La Stampa 3 maggio 1998
Vittima della Chiesa oscurantista? Una studiosa smonta la leggenda del domenicano eretico
Fu consacrato come pensatore nell’800, e poi soprattutto da Gentile, per inventare un primato italiano in campo filosofico
Paolo Mieli
GIORDANO Bruno fu messo al rogo il 17 febbraio 1600. Aveva 52 anni. Era nato a Nola nel 1548; diciottenne era entrato in convento a Napoli per studiare e prendere i voti. Voti di domenicano, gli stessi che un secolo prima erano stati di un altro grande eretico, Gerolamo Savonarola. Ma presto gettò il saio alle ortiche e iniziò un viaggio, a fasi alterne, di allontanamento e riavvicinamento alla Chiesa. In Italia, a Roma, Savona, Venezia, Padova, e fuori: a Chambéry, Lione, Ginevra, Tolosa, Parigi, Praga, Francoforte.
E a Londra, nella Londra protestante di Elisabetta, dove secondo un curioso libro di John Bossy pubblicato in Italia nel ’92, Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata, esercitò attività di spionaggio a favore della regina. Infine, dopo un nuovo peregrinaggio, a Venezia, alla corte del nobile Giovanni Mocenigo che voleva da lui lezioni di occultismo e di mnemonica. E che lo denunciò all’Inquisizione. Il 23 maggio 1592 Giordano Bruno fu arrestato. Finché rimase a Venezia sembrò che se la potesse cavare. Ma poi, trasferito nel ’93 a Roma, al termine di un estenuante processo che durò sette anni, per lui fu sentenza di morte. Morte tra le fiamme.
Per anni l’unico documento che in qualche modo certificò quel decesso (ma soprattutto le atroci modalità con cui avvenne) fu la lettera di un protestante tedesco che in quei giorni era in visita a Roma perché convertito al cattolicesimo: Kaspar Schoppe. La sera del giorno in cui Bruno era stato bruciato vivo, Schoppe mise per iscritto il racconto della terribile esecuzione a cui aveva assistito. Quel racconto, però, fin quasi alla fine del secolo scorso fu oggetto di contestazione da parte di vivaci correnti «negazionistiche» del mondo cattolico: l’epistola di Schoppe sarebbe stata null’altro che un falso seicentesco; di Giordano Bruno il fuoco avrebbe arso solo un ritratto e lui stesso avrebbe vissuto ancora a lungo, agli inizi del XVII secolo, chiuso in un convento dell’Ordine domenicano. Ancora nel 1885 il cattolico francese Théophile Desdouits espose tesi di questo genere in un fortunatissimo libro: La legende tragique de Jordano Bruno.
Celebrazione massonica
Fu anche per reagire a questa offensiva che, qualche tempo dopo la pubblicazione del libro di cui s’è appena detto, il governo italiano presieduto da Francesco Crispi ordinò l’apertura degli archivi, fino a quel momento chiusi al pubblico, della Compagnia di San Giovanni Decollato, cioè della confraternita che aveva il compito di accompagnare al supplizio i condannati a morte. Ne vennero fuori documenti che confermavano in pieno la versione di Schoppe. Ed è tra queste rivelazioni e accesissime polemiche che, nel clima anticlericale della Roma di fine ‘800, fu deciso di collocare un monumento in onore di Giordano Bruno al centro della piazza di Campo dei Fiori (anche se il luogo esatto in cui nel 1600 il filosofo aveva trovato la morte tra le fiamme non era quello, bensì all’angolo tra la piazza e via dei Balestrali).
La statua fu inaugurata nella domenica di Pentecoste del 1889, il 9 giugno, alla presenza di migliaia di persone. Fu ima grande festa, preceduta da un imponente corteo. Entrambi sotto insegne dichiaratamente massoniche. Della massoneria ufficiale era stata dal 1887 la battaglia per quel monumento in Campo dei Fiori; massone lo scultore della statua, Ettore Ferrari; massone anche l’autore dell’epigrafe nonché oratore alla cerimonia di inaugurazione, Giovanni Bovio.
