Molti tra i più famosi personaggi che popolarono il Far West hanno conosciuto la fede cattolica e l’hanno abbracciata con convinzione. Grazie alle missioni di gesuiti e francescani e… al miracolo di una suora che non uscì mai dal suo convento in Spagna
di Marco Respinti
Chi di noi non ha mai giocato, da piccolo, a cow-boy e indiani? L’incontro-scontro fra i “visi pallidi” e i “pellirosse” fa parte delle “idee ricevute” di tutti noi, ma, come la maggior parte delle “idee ricevute” di cui abbonda la cultura dominante, anche questa si fonda su generalizzazioni e stereotipi, se non addirittura su pregiudizi ed errori. La complessa storia di quel rapporto non può infatti prescindere dall’epopea eroica che fu lo sforzo di evangelizzazione profuso dai missionari, specialmente gesuiti e francescani.
«Signora vestita di azzurro»
Straordinaria è per esempio la vicenda rievocata dallo scrittore Vittorio Messori sul Corriere della Sera nell’aprile 2003.
Quando i missionari francescani spagnoli che risalivano la Costa Occidentale americana giunsero, ai primi del 1600, nei territori degli attuali Stati di Texas, Arizona, New Mexico e California s’imbatterono nei bellicosi Apache, Navajo e Comanche, che li decimarono. Nel 1622 partì allora una seconda spedizione, guidata dal francescano portoghese Alonso (o Afonso) de Benavides (1578?-1635). Identico cammino, identico incontro, ma esito stavolta prodigiosamente diverso. I frati, che avevano eretto una missione fortificata, furono subito visitati dagli indiani Xumana, anch’essi decisamente aggressivi, ma non vi fu scontro: piuttosto, i pellirosse chiesero d’inviare sacerdoti nei loro villaggi per amministrare i sacramenti.
Inaudito. Che ne sapevano quei “selvaggi” di preti cattolici e acqua benedetta? Gli indiani risposero che li aveva inviati una «Signora vestita di azzurro», la «Dama Azúl» dei resoconti spagnoli. Mistero fitto. D’improvviso gl’indiani videro una stampa, colorata a mano, appesa a una parete della missione, e ripeterono: «Dama Azúl!». Era il ritratto di una suora concezionista francescana, vestita del saio blu del suo ordine. Ma il mistero non era affatto risolto.
Quando i missionari giunsero ai villaggi indiani furono accolti da una processione gremitissima, con croci ornate di fiori; ma, per quanto sbigottiti, ciò che li sbalordì davvero fu scoprire che i nativi, mai incontrati prima da alcun europeo, erano già catechizzati. Mancavano loro solo i sacramenti.
La «Dama Azúl»… a quel punto qualcuno pensò a María de Jesús, suora appunto concezionista, che però stava lontanissima, nel convento spagnolo di Ágreda, dov’era entrata a 12 anni e da cui non si era mai mossa. Al secolo María Fernández Coronel y Arana (1602-1665), è oggi famosa per La mística ciudad de Diós, una sorta di biografia profetica della Madonna diffusa in milioni di copie in ogni lingua. I missionari pensarono a lei perché l’arcivescovo di Città del Messico, reduce dalla Spagna, diceva che certi scritti della suora descrivevano l’America Settentrionale come se ella l’avesse visitata.
Quando padre de Benavides la incontrò ad Ágreda, suor María ‒ oggi venerabile ‒ gli disse che Dio aveva esaudito la sua richiesta: quella di essere missionaria. Gli Xumana furono solo una delle diverse tribù del Sudovest statunitense che i missionari incontrarono già perfettamente istruite nella fede.
Alce Nero, la conversione censurata
Un’altra storia, bella come una fiaba ma vera, è quella di Alce Nero (1866-1950). Siamo a tre secoli dalla «Dama Azúl», lo scenario è il Dakota, molto più a nord, e quel famoso Sioux è l’esempio più calzante delle bugie caricaturali diffuse per decenni sugli indiani. Il suo primo “biografo”, il poeta John G. Neihardt (1881-1973), pubblicò nel 1932 il famoso libro Alce Nero parla (tradotto in italiano da Adelphi), un “vangelo” per “indianisti”, hippie e antioccidentalisti vari che raccoglie le “memorie” amare di un vecchio “stregone”, il quale, sopravvissuto al massacro di Wounded Knee (quando, nel 1890, i cavalleggeri sterminarono i pellirosse), rimpiange i giorni dell’“antica religione”. Ma è un falso, e tace l’essenziale della vita dell’indiano. Il fatto, cioè, che Alce Nero si fosse convertito al cattolicesimo, cambiando vita.
