Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
Newsletter n.616 del 15 settembre 2015
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Tuscania, 9 agosto 2015
Sono molto contento di avere la possibilità di parlare a voi giovani. Dovete sapere che i Vescovi amano molto parlare ai giovani e stare con i giovani. Io posso testimoniarlo per me e per la mia diocesi. Ci sono, durante l’anno, dei momenti specificamente dedicati a loro ai quali partecipo molto volentieri. Sono anche sempre contento di incontrare gruppi di giovani che appartengono a qualche associazione ecclesiale o a qualche movimento. Partecipo con grande piacere alla fiaccolata della Veglia di Pentecoste che a Trieste è fatta dai giovani.
A Trieste stiamo lavorando per ristrutturare una chiesetta nel centro cittadino che verrà destinata in modo particolare ai giovani, che lì potranno avere un luogo di spiritualità e di preghiera per loro. I giovani sono veramente nel cuore del Vescovo. In modo particolare i giovani seminaristi ed anche i giovani sacerdoti che io incontro stabilmente una volta al mese.
C’è poi un altro motivo per cui oggi sono contento di parlare a dei giovani. Ho avuto la fortuna nella mia vita di conoscere il cardinale Van Thuan, con cui ho collaborato alla Santa Sede per tanti anni e che mi piacerebbe che anche voi conosceste. Era un cardinale vietnamita, morto nel 2002, che oggi si può incontrare nei suoi scritti e nella memoria di chi l’ha conosciuto.
I suoi libri contengono i ricordi della sua prigionia nelle carceri comuniste del Vietnam, le sue preghiere di speranza e anche molte sue riflessioni sui giovani. Il cardinale viveva in profondità la virtù cristiana della speranza, da lui coltivata anche nelle situazioni più nere come poteva essere una cella di isolamento nel Viet Nam comunista, e questo lo rendeva giovane, spiritualmente parlando. Egli si interessava molto ai giovani, che incontrava nei cinque continenti, e a cui voleva trasmettere questo Vangelo della speranza. E’ anche per questo che oggi ho piacere di parlare a dei giovani, in ricordo di questo cardinale che ha saputo così bene parlare di speranza ai giovani.
E la speranza torna spesso anche nei discorsi di Papa Francesco ai giovani. Egli li ha spesso invitati a “non lasciarsi rubare la speranza”. Anche Papa Benedetto XVI aveva scritto una grande enciclica – la Spe Salvi – dedicata a questa virtù teologale. Pensando ai giovani viene spontaneo parlare di speranza. Si dice spesso nel linguaggio comune che i giovani sono la speranza dell’umanità e in linguaggio religioso che essi sono la speranza della Chiesa.
L’Africa, proprio perché ha una popolazione giovanile molto ampia, viene definito il continente della speranza e l’Europa che, al contrario, vive un impressionante inverno demografico, viene considerato il continente della disperazione. Senza giovani non c’è futuro, dice l’uomo comune, ed ha ragione. Ecco perché risulta spontaneo, rivolgendosi a dei giovani, parlare loro di speranza. I giovani rappresentano il futuro e la speranza riguarda appunto non ciò che è già stato ma ciò che verrà, gli avvenimenti futuri.
Bisogna però stare attenti in questo collegamento tra i giovani, la speranza e il futuro. Ci sono infatti alcune cose da precisare. E la precisazione di questi aspetti mi permetterà di collegarmi con il tema di oggi: i giovani e la nuova evangelizzazione.
Oggi la nostra società ha messo in atto molte forme di aggressione contro i giovani. Pensate per esempio all’enorme dramma dell’aborto. Se ne parla oggi come un diritto e si mettono a disposizione pillole che producono l’aborto senza nemmeno più il bisogno di ricetta medica. Pensate alle forme di divertimento sguaiato ed immorale che oggi la società propone ai giovani o a come viene proposto loro l’amore tra uomo e donna. Non temo di apparire troppo pessimista se dico che oggi, in molte sue forme, la società struttura e programma il peccato proprio nelle proposte che essa fa ai giovani.
La leva con cui questo avviene è proprio la leva del futuro o, come qualcuno ha detto, della cronolatria, o adorazione del futuro: la cosa migliore è la più recente, la più nuova. La società di oggi che è, in molti aspetti, contro i giovani, lo fa diventando paradossalmente “giovanilista”, ossia celebrando come buono e bello tutto ciò che è giovane, l’ultimo ritrovato, l’ultimo comportamento, l’ultima moda.
