di Robi Ronza
Muammar Gheddafi, al cui cruento tramonto stiamo assistendo in questi giorni, è o era al potere da 42 anni: un primato assoluto, tanto più notevole se si considera che egli è sempre rimasto un privato cittadino senza mai assumere alcuna carica istituzionale, forte solo del titolo, che si era dato da sé, di “Guida della Rivoluzione”.
Il potere non è qualcosa che nessuno vuole e che perciò resta infine in mano al più sciocco della compagnia. Come è noto si tratta di una merce richiestissima. Perciò chi conquista il potere e lo conserva può essere magari anche perfido e squilibrato (si pensi ad esempio a Hitler), ma non è mai stupido. Venendo al caso di Gheddafi, considerarlo un matto non aiuta né a capire chi sia, né a capire come la Libia può sopravvivergli.
Nei suoi 42 anni di potere Gheddafi è riuscito a restare in sella giostrando con abilità sia all’interno del paese che sullo scacchiere internazionale. Andò al potere proponendosi come campione di una “terza via” tra comunismo e capitalismo secondo un programma in cui la dottrina del nazionalismo pan-arabo s’intrecciava con principi di matrice socialista europea. Ciò gli assicurò per diversi anni la benevolenza dell’Internazionale socialista e più in generale di quegli ambienti dell’establishment progressista europeo che oggi fanno la parte degli anti-Gheddafi della prima ora.
Questo gli consentì di espellere dalla Libia nel 1970 nell’arco di due mesi 20 mila coloni italiani, dopo aver sequestrato senza il minimo indennizzo tutti i loro beni, senza grandi mobilitazioni da parte della stampa italiana e senza nemmeno alcuna seria resistenza da parte del governo di Roma dell’epoca. Si ebbe allora l’impressione che si barattasse l’acquiescenza nei confronti di questa espulsione di massa con il tranquillo sviluppo della presenza dell’ENI in Libia. La massima parte di questi coloni erano agricoltori, che coltivavano in Cirenaica poderi loro assegnati dal regime fascista quando ancora la Libia era una colonia italiana.
Quindi può darsi che la loro presenza in Libia non fosse più politicamente sostenibile. Resta il fatto che il nostro governo del tempo non solo si lasciò cogliere di sorpresa dall’iniziativa di Gheddafi ma anche nemmeno tentò di ottenere che l’esodo avvenisse in modo graduale e che ai coloni si riconoscesse un indennizzo per il valore che il loro lavoro aveva aggiunto a terreni che al momento dell’assegnazione erano o mal coltivati o più spesso incolti.
La vicenda è importante anche ai fini della comprensione dei successivi sviluppi del regime di Gheddafi. Il colonnello ne ricavò il convincimento che pestando i pugni sul tavolo all’Italia e all’Occidente in genere si poteva far ingoiare qualunque cosa.
In seguito assunse una posizione sempre più fortemente anti-americana e anti-israeliana fino a sostenere gruppi terroristici. Nell’aprile 1986 il presidente americano Reagan arrivò al punto di ordinare un bombardamento improvviso sulla sua residenza. I bombardieri lanciati da una portaerei in navigazione nel Mediterraneo distrussero l’edificio ma Gheddafi sfuggì all’attentato, a quanto pare perché il presidente del Consiglio italiano del tempo, Bettino Craxi, lo avvisò di quanto stava per accadere ritenendo (molto probabilmente a ragione) che la sua repentina scomparsa avrebbe creato in Libia un vuoto politico che sarebbe stato probabilmente colmato da qualcuno peggiore di lui.
Caduto il muro di Berlino e finita la “Guerra fredda” nel 1991 con la disfatta dell’Unione Sovietica, per Gheddafi e per molti altri personaggi simili a lui viene meno la possibilità di continuare a giostrare giocando sull’antagonismo Usa/Urss. Il colonnello decide perciò di cambiare politica: cessa ogni sostegno al terrorismo, interviene in alcuni conflitti africani nel ruolo per lui inusitato del pacificatore, e infine dal 2003 in avanti si avvicina apertamente all’Occidente e in primis al nostro Paese, che era restato comunque il principale partner economico della Libia.
Da parte italiana si tratta di un processo che si compie con Berlusconi (per ragionevoli motivi su cui qui non mi soffermo dal momento che già sono stati bene illustrati da Rodolfo Casadei) ma era iniziato con D’Alema, come varrebbe la pena di ricordare a quei leader del PD che ora attaccano l’attuale premier per aver firmato il trattato di Bengasi (30 agosto 2008) e aver poi invitato Gheddafi in visita di Stato a Roma con gli inevitabili risvolti pittoreschi.
Che cosa fare adesso? Adesso occorre fare di tutto perché la transizione in atto in Libia abbia luogo nel modo meno catastrofico possibile. Il nostro Paese ha molte carte da giocare al riguardo. Speriamo che le sappia giocare bene.