La verità la racconta l’antropologo Michael F. Steltenkamp in un volume del 1993, portato in Italia dal sociologo delle religioni Massimo Introvigne e pubblicato da noi con il titolo Alce Nero, missionario dei lakota (a cura di PierLuigi Zoccatelli, Mondadori, 1996). Nel frattempo, Steltenkamp ha pubblicato un secondo libro, Nicholas Black Elk: Medicine Man, Missionary, Mystic (University of Oklahoma Press, 2009), ha riscoperto la fede, è stato ordinato diacono nel villaggio in cui visse Alce Nero, è diventato sacerdote e poi gesuita, oltre che antropologo di talento.
Alce Nero fu battezzato come Nicholas Black Elk (i soprannomi degli indiani vengono trasformati in cognomi) il 6 dicembre 1904, nella riserva di Pine Ridge, nel South Dakota. Questa era stata fondata nel 1888 da gesuiti tedeschi e svizzeri nientemeno che su richiesta di Red Cloud-Nuvola Rossa (1822-1909), il noto capo Sioux. Fervente catechista, legatissimo al Rosario e devotissimo al Sacro Cuore di Gesù, Nicholas Black Elk era un grande organizzatore d’incontri e ritiri spirituali, usava mettere a nanna i nipoti cantando Messe Solenni in latino e quando morì, come ha testimoniato un antropologo presente al fatto, si verificarono prodigi celesti.
Insomma, da «buono di Wakan Tanka», come lo ha definito Steltenkamp, il famoso Sioux è diventato un «soldato di Cristo», come ha detto sua figlia, Lucy Looks Twice Black Elk, la principale fonte d’informazione sulla sua conversione. Nella riserva di Pine Ridge funziona ancora benone la scuola cattolica intitolata dai gesuiti a Nuvola Rossa e fondata come Missione del santo Rosario nel 1888.
Il leggendario cow-boy
Nel vecchio West il cattolicesimo conquistò anche William Frederick Cody (1846-1917), notissimo come Buffalo Bill. Corriere, da giovane, per il “leggendario” servizio postale Pony Express, volontario nel “mitico” Settimo Cavalleggeri, soldato “nordista” nella Guerra Civile (1861-1865), decorato dal Congresso americano, nella maturità fece la guida per l’esercito nelle praterie dell’Ovest “infestate” dagli indiani. Quando vinse una gara di caccia al bisonte, si guadagnò il famoso soprannome, e tra il 1868 e il 1872 polverizzò ogni record abbattendo da solo più di 4mila bisonti, un po’ per sfamare gli operai della Kansas Pacific Railroad che costruivano la ferrovia del West, un po’ per sgomberare il campo ai lavori. Per più di un motivo acerrimo nemico degli indiani, nel 1876 si vantò di avere tolto lo scalpo a un Cheyenne per vendicare il generale George Armstrong Custer (1839-1876), caduto nel famoso scontro con i pellirosse a Little Bighorn.
Da ultimo, nel 1883, creò il “Buffalo Bill Wild West Show”, un circo con cui girò il mondo recitando se stesso e scritturando le star del vecchio West: il capo Sioux Sitting Bull-Toro Seduto (1831-1890), la maliarda Calamity Jane (Martha Jane Canary-Burke, 1852-1903) e anche il nostro Alce Nero. In Italia, sfidò persino i butteri dell’Agro pontino.
Cody era massone, iniziato nella Platte Valley Lodge No. 32 di North Platte, in Nebraska, il 5 marzo 1870, e giunto fino al 32° grado del rito scozzese nel 1894. Questo spiega il suo funerale celebrato con rito massonico. Ma appena il giorno prima della sua morte, don Christopher Walsh, della cattedrale dell’Immacolata Concezione di Denver, in Colorado, lo aveva conquistato a Cristo, battezzandolo nella Chiesa Cattolica.
