Vittorio Messori cita, infatti, questa osservazione, fatta negli anni ’70, dal grande storico Pierre Shaunun che poneva a base dei suoi studi la matematica e la statistica: «Un’indagine su circa centomila libri di saggistica usciti negli ultimi vent’anni mostrerà che solo duecento (una percentuale, dunque, dello 0,2%) affrontavano il problema della morte, libri di medicina compresi».
Un’immensa casa di riposo?
Inoltre, la decisione di Soros di accentuare il proprio impegno contro il tabù della morte nel nostro tempo appare carente in un punto essenziale: non si è chiesto quali siano le ragioni dell’insorgere e dell’affermarsi del tabù. Ma se Soros non lo ha fatto, possiamo farlo noi; anche limitandoci a correlarlo con alcuni aspetti dell’esasperata ricerca di acquisizione di quei «diritti» umani e civili ai quali abbiamo accennato, che oggi caratterizza la vita dell’Occidente avanzato e non solo.
Possiamo, per esempio, chiederci perché nel nostro tempo siano aumentate in misura esponenziale la domanda e l’offerta di tecnologie e di prodotti per fermare nella giovinezza il trascorrere del tempo; spinti dalla pubblicità che ne fanno personaggi-simbolo di successo di ambo i sessi, ci sono individui che non sembrano nemmeno cogliere il desolante ridicolo che emerge dal voler riproporre in età avanzata (e molte volte avanzatissima) stili di vita, comportamenti, attività professionali e abbigliamenti che li caratterizzavano quaranta e cinquant’anni prima.
Possiamo chiederci perché l’usopianificato di ogni genere di contraccettivi (si cerca di imporlo sin dalla prima infanzia a scuola), e la dilagante legittimazione morale e legale dell’aborto faccia sempre di più somigliare l’Europa a una immensa casa di riposo. Chiederci perché dilaga il ricorso alle manipolazione degli embrioni al fine di produrre un figlio, soprattutto per selezionarlo (scelta ignobile) in base a criteri estetici oppure (come a Singapore) al fine di accrescere «la qualità» delle classi dirigenti del Paese.
E’ necessario interrogarsi su quali siano le ragioni della crisi della famiglia tradizionale (in passato solida cellula prima della società) sostituita o da coppie temporanee dei due sessi oppure da unioni temporanee monosessuali. I membri di queste ultime poi esigono non solo parità giuridica con le unioni tradizionali, ma anche libero e gratuito accesso alle manipolazioni genetiche sui propri corpi e sugli embrioni, al fine di poter esibire uno o più figli. Possiamo anche chiederci la ragione del moltiplicarsi delle proposte dei governi e dei parlamenti dell’Occidente oltre che di legalizzazione dell’eutanasia, anche della sua copertura da parte dei servizi sanitari nazionali.
Chiederci infine le ragioni del dilagare del consumo di droghe in tutte le fasce d’età, senza attribuirlo solo alla potenza finanziaria e organizzativa delle mafie di rutto il mondo. Rispondere con franchezza sulle cause di fenomeni quali quelli ricordati è una premessa obbligata per rispondere con rigore anche alla domanda glissata da Soros sulle ragioni del perché la morte sia diventata il più grande tabù dell’Occidente. Per farlo, è però necessario liberarsi da ogni suggestione e da ogni complesso verso le culture illuministico-laiciste e paleo o neo-marxiste, e fondare le risposte nella sostanza dei fatti che hanno caratterizzato la storia, in particolare dell’Occidente.
E i fatti mettono in evidenza che sino al ‘500 la morte non era un tabù di massa come appare oggi; e il dolore fisico e la sofferenza interiore avevano contenuti e significati, per chi li pativa e nel sentire comune, che li facevano considerare anche condizioni di arricchimento della vita delle persone e delle comunità. In quel tempo infatti l’atteggiamento prevalente sull’inizio e sul termine della vita e sulle sofferenze derivava non solo dal credere in un Dio, ma nel Dio cristiano creatore dell’universo e dell’uomo a sua immagine e somiglianza; che per amore l’ha redento dalla colpa originale con i patimenti e la morte, dolorosissima, del figlio Gesù fatto uomo. Un sacrificio che riapriva all’umanità con la morte fisica la via della vita eterna nella contemplazione del Padre.
Per il cristianesimo, comunque, dolore e morte non erano (come non lo sono oggi) motivi consolatori ma – come dice Messori – una scelta tra un dolore insensato e un dolore con un significato; quello di una speranza conquistata attraverso la sofferenza. Nel Catechismo degli adulti si ricorda che «la ripugnanza al soffrire è umana. La Bibbia compatisce la sofferenza e non ama – come invece altre religioni – il dolore, nemmeno per ascetismo». Il dolore – nota ancora Messori – non è cercato ma semmai accettato nel nome di Colui che può vincerlo. Meno che mai è accettata la morte.
