La rocambolesca conversione dei militanti della resistenza islamo-marxista al regime iraniano. Esiliati nell’Iraq di Saddam, addestrati alle armi, indottrinati all’estremismo. E alla fine conquistati da Cristo. Parlano tre testimoni
di Rodolfo Casadei
La popolarità dei Mujaheddin, il principale movimento iraniano di lotta armata contro il khomeinismo, era precipitata in Iran esattamente dopo che il loro leader in esilio, Massoud Rajavi, aveva accettato nel 1986, al culmine della sanguinosa guerra fra Iran e Iraq iniziata nel 1980 con un’aggressione da parte irachena e proseguita con bombardamenti delle principali città iraniane, le profferte del raìs.
Sette campi dell’organizzazione erano stati insediati in territorio iracheno, e di essi Ashraf era quello principale, 100 chilometri a nord di Baghdad e 80 dalla frontiera con l’Iran. Alla vigilia dell’invasione anglo-americana del 2003 Saddam ordina che tutti i militanti e le armi vengano concentrati ad Ashraf.
Quando gli americani entrano nel campo, che avevano bombardato nei primi giorni dell’offensiva per poi concludere un accordo di cessate il fuoco fondato su di una dichiarazione di “neutralità” dei Mujaheddin rispetto all’attacco anglo-americano al regime iracheno, vi trovano 4 mila militanti (un migliaio le donne) scarsamente addestrati dal punto di vista militare e dotati di armamenti per lo più vetusti, come i carri armati ex sovietici T-55.
Dopo sedici mesi di indagini, i militanti del Mek vengono prosciolti da ogni accusa di terrorismo, benché la loro organizzazione sia classificata come tale dal Dipartimento di Stato americano, e dichiarati “persone sotto protezione” a norma della quarta Convenzione di Ginevra. Nei mesi seguenti il governo iracheno dominato dagli sciiti tenta più volte di rimpatriarli in Iran, dove troverebbero morte certa.
Circa 300 di essi dichiarano di non voler più far parte dell’organizzazione e vengono collocati in un’area speciale del campo, sotto la protezione di militari americani e del contingente bulgaro. I 300 “defectors” chiedono di vedersi riconosciuto lo status di profughi e organizzano scioperi della fame e manifestazioni di protesta contro i “liberatori” americani. Però accettano con interesse le visite dei cappellani militari americani che di tanto in tanto si recano a incontrarli.
Nasce una tenda-chiesa nell’area riservata ai dissociati. I colloqui coi cappellani si moltiplicano.
La faccenda prende una svolta sensazionale: nel giro di tre anni la maggioranza del gruppo chiede e riceve il battesimo cristiano. Nel 2007 vengono autorizzati a lasciare l’Iraq, obiettivo che realizzano dopo molti colpi di scena e vicende rocambolesche che comportano anche la perdita della vita di alcuni di loro. Oggi sono sparsi un po’ in tutto il mondo, e cominciano a raccontare, pur esigendo massima riservatezza e discrezione, le loro storie.
Noi ne abbiamo incontrati alcuni a Parigi, appuntamento al Café de Flore, a Saint-Germain-des-Prés, sulla rive gauche della Senna. Arash, Shahrooz e Rezah, tutti e tre sotto i 40 anni, lanciano ripetutamente occhiate all’entrata, come se qualcosa di spiacevole dovesse succedere da un momento all’altro. Già le interviste a fuoriusciti dei Mujaheddin del popolo sono una rarità, figuriamoci quando uno degli argomenti del colloquio è la loro conversione al cristianesimo.
Teheran continua a considerarli dei “traditori” (i pochi ex Mujaheddin che si sono fidati di tornare in Iran sono scomparsi nel nulla, a detta dei loro ex compagni), militanti e dirigenti del Mek che ancora soggiornano a Camp Ashraf li disprezzano come disertori, e adesso qualunque estremista islamico potrebbe sentirsi autorizzato a spargere il loro sangue di “apostati”: nessun gruppo di iraniani al mondo è più braccato di loro. Eppure non si pentono delle scelte fatte dal 2003 ad oggi.