La reazione di papa Leone XIII e della stampa a lui vicina fu un misto di ira e desolazione: il pontefice trascorse quella Pentecoste digiuno ai piedi della statua di San Pietro; i giornali amici del Vaticano denunciavano «l’orgia satanica», «l’idra rivoluzionaria che debaccava» per le vie di Roma, il trionfo dei «rabbi della Sinagoga, gli archimandriti della Massoneria, dei capiparte del liberalismo demagogico»; e annunciavano come seguito a tutto ciò «disastri di ogni maniera, come inondazioni, frane, uragani e simili». Anzi, secondo l’organo dei gesuiti, Civiltà cattolica, queste forme di punizione divina erano già in atto e ben visibili da quando s’era posto mano a quel, maledetto monumento.
Fu in questo contesto che gli studiosi dell’Italia risorgimentale e postrisorgimentale diedero corpo a un’immagine del filosofo di Nola che è viva ancora oggi. Un’immagine che adesso Anna Foa, una sperimentata storica, laica non meno della famiglia da cui proviene (è figlia di Vittorio e Lisa Foa, sorella dell’ex direttore dell’Unità Renzo e di Bettina), rivisita con grande intelligenza e acume. Ma soprattutto con assenza di pregiudizi – e qualche punta di dissacrazione – in un libro, Giordano Bruno, che il Mulino sta per dare alle stampe nella collana che prenderà il nome «L’identità italiana».
Anna Foa precisa senza reticenze a quale necessità fu piegata l’immagine di Giordano Bruno: «La necessità di accompagnare alla costruzione di uno Stato unitario la ricostruzione o, se si preferisce, la reinvenzione di un percorso culturale e filosofico italiano specifico, autonomo e sotto alcuni aspetti egemone nella cultura europea». «In questo ambito – aggiunge – la filosofia italiana del Rinascimento viene interpretata come il primo momento della liberazione del pensiero in Europa e viene posta in stretto collegamento con gli sviluppi della “filosofia moderna” cioè in sostanza di quella filosofia hegeliana che da Spaventa a Croce a Gentile diventerà dominante nel panorama filosofico italiano».
E infatti per due secoli, il ‘600 e il ‘700, di Giordano Bruno era stata discussa, più che la dottrina, l’attività politica che l’aveva portato al rogo. Denis Diderot, in una voce dell’Encyclopédie, lo aveva descritto come un anticipatore del pensiero moderno ma ne aveva criticato la confusione. Poi però, nella Germania romantica del primo ‘800, filosofi come Jccobi, Schelling e Hegel avevano espresso apprezzamento nei suoi confronti e nel ’30 a Lipsia era stata avviata la pubblicazione integrale delle sue opere.
Ma la sua consacrazione italiana cominciò solo negli ambienti del fuoruscitismo napoletano dopo la repressione dei moti del 1848. Per essere completata in anni successivi principalmente a opera di Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis. A loro si deve, secondo Anna Foa, per quel che riguarda Bruno ma anche altro, «l’invenzione di un passato» allo scopo di rendere il presente nobile, dignitoso. E di grande lignaggio. L’invenzione cioè di un primato italiano nel campo filosofico cinquecentesco che sarebbe dovuto servire a compensare e bilanciare l’imbarazzante ritardo dell’Italia nell’essersi fatta Stato. E ad attribuire, implicitamente, la colpa di questo ritardo alla Chiesa cattolica. Colpa che avrebbe trovato una materialità simbolica nel rogo in cui morì il filosofo «eretico, impenitente e pertinace» Giordano Bruno.
Ma non è tutto. Il più grande sistematore di tutta questa rivalutazione di Giordano Bruno sarebbe stato all’inizio del secolo successivo Giovanni Gentile. Circostanza che negli ultimi cinquantanni per comprensibili motivi si è teso a non mettere in grandissimo risalto. Fu Gentile che curò la prima grande edizione delle opere di Giordano Bruno; fu lui che impegnò la cultura nazionale in una battaglia culturale per «restituire al Bruno la sua dignità storica di filosofo»; e fu ancora Gentile a mettere in evidenza come Giordano Bruno, «martire della filosofia», avesse risolto con la sua morte le contraddizioni dello stesso pensiero rinascimentale matrice culturale dell’Italia moderna «sostenendo le ragioni della filosofia contro quelle della religione». «E’ l’immagine», sottolinea la Foa, «tramandataci dai manuali, entrata a far parte del senso comune storiografico, diffusa e ovunque accettata, sia pur in forma semplificata e riduttiva».