E non fu affatto una conversione spuria e tardiva, dovuta magari alla terribile malattia ai reni che lo consumava. Nel 1890, in Italia con il suo circo, Cody aveva ricevuto una benedizione speciale da Papa Leone XIII (1810- 1903), restandone affascinato, e al suo fianco era stata a lungo un fior di cattolica come la moglie Louisa Frederici (1843-1921) ‒ ma il nome viene riportato con numerose varianti ‒, sposata dal cow-boy nel 1866 e madre dei suoi quattro figli.
Louisa era nata in una fattoria del Midwest, ma era di origine italiana; la sua famiglia è tutt’oggi ricordata per la costruzione della prima parrocchia cattolica di tutta la contea di Jefferson, nel Missouri. A coronamento, è bello ricordare che il 5 aprile 1906, al tempo della terza venuta in Italia del “Wild West Show”, La Stampa di Torino scrisse in prima pagina che «per chi nol sapesse, buona parte degli indiani che seguono la tournée di Buffalo Bill sono cattolici». Tanto che l’istituto delle Missioni Cattoliche di Roma aveva provveduto a fornire loro un confessore, il padre maltese Joseph Strickland (1864-1917), dei gesuiti di Fiesole, già missionario fra i pellirosse.
Il grande capo indiano
Qualcuno peraltro scommette che a “contagiare” Buffalo Bill sia stato Toro Seduto, assai probabilmente battezzato prima di lui. I dettagli della vicenda non sono chiari, ma si sa che i Sioux onoravano i “manti neri” (i missionari gesuiti). Molti capi li invitavano a predicare agl’indiani perché palese era il bene che tutti ne traevano.
Tra i grandi amici di Toro Seduto vi fu il celebre gesuita belga Pierre-Jean De Smet (1801-1873). S’incontrarono nel 1848, quando l’indiano aveva 17 anni e il missionario 47, e si frequentarono per circa due decenni. Toro Seduto ebbe stretti contatti anche con Martin Marty (1834-1896), monaco benedettino svizzero incontrato nel 1877: fu il primo sacerdote cattolico dislocato in pianta stabile nel Dakota nordoccidentale, fondò la missione di Fort Yates e fu autore di un dizionario della lingua Sioux, traducendo pure testi e documenti cattolici. Divenuto nel 1889 il primo vescovo del Dakota, è noto come l’«apostolo dei Sioux».
Pur nella mancanza di prove definitive della sua conversione, agli atti restano il quotidiano The New York Times del 13 aprile 1883, che annuncia il prossimo battesimo di Toro Seduto (parlando inoltre di migliaia d’indiani della zona già convertiti), e una popolare foto che lo ritrae con un grande crocefisso al collo. Forse è vero come qualcuno dice: Toro Seduto ‒ caduto in uno scontro a fuoco con la polizia decisa a impedire quella rituale danza degli spiriti che la legge vietava in quanto sovversiva ‒ morì battezzato, ma non ricevuto ufficialmente nella Chiesa Cattolica. Aveva infatti (all’indiana) due mogli (come riportava The New York Times il 28 settembre 1883), e forse non regolarizzò mai questa sua posizione.
Una storia ancora tutta da esplorare, insomma, quella delle missioni agli indiani d’America, il cui sigillo più bello viene dalla tragedia di Little Bighorn, quando il 25 giugno 1876 la follia di Custer portò a uno scontro senza speranza con Sioux, Cheyenne e Arapaho. Quel giorno cadde infatti anche il capitano Myles W. Keogh, irlandese, classe 1840, veterano antirisorgimentale di Castelfidardo e Ancona, prigioniero a Genova, volontario nella Compagnia di san Patrizio degli zuavi pontifici, insignito dal Papa della Medaglia Pro Petri Sede e della Croce dell’Ordine di san Gregorio.
A Little Bighorn fu l’unico che gl’indiani non straziarono. Il guerriero che stava per mutilarne il cadavere vide pendergli dal collo un ciondolo raffigurante l’Agnello di Dio e, affascinato, si fermò.
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