«Ho conosciuto l’islam totalitario della Repubblica islamica e quello sedicente democratico dei Mujaheddin. La conclusione è che non voglio più portare su di me il nome di “musulmano”», scandisce Arash accompagnando le parole con un gesto della mano. «A Camp Ashraf avevo perso il rapporto con Dio, ci obbligavano a praticare l’islam sciita come tanti bambinetti, nel cristianesimo ho trovato la pace», aggiunge Shahrooz. «Io nei quattro anni passati al campo continuavo a pregare Dio dentro di me, perché gli atti religiosi esteriori che ci imponevano erano completamente vuoti», dice Rezah. «Nella chiesa-tenda ho avuto la chiara percezione che il Dio che abitava lì era lo stesso a cui mi rivolgevo nel mio cuore».
Il lavaggio del cervello
I tre esuli parigini sono tutti entrati a far parte del Mek nel corso dell’ultimo decennio, quando ormai il suo potenziale militare era disattivato e la componente politico-ideologica risultava preponderante. Da anni il reclutamento avviene quasi esclusivamente fuori dall’Iran: Shahrooz e Rezah vivevano da qualche tempo in due diversi paesi del Medio Oriente quando sono stati contattati da emissari dei Mujaheddin, che mostravano di conoscere le loro storie di giovani delusi da un sistema che aveva negato loro sistematicamente tutte le opportunità, per riservarle ai parenti dei Guardiani della Rivoluzione e di parte dei reduci della guerra con l’Iraq.
Arash è l’eccezione. «Io sono stato avvicinato a Teheran in un ambito giovanile che non è l’università: lì è pieno di spie e nessuno si azzarderebbe a proporre o accettare di aderire a un movimento di lotta armata». Tutti e tre dichiarano di essere stati a conoscenza del fatto che il Mek era un movimento di lotta armata ispirato a un’ideologia ibrida, islamo-marxista.
Il loro contatto aveva consegnato loro una videocassetta di presentazione dove l’organizzazione è descritta come democratica e rispettosa del pluralismo. Ma all’arrivo a Camp Ashraf la delusione è grande: «In poche settimane mi sono reso conto che il Mek era una setta!», esclama Rezah.
«Chi non era sposato veniva costretto a impegnarsi a restare celibe e a non avere relazioni sentimentali o sessuali con alcuno, per dedicare tutto se stesso all’organizzazione fino alla vittoria finale, mentre gli sposati presenti nel campo erano separati dal coniuge, che viveva in altro campo iracheno o all’estero. Non si poteva uscire dalla base né si poteva più abbandonare il Mek. La televisione trasmetteva solo programmi dell’organizzazione e non si potevano possedere telefoni cellulari o radio transistor: tutte le informazioni erano filtrate e non avevamo nessun contatto con l’esterno».
«Nessuno poteva starsene da solo o in compagnia di un’altra persona, bisognava sempre essere almeno in tre. E ognuno era incaricato di stendere un rapporto quotidiano su tutto quello che un’altra persona diceva e faceva nel corso della giornata», spiega Arash. «Poi la sera, dopo che un responsabile aveva letto tutti i rapporti, si facevano riunioni di critica e di autocritica, dove i colpevoli di ogni minima infrazione venivano svergognati, e alla fine dovevano dichiararsi colpevoli e pentirsi dei propri errori».