E’ in questo modo che avviene l’inversione dei termini: la speranza anziché alimentata viene avvilita. La società di oggi propone e impone ai giovani solo una cosa: essere al passo con i tempi. Voi capite che non mi riferisco con ciò solo alla moda, ma agli stili di vita e ai valori. Sposarsi, sposarsi in Chiesa davanti al Signore non sembra più essere al passo con i tempi.
Pensare di avere dei bambini, di essere fedeli per sempre e di amarsi tra innamorato e innamorata come Cristo ama la Chiesa non sembra più essere al passo con i tempi. Coltivare un sentimento di pudore e di timor di Dio nelle espressioni, nel modo di vestire, nel comportarsi tra ragazzi e ragazze non sembra più essere al passo con i tempi. Con la preoccupazione di guardare al futuro si finisce con lo spegnere il futuro nei nostri giovani. Il giovanilismo, infatti, è una malattia spirituale e morale della nostra società che ci impone di essere sempre up to date, aggiornati, anche nelle cose disdicevoli e perfino abiette.
Bisogna allora che stiamo molto attenti al collegamento tra i giovani e il futuro. E’ vero che essi sono volti al futuro, ma non al futuro in quanto tale, inteso solo in senso cronologico, ma ad un futuro di senso, ad un futuro di bellezza e di verità. Il futuro può essere proposto in modo da uccidere la speranza. Uno dei modi per “rubare” la speranza ai giovani – secondo le parole di Papa Francesco – può essere proprio quello di far sì che essi accettino tutto quello che la macchina del futuro, la pianificazione amministrativa o economica del futuro impone loro. A quel punto non ci sarà più vero futuro e non ci sarà più vera speranza.
Possiamo allora vedere insieme il significato dell’espressione “nuova evangelizzazione”. In che senso l’evangelizzazione deve essere nuova? Per essere veramente nuova essa deve essere veramente antica. So di proporvi qui qualcosa di strano per dei giovani, ma io penso che possiamo guardare al futuro con speranza solo se guardiamo al passato, nel senso di ciò-che-abbiamo-ereditato-e-che-ci-costituisce.
Anche nel caso dell’evangelizzazione possiamo cadere nel giovanilismo, inventarci stranezze al passo con i tempi, avvalorare comportamenti come cristiani solo perché in tanti li assumono, prendere ciecamente quello che il mondo fa e farne oggetto di pastorale delle nostre comunità. Sarebbe anche questa una forma di cronolatria, di adorazione delle contingenze del tempo invece che di Gesù Cristo che è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre e della cui parola nemmeno uno iota passerà. Ci si illuderebbe di aprire le porte del futuro ed invece le chiuderemmo davanti a noi.
Se la nuova evangelizzazione fosse nuova nel senso di diversa nei contenuti da quella di sempre, allora sostituirebbe Cristo con il dio tempo, si appiattirebbe su quanto accade e si concluderebbe nel “nulla” della disperazione. Il semplice susseguirsi dei fatti è di per sé privo di senso: il senso, infatti, non può essere un fatto, ma un avvenimento. Se il futuro è un semplice fatto, allora non c’è futuro.
Se il futuro è un avvenimento, allora c’è futuro e c’è speranza. I cristiani guardano al futuro con speranza perché esso è illuminato da un avvenimento che deve venire: il ritorno del Signore e il compimento salvifico della creazione. Questo avvenimento, però, è legato ad altri avvenimenti che costituiscono il contenuto della nostra fede: la Creazione, l’Incarnazione, la Resurrezione, la costituzione della Chiesa. Come potremmo sperare in un futuro se non guardando, indietro, a questi avvenimenti che ci costituiscono come cristiani? Ecco perché prima dicevo che per guardare alle cose nuove bisogna guardare alle cose antiche.
La cronolatria però funziona anche all’inverso e le cose antiche possono essere considerate come non più esistenti, come superate. Che senso avrebbe, allora, guardare ad esse? Da esse non sarebbe possibile ricavare nulla per il nostro futuro. Non è così, però, per le verità realissime della fede cattolica. Che il Signore Gesù Cristo sia morto, che Egli sia uscito dal sepolcro resuscitando, che abbia celebrato la Cena come Sacerdote e sia morto in Croce come vittima, che abbia animato la Chiesa con il suo Spirito nella Pentecoste non sono solo fatti accaduti una volta e appartenenti al passato e alle cose morte, essi sono avvenimenti che continuano ad avvenire. E’ il passato che non muore e che, quindi, può alimentare il futuro e la speranza. Cristo ci sta davanti come il Salvatore ei sta anche dietro come il Creatore. Egli è l’Alfa e l’Omega.