Un’immagine che in questi ultimi tempi ha cominciato a essere rivisitata sulla scia di nuovi studi. Per esempio quello su Giordano Biuno «mago» che è al centro di un libro di Francis Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, secondo il quale il filosofo nel suo peregrinare per l’Europa sarebbe divenuto appunto «mago» nel senso che questa parola aveva assunto alla fine del ‘500. Si sarebbe cioè applicato alla missione di assoggettare il mondo ai suoi voleri attraverso l’uso di arti segrete e occulte, di tecniche potenti come quella della memoria. Ne discende per Anna Foa, la quale accetta alcune di queste ipotesi di Yates, che «non la chiarezza della ragione opposta alle tenebre della superstizione religiosa, non questo sarebbe quindi stato lo scontro di Bruno coi suoi giudici, ma quello che contrapponeva all’ortodossia religiosa un pensiero che si voleva superiore, più capace, più consapevole, ricco delle conoscenze di una sapienza antica».
Il che spiegherebbe perché Bruno al cospetto dell’Inquisizione rifiutò di salvarsi. E getta una nuova luce sulla sua intera vicenda. Aiutandoci a capire come mai, a differenza di Bruno, il suo coevo Tommaso Campanella, anch’egli domenicano, anch’egli coinvolto in congiure politiche, anch’egli accusato d’eresia, anch’ egli imprigionato prima a Napoli e poi a Roma, anch’egli torturato, potè salvarsi e morire a Parigi di morte naturale, in un convento, riconciliato con la Chiesa.
In effetti la differenza tra Bruno e Campanella, per quel che riguarda lo scontro con l’istituzione ecclesiastica, non è tanto nella materia di giudizio o nel tribunale dell’Inquisizione che è lo stesso per tutti e due, quanto nel loro diverso comportamento. Giordano Bruno a metà circa della sua vicenda giudiziaria comincia a comportarsi come se credesse di essere dotato di poteri particolari.
Nell’ultimo decennio del XVI secolo Bruno, come abbiamo scritto sopra, si scontra due volte con l’Inquisizione, dapprima a Venezia fino al 1593, poi a Roma: a Venezia si getta ai piedi dei giudici e si dichiara disposto a ogni abiura; a Roma inizia con i giudici il sottile gioco di scherma di cui s’è detto, gioco che si conclude con la sua manifestazione di non disponibilità a piegarsi all’abiura. Quella stessa abiura che sette anni prima non gli aveva creato problemi. A Roma si muove come se pensasse di potersela cavare con le sue arti magiche, confondendo i giudici del tribunale, mettendoli in contraddizione con se stessi. Una tattica suicida che lo condurrà dritto dritto al rogo.
Quello sul processo a Giordano Bruno è forse il capitolo del saggio di Anna Foa che ha le maggiori implicazioni storico-politiche. E anche le più ampie connessioni con il libro di Ernesto Galli della Loggia, L’identità italiana, che inaugurerà la collana aperta dal saggio su Bruno della Foa. Le implicazioni, dicevamo. Innanzitutto la formazione della prova attraverso le testimonianze dei compagni di cella del carcere veneziano che come il cappuccino Celestino da Verona ottengono la scarcerazione e subito denunciano Bruno all’Inquisizione. Tutti testimoni «inaffidabili perché di “vita infame”, carcerati e accusati a loro volta».
In cinque cominciano a riferire che in prigione Bruno profferiva opinioni erronee sulla santa fede cattolica, con il suo dire che Gesù era «un tristo», che «faceva miracoli apparenti e ch’era un Mago e così li apostoli», che Cristo «mostrò di morire malvolentiere» e che non fu crocefisso, bensì impiccato su una forca «come all’hora si solevano attaccare el’huomini delinquenti». Avrebbe detto poi «che Cristo è un cane becco fottuto, can… et alzando la mano, faceva le fiche al cielo».
Si sarebbe pronunciato inoltre contro la messa e contro la credenza sia dell’inferno sia del purgatorio (ma tra i due preferiva il purgatorio dal momento che gli era impossibile credere che nessuno, fossero anche i demoni, potesse essere condannato per l’eternità). Avrebbe speso parole a favore di Caino «uom da ben e che meritatamente uccise Ahel suo fratello perché era un carnefice d’animali». E altri insulti contro Mosè «mago astutissimo» e i Profeti «huomeni astuti, finti e bugiardi». Aveva denunciato la superstizione della Chiesa che «in Genoa tenea per Reliquia la coda dell’asino di Cristo».
