Farà fatica ad essere il Presidente di tutti gli Italiani
don Maurizio Ceriani
Ripeto non mi è piaciuta questa elezione, non mi è piaciuta per il suo muro contro muro, per la valanga di schede bianche da una parte e dall’altra che martedì al mercato faceva ironizzare la casalinga di Voghera, che rivolta a una amica diceva: “Ehi Bianca, hai visto quanti voti hai preso? Va a finire che ti eleggono Presidente della Repubblica!”. Possibile che per tre votazioni non ci fossero proposte degne di essere avanzate?
Nomi che suscitassero larghi consensi? Non esistono in Italia cinque o sei personaggi i cui nomi possono serenamente entrare in una rosa di candidati al Quirinale? La scheda bianca, a buon guardare, finisce per essere quasi un tradimento del compito affidato agli elettori del Presidente, che chiamati ad un compito preciso, quello cioè di indicare una persona al vertice della Repubblica, rifiutano di farlo.
I grandi elettori del Presidente non dovrebbero entrare in logiche di più ampio respiro, piuttosto che restare ostaggi della fredda logica del cinquanta più uno? Quell’uomo che siede al Quirinale è, nella lettera e nello spirito della Costituzione, uno degli alti simboli dell’unità nazionale, al pari della bandiera tricolore, dell’inno nazionale, dell’altare della Patria; è il vertice delle istituzioni repubblicane e il garante della Costituzione stessa. Non dovrebbe essere neppure sfiorato dal dubbio che non appartenga ad una parte del paese, seppur minima ed insignificante.
Di fatto oggi, nonostante i tanti “distinguo” e le tante “dichiarazioni”, rischia di non essere sentito come proprio dal 49,99 % del Paese, grazie alla “leggerezza” con cui una parte del Parlamento lo ha votato e l’altra lo ha rifiutato. Non è certo un bel servizio reso all’ottantenne Giorgio Napolitano, protagonista signorile della vita politica italiana degli scorsi decenni.
Personalmente meritava un’elezione diversa e, soprattutto, lo richiedeva il ruolo che andava a ricoprire. Avrei preferito si fosse proceduto ad oltranza, finché non fosse uscito l’uomo dalle ampie convergenze, come ai tempi dell’elezione di Sandro Pertini. Purtroppo tra quel tempo e oggi si è fatto strada un equivoco che rischia di avvelenare le democrazie moderne; si è imposto un pensiero che vuole esaurire l’esercizio democratico nelle consultazioni elettorali, dopodiché il vincitore reclama il diritto di imperversare.
Una democrazia matura è invece consapevole che, se il potere appartiene al popolo sovrano, la dinamica di maggioranza e opposizione (strano anche il linguaggio che al termine “minoranza” ormai ha sostituito quello di “opposizione”… speriamo di non dover arrivare a quello di “resistenza”) l’un contro l’altra armate finisce per essere un’autentica usurpazione della sovranità popolare. Ci sono poi alcuni momenti nei quali questa dinamica deve essere per forza accantonata, costi quel che costi, per evitare che entrino nella lizza politica le alte istituzioni della Repubblica.
C’è un gustoso episodio nei racconti di Guareschi che magari andava letto agli elettori del Presidente all’entrata a Montecitorio. Il sindaco Peppone cerca di spiegare le dinamiche democratiche alla Signora Cristina, la vecchia maestra del paese, ormai morente, che gli rimprovera l’esilio del Re. “Ha preso più voti contro che a favore – spiega Peppone – è la democrazia!”. La vecchia maestra apre gli occhi e li fissa in quelli del suo antico scolaro; poi con un filo di voce dice con la bella cadenza emiliana: “Bella democrasia la tua! I Re non si mandano via mai!”.
Non si tratta di un revival monarchico, ma dell’affermazione chiara che alcuni valori non si possono gettare nell’arena dell’agone partitico, primi fra tutti i simboli dell’unità di un Paese… altrimenti viene sul serio la nostalgia monarchica… nel bene o nel male, almeno un Re è sempre di tutti, padre o tiranno che sia.