Mi rendo conto che è piuttosto inusuale parlare ai giovani di passato. Ma credo avrete capito che questo passato a cui faccio riferimento non è passato e rende possibile il futuro perché ci rassicura che Colui che attendiamo è già venuto e la nostra attesa non può concludersi aspettando un Godot che non arriverà mai. Colui che sarà alla fine è già stato all’inizio. Dio non interviene ad un certo punto della nostra storia, egli è Colui che, all’inizio, ha voluto quella storia. Quando attendiamo e speriamo lo possiamo fare perché in qualche modo l’oggetto della nostra attesa e della nostra speranza lo conosciamo già. O meglio lo sapevamo già, come dice Sant’Agostino, anche se non lo conoscevamo.
Questo punto è spiegato molto bene dalla esperienza dei convertiti a Cristo. Facciamo l’esempio del grande scrittore inglese G.K. Chesterton, un grande convertito da un anglicanesimo tiepido ad un cattolicesimo fervente. Quando un’anima incontra Cristo prova un immenso stupore e contemporaneamente si sente come tornata a casa. La sua fede cattolica, scriveva Chesterton, soddisfaceva questa duplice condizione. «Sono io l’uomo – egli scrive – che, con estrema audacia, ha scoperto ciò che era già stato scoperto». E’ come quel navigatore inglese che approda su delle coste che egli penava essere un’isola dei mari del Sud e scopre che è l’Inghilterra. Egli aveva immaginato di essere il primo a mettere piede a Brighton per poi scoprire di essere stato l’ultimo.
Per il cristiano l’andare è sempre un ritornare. Colui che cerchiamo è sempre stato presso di noi. Il convertito, quando incontra Cristo, scopre di averlo sempre pensato e che Lui gli era vicino da sempre. Ma la conversione, cari amici, non è solo quella delle grandi conversioni, quella di Chesteron che ho ricordato oppure quella di André Frossard. Ogni cristiano deve continuamente convertirsi. Cristiani non si nasce – diceva Benedetto XVI – si diventa. E lo si diventa ogni istante. Quindi la conversione è continua. E l’esperienza di Chesterton, l’esperienza di aver visto ciò che era da sempre davanti a noi, l’esperienza di trovare il nuovo nell’antico, di conoscere ciò che si era sempre pensato, di incontrare Colui che da sempre è presso di noi, è una esperienza continua.
Noi tutti siamo molto attaccati alle nostre idee. I giovani, soprattutto, sono molto attaccati alle proprie idee, intanto perché sono loro e poi perché sono nuove, addirittura in anticipo sulla verità. Essi, così, alzano spesso la voce per dire le loro verità. Che gioia, però, mantenere le proprie verità e scoprire non che non sono verità ma che non sono le mie. Che gioia scoprire che le mie verità erano vere anche prima di me e che sono verità proprio per questo, non perché mie ma perché vere prima di me. Ecco l’esperienza dello stupore e contemporaneamente il sentirsi a casa. La fede cattolica è così.
Oggi il Santo Padre Francesco invita la Chiesa “ad uscire”. La invita ad evangelizzare. Invita anche voi giovani ad uscire e ad evangelizzare. Però la Chiesa è in grado di uscire verso il mondo solo se rientra sempre e continuamente in se stessa, e si radica nelle proprie profondità. L’agire segue sempre l’essere, come dicevano i filosofi cristiani. La prima cosa è essere, anche per la Chiesa e per l’evangelizzazione. Ed essere significa dimorare nelle proprie profondità, vivere in contatto con ciò che ci ha costituito, appartenere al nostra tradizione.
Pensate alla serenità che noi tutti proviamo nel recitare alla Santa Messa il “Credo”, sapendo che è lo stesso credo degli Apostoli in cui la nostra fede e la nostra beata speranza dimorano da centinaia di anni. La fede è uno “stare” e solo chi sta nella fede può in seguito anche evangelizzare. L’evangelizzazione non è un attivismo, essa nasce da uno “stare”. Ci sono santi che hanno fatto tante cose, ma tutti le hanno fatte come conseguenza del loro “stare” presso Gesù nella Chiesa. E ci sono santi che non si sono mai spostati dalla loro cella di convento, o dalla loro canonica, o dal loro confessionale.
So bene che i giovani sentono in sé una grande voglia di fare. Però è anche tipico dei giovani volersi rendere ragione delle cose, andare fino in fondo alla ricerca dei perché. E il perché dell’agire è sempre l’essere, il perché del fare è sempre il contemplare, il perché di ciò che cambia è sempre ciò che permane.