L’invasione degli yankee
«La formazione militare era poca cosa», dice Shahrooz. «Per simulare i combattimenti venivano utilizzati semplici videogiochi. L’accento era tutto sulla formazione ideologica. Massoud Rajavi teneva delle riunioni speciali, dette della “grande pentola”, dove le singole persone venivano criticate dalla massa dei partecipanti fino a farle piangere di vergogna. A quel punto ci si complimentava con loro, dicendogli che erano tornati sulla retta via. Poi il leader lanciava la parola d’ordine per i mesi a venire: “imparare le cose”; “l’islam è rivoluzionario”; “fra evoluzionismo e isiam non c’è contraddizione”. E allora per mesi si leggevano dispense e si svolgevano lezioni su questi argomenti, si faceva il lavaggio del cervello».
Poi arrivano gli americani al campo, i militanti del Mek vengono disarmati e i 300 dissidenti in pectore manifestano la loro volontà di lasciare l’organizzazione e cercare riparo all’estero come profughi. Inizia una via crucis che durerà quattro anni.
«Vivevamo in uno spazio di 200 metri quadrati dove l’unico riparo erano delle tende a noi destinate. Gli americani hanno organizzato una videoconferenza con gli uffici dell’Alto Commissariato per i rifugiati di Ginevra e così siamo stati registrati con lo status di rifugiati politici. Alla fine abbiamo avuto diritto al lasciapassare per abbandonare il campo e domandare rifugio all’estero, ma non ci lasciavano andare. Protestavamo e odiavamo gli americani, ma non potevamo fare a meno di ascoltare con attenzione i loro cappellani».
I tre giovani non sanno nemmeno dire a quali denominazioni protestanti appartenessero. «Loro non ci hanno mai detto “siamo battisti” oppure “siamo evangelici”, ma cercavano di spiegare le differenze di dottrina», racconta Rezah. «Alcuni di loro ci dicevano: “Per noi la cosa più importante è la fede”, altri ci dicevano: “Per noi la cosa più importante è lo Spirito Santo”, ma noi facevamo fatica a capire queste differenze. Per me e per i miei compagni la cosa più importante era ed è ancora la figura di Cristo, che prima non conoscevamo».
«Gesù non ha fatto guerre, è venuto in pace; ha dato la sua vita per noi sulla croce, si è sacrificato per noi anziché sacrificare le persone per obiettivi politici», dice Shahrooz. «Solo Dio può fare così. Quindi quando ci hanno detto che Maria non ha conosciuto uomo, che ha concepito Gesù da vergine per la potenza di Dio, per noi era una spiegazione ragionevole».
Una catechesi un po’ improvvisata
Arash respinge il sospetto che le conversioni siano state funzionali a facilitare le richieste d’asilo all’estero: «Quando siamo stati battezzati avevamo già lo status di rifugiati riconosciuto da Ginevra. La conversione non ci ha fatto guadagnare nulla, anzi ha reso più difficile la nostra condizione: non potevamo più essere accolti nei paesi musulmani e potevamo essere arrestati o aggrediti dagli estremisti in Iraq. È vero che qualcuno si è convertito per conformismo con quello che stava facendo la maggioranza di noi, ma si tratta di casi isolati».
Resta il fatto che la catechesi di questi neofiti è stata molto improvvisata: «Non era il catecumenato per gli adulti come fanno qui in Francia i cattolici», chiarisce Hamid. «Io e gli altri abbiamo fatto un incontro alla settimana per qualche mese, e alla fine siamo stati ammessi al battesimo. Ma se mi chiede a quale Chiesa appartenesse il pastore che mi ha battezzato, io non lo so dire e neanche la maggior parte dei miei ex compagni».
Adesso che sono sparsi per il mondo, i neo-cristiani di Camp Ashraf continuano a considerare la loro nuova fede come la cosa più importante da approfondire nella loro nuova vita. Pagando il dazio della formazione approssimativa ricevuta, compresi episodi esilaranti: «Quando sono arrivato qui, ho cominciato a frequentare i testimoni di Geova», dice Arash. «Mi sembrava che il loro linguaggio corrispondesse a quello che avevo ascoltato in Iraq. Alla terza riunione ho capito che avevo sbagliato. Adesso frequento una parrocchia cattolica, e mi trovo molto meglio».