Il cristianesimo ha sostituito il suo augurio Ad multos annos al detto tipicamente pagano «muor giovane chi al cielo è caro». E la speranza del cristiano nella vita eterna non significa – come affermavano Feuerbach e Marx — «credere nella nullità e nell’insignificanza di questa vita», e considerare il paradiso «la proiezione nei cieli delle impotenze (degli uomini), delle loro voglie frustrate in terra».
Il Concilio Vaticano II ha infatti ribadito che «la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi da nuovi motivi di sostegno dell’attuazione di essi». Il fatto che l’uomo non abbia una «cittadinanza stabile» in terra e ne cerchi una nella vita futura non deve far pensare che per questo possa trascurare i propri doveri terreni, perché è la fede che l’obbliga «ancora di più a compierli».
Declino della visione cristiana
Quando nella considerazione della morte, della sofferenza e del dolore prevaleva in Occidente l’insegnamento della dottrina cristiana tutti i cicli della vita avevano eguale valore e dignità. I nuovi nati erano dono di Dio che assicuravano la continuità delle generazioni. La giovinezza era espressione del fulgore della vita, di creatività, di sostegno delle famiglie e della difesa e della crescita delle comunità. L’età matura era considerata il tempo della creatività più efficace e finalizzata e dall’esperienza di vita e di lavoro, pur essa a servizio degli obiettivi essenziali delle famiglie e delle comunità. La vecchiaia era considerata fonte di sapienza e di esperienza, preziose soprattutto in momenti di difficoltà e di pericolo per le famiglie e per le comunità, ma anche nella scelta delle migliori vie da seguire per valorizzare al meglio i momenti di prosperità.
Oggi invece le nascite vengono spesso considerate un ostacolo all’appagamento senza limiti delle pulsioni, delle ambizioni e delle aspirazioni individuali, di coppia, di gruppo, di comunità; e nello stesso tempo un pericolo di fine accelerata delle risorse alimentari ed energetiche del pianeta. Negli ultimi decenni inoltre, come detto, s’è aggiunta la spinta a trasformare le nascite in un prodotto dell’ingegneria genetica. Sia per esibirle quale status distintivo di coppie monosessuali e di donne anziane in lotta per fermare il tempo, e ora anche per fare di quel tipo di prodotto lo strumento di creazione in radice di classi dirigenti d’eccellenza in tutti i campi.
I giovani vengono considerati l’espressione più alta del ciclo vitale dell’uomo, nella quale è possibile sfruttare al massimo la libertà senza limiti nella ricerca e nella pratica delle forme di vita e di lavoro che consentano l’appagamento dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. L’età matura viene patita per le crisi esistenziali che derivano dal perdurare delle pulsioni della giovinezza mentre si riducono le capacità di appagarle. La vecchiaia, al di là di benevoli coperture retoriche, diviene una condizione negativa per le persone, la società, le istituzioni. Per le persone, a causa del peso della memoria di ciò che la vita è stata, di ciò che avrebbe potuto essere e non è stata e del convincimento che non potrà realizzarsi in un’altra vita. Per la società e per le istituzioni, a causa dell’arido calcolo sul costo crescente degli anziani nei bilanci degli istituti di previdenza e dei servizi sanitari.
Le strutture in Occidente non sono in crisi tanto per l’aumento della vita media degli uomini e delle donne quanto per il crollo delle nascite, che impone il ricambio della forza lavoro con l’immigrazione di massa dal Sud del mondo. Un fatto che comporta altissimi costi indotti ai sistemi produttivi e ai sistemi-Paese. Nella natura e nelle conseguenze dei fenomeni che abbiamo ricordato, segnati dal declino della visione e della proposta cristiana sul rapporto vita-morte e sulla vita futura, vi sono le risposte alla mancata domanda di Soros sul perché la morte sia diventata tabù per l’uomo occidentale. Risposte che possono essere date non solo per fede, ma anche in punto di ragione, e che si contrappongono alle sue nuove iniziative eutanasiche.
Risposte in punto di ragione, inoltre, tanto più efficaci in quanto, spesso, fondate su culture, ideologie e fedi molto lontane dal cristianesimo. Per esempio, Michel Foucault (prestigioso storico, sociologo e filosofo, ateo dichiarato) concludeva una riflessione sul dominio della violenza che si è instaurato nel mondo negli ultimi due secoli affermando: «II cristianesimo era riuscito a farci accettare la nostra morte. Quelli che sono venuti dopo ci hanno insegnato semmai ad accettare l’uccisione degli altri».