Chiacchiere inutilizzabili sotto il profilo processuale. Tant’è che il tribunale romano dell’Inquisizione, forse anche perché si rende conto di questa pochezza, offre ripetutamente a Giordano Bruno l’opportunità di salvare la vita percorrendo la via dell’abiura che aveva già battuto a Venezia. C’è in questa descrizione del trattamento a Bruno da parte dell’Inquisizione qualcosa che, per così dire, differenzia il giudizio storico da quello morale.
Quello morale resta intatto; ma quello storico… Anche se la Foa precisa nel modo più netto di non mirare a giustificare o ad assolvere il tribunale del cardinal Bellarmino e si riserva il diritto di ribadire più d’una volta la sua valutazione negativa sull’intera vicenda sotto il profilo etico. Epperò, per quel che invece riguarda la storia, i fatti sono fatti. E non si deve ricorrere a forzature. «Non immaginiamoci», scrive, «oscure segrete in cui Bruno, in ceppi, sottoposto continuamente a torture e vessazioni, attendesse nelle mani di crudeli e fanatici persecutori un inevitabile destino di morte». Le carceri del S. Uffizio «consentivano condizioni materiali decenti… le celle erano larghe, non prive di luce e contenevano probabilmente a volte anche quattro detenuti. Campanella vi tenne, tra il 1594 e il 1595, lezioni e conversazioni filosofiche».
D’accordo. Ma il processo dell’Inquisizione? «Dal punto di vista giuridico, non vi sono dubbi che il processo di Bruno si sia svolto nel più rigoroso rispetto delle norme, senza abusi o volontà precostituite di condanna». Proprio così: «mei più rigoroso rispetto delle norme»; «senza abusi»; «senza volontà precostituite di condanna». «Neanche il cardinal Bellarmino, il protagonista delle ultime fasi del processo, appare particolarmente ostinato nel volere la condanna del filosofo». «Si ha addirittura l’impressione che il tribunale facesse di tutto per ottenere da lui una ritrattazione e quindi salvarlo».
Un’epoca di roghi non solo cattolici
Va bene. Ma che dire di quella sentenza, del rogo? «Secondo il diritto del tempo, costruito e codificato dalla Chiesa», afferma Anna Foa dopo un’ineccepibile disamina storica, «era non solo in suo (della Chiesa, ndr) diritto ma anche in suo dovere condannarlo». E vogliamo forse dimenticare quanti roghi arsero in quegli anni? Quelli cattolici, sì. Anche di santi come Carlo Borromeo gran bruciatore di presunte streghe. E anche di religiosi non ubbidienti al rito di Santa Romana Chiesa. Non possiamo certo considerare controriformista quel rogo di Ginevra dove il 27 ottobre 1553 bruciò il medico spagnolo Michele Serveto, negatore della Trinità, mandato sulle fiamme da Calvino.
Qui il discorso di Anna Foa si apparenta a quello di Galli della Loggia anche lui impegnato – in margine a discorsi assai più complessi che qui è impossibile riassumere, di ricostruzione dei tratti fondamentali dell’identità italiana – a ricollocare storicamente la Controriforma. Non già ad assolverla ma a restituirla alle sue giuste dimensioni. E anche, beninteso, responsabilità. Che, però, non possono essere, a tutta evidenza, quelle di aver provocato un ritardo di quattro o cinque secoli nella nascita dello Stato italiano. Né di aver da sola, per convenienza o capriccio, estirpato la pianta del Rinascimento. E nemmeno di essere di per sé all’origine della discutibile moralità pubblica delle nostre genti, o della loro irreligiosità mascherata di superstizione.
Per concludere: «Quel che appare sicuramente insostenibile dal punto di vista storico è la riduzione del bimillenario rapporto tra Italia e Cristianesimo, mediato dalla Chiesa, ai due secoli, sia pure importantissimi, della Controriforma».
Ecco dunque che, sulla base di questi studi, Giordano Bruno viene fatto scendere dal piedistallo. Senza togliere nulla alla sua biografia si mette meglio in luce che, per motivi politici legati a una stagione del Risorgimento, è stato quantomeno sopravvalutato come filosofo. Si ricorda che il suo culto, di origini inequivocabilmente massoniche, fu divulgato dal più importante accademico dell’Italia fascista. Ed è così che il suo processo, in virtù quasi di un capovolgimento, diventa la tessera di un mosaico in cui si comincia a vedere una Controriforma diversa. E comunque a tinte assai sfumate.
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