Di particolare valore è anche il richiamo di Messori al pensiero di un grande maestro del Collége de France (tra i più antichi e prestigiosi istituti universitari del mondo) Jean Delumeau, cattolico ma studioso sempre rigoroso nel proporre e nel valutare i fatti. Lo storico, dice Delumeau, non può avere dubbi. Nel corso dei secoli l’azione temporale della Chiesa, in certe situazioni e in certi interventi, può aver contribuito a rendere la vita materiale degli uomini «più difficile e dura». Ma è altrettanto certo che quella stessa Chiesa «li ha aiutati a morire». Li ha sorretti «nell’ accettare con coraggio e realismo la condizione umana nel far posto alla morte nella vita, nel dare un senso a entrambe. E quando il momento veniva li ha aiutati ad affrontarla con dignità e speranza. Questo bilancio è innegabile ed è anche unico e straordinario […]. E dunque lo storico dovrà anche concludere che la Chiesa – malgrado errori e malgrado orrori – migliorando la morte ha migliorato la vita. Aiutando gli uomini a morire li ha aiutati a vivere».
Il giudizio di un credente trova singolare conferma in queste considerazioni di uno dei più autorevoli storici del secolo scorso – il neo-marxista Fernand Braudel – fatte durante un dibattito sull’incidenza del diavolo (figura centrale nella pastorale cattolica, almeno sino alla metà del ‘900) nelle credenze, negli atteggiamenti e nei comportamenti verso la vita e verso la morte degli uomini e delle donne nel Medio Evo. Braudel osserva che se davvero si deve dare valore a quell’incidenza, si può dire che forse il Medio Evo, proprio perché credeva al diavolo, fu, nella sostanza, «assai meno diabolico» dell’età moderna e di quella contemporanea. «Se proprio si vuoi parlare in questi termini», aggiunge, «è il ventesimo secolo quello davvero demoniaco: tra lager, gulag e altre piacevolezze, la somma delle sofferenze inflitte all’umanità negli ultimi decenni supera probabilmente la somma di tutti i secoli precedenti».
Il demoniaco «secolo breve»
Viene spontaneo chiedersi, magari rivolgendosi a Soros, quanto il richiamato da Braudel al tratto dominante del secolo demoniaco (che per i cristiani è il risultato della morte di Dio nei cuori e nella mente di tanti uomini) possa aver contribuito a fare della morte il tabù del nostro tempo. La storia carica di dolore e di morti del ‘900 infatti rende evidente che il cristianesimo offre l’interpretazione più alta del valore della vita (e dunque di attenuazione e di svuotamento del tabù della morte) ponendo nel nesso indissolubile tra il tempo e l’eternità il destino di ogni uomo.
Mentre le ideologie e le degenerazioni estreme di altre religioni – l’islàm in particolare – hanno tentato e tentano di esorcizzare quel tabù idealizzando chi consapevolmente lotta e muore per la causa e per la fede; e in questo modo ideologie e fedi hanno contribuito, e contribuiscono, ad allargare sempre più i cimiteri del pianeta. Dal 1789 infatti l’ideologia giacobina ha diffuso l’esaltazione degli eroi che si immolano per la grandezza della nazione, culminata nell’ecatombe della Prima guerra mondiale. Quell’evento che è stato anche il propellente decisivo per l’affermarsi delle ideologie comunista, fascista e nazista, volte a realizzare nella storia, soprattutto con la violenza e con la morte, l’uomo nuovo e la società perfetta.
E per questo obiettivo hanno considerato il cristianesimo come il primo nemico da distruggere o da asservire, perché il Vangelo – nota Messori – chiede di far posto adeguato nell’agire dell’uomo, anche in politica, «alla realtà così com ‘è non come ci piacerebbe che fosse». La carica devastante per l’uomo delle ideologie del ‘900 è stata resa, con eccezionale realismo e forza sintetica da Mao in questa enunciazione: «Tutti gli uomini sono mortali ma non tutte le morti hanno lo stesso valore».
Ancora una volta è però singolare che una replica altrettanto incisiva all’enunciazione del leader comunista cinese sia in un’affermazione di Lucio Lombardo Radice; prestigioso matematico, intellettuale e militante del PCI, attento però a ciò che il Vangelo e la Chiesa hanno significato nella storia per tutti, credenti e no: «Per me, non cristiano, il merito eterno del cristianesimo è il valore assoluto e assolutamente uguale riconosciuto a ogni vita umana».
Un giudizio per Messori in sintonia con quello dell’autorevole teologo Karl Rahner, per il quale «la fede della Chiesa non conosce alcuna vita umana che non sia degna di diventare definitivamente valida». Sulla connessione tra la vita e la morte data dalla prospettiva della vita eterna nella visione di Dio, Messori ha scritto una conclusione esemplare, per forza di fede e di ragione, del suo Scommessa sulla morte, che occorre mettere a conclusione anche di queste note: «Per Platone compito della filosofia è insegnare all’uomo l’arte di bene morire. Gesù, e sulla sua parola la Chiesa, ciò a cui tendono non è soltanto l’arte di morire; ma l’arte di morire per vivere. Ciò che insegnano è uno stile per risorgere».