La Nuova Bussola quotidiana 16 novembre 2018
Oggi il patriottismo è dipinto come xenofobo, ma chi promuove il cosmopolitismo serve un potere non democratico. Il primo a dirlo è Giovanni Paolo II che scrisse: «Quando penso “patria”, esprimo me stesso…frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti». C’è chi dice che il papa si era “snazionalizzato”, ma a Varsavia ribadì: «La parola “patria” ha per noi un significato affettivo».
di Valerio Pece
«Il cosmopolitismo e il nazionalismo sono due facce della stessa medaglia. Il primo non ama nessuna identità, il secondo ama solo la propria e la vuole imporre agli altri (vedi la Germania nell’attuale UE). Chi ama davvero la propria patria rispetta tutte le altre. Wojtyla docet». Così, in un tweet, Antonio Socci rispondeva ad Antonio Polito, che su Il Corriere della Sera paventa il rischio di un Governo che tenti di «mettere il popolo (..) contro la democrazia». É dunque ancora “Karol il Grande”, fa intuire il giornalista senese, colui che più ha da dire sull’attualissimo nodo patria/nazionalismo. Vediamo.
Nel 1974 il papa polacco scriveva una poesia intitolata Pensando patria, versi forti, da meditare: «Quando penso “patria”, esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno». Per Karol Wojtyła, dunque, la patria non rimanda affatto ad un muro, ad una torre, ad un filo spinato. A tutto quello, cioè, che il mainstream rigurgita ogni giorno sul tema. Al contrario, la parola patria rimanda ad una finestra che si apre sugli altri, «una frontiera segreta che da me si dirama». È, questa, una cifra chiarissima (e sempre più attuale) del suo lungo pontificato.
Ne è convinto il carmelitano padre Aldino Cazzago, direttore della Rivista Internazionale di Teologia e Cultura, Communio. Nel suo libro Giovanni Paolo II «Ama gli altri popoli come il tuo!» (Jaca Book) padre Cazzago cerca di rispondere ad una domanda assolutamente insolita, ma a ben guardare per un cantore e amante della terra polacca come Giovanni Paolo II è difficile non porre. Per un Pontefice – chiamato dunque a servire l’universalità – il fatto di vivere così visceralmente il legame con il suo paese può configurarsi una virtù o una mancanza? Il dilemma si pone, se perfino lo storico Andrea Riccardi ha ammesso che Giovanni Paolo II è stato uno dei pochi papi che non si è «snazionalizzato». Tutt’altro.
Basti riascoltare le parole, potentissime, pronunciate durante il suo primo viaggio in Polonia. Appena atterrato a Varsavia, davanti ad una folla sterminata, disse: «La parola “patria” ha per noi un tale significato, concettuale ed insieme affettivo, che le altre Nazioni dell’Europa e del mondo sembra non lo conoscano, specialmente quelle che non hanno sperimentato – come la nostra Nazione – danni storici, ingiustizie e minacce». Era il 2 giugno 1979. Il preoccupatissimo regime comunista aveva obbligato le televisioni di Stato a inquadrature molto strette, solo di anziani e suore, e a non trasmettere l’audio della smisurata piazza (un commovente resoconto video di quei momenti si può vedere qui, dal min. 3.10).
Questa impertinente difesa della patria è il motivo per cui Micromega bollava Giovanni Paolo II come “oscurantista”, sbattendo l’appellativo in copertina. Centra perfettamente il punto Grzegorz Firszt, carmelitano della Pontificia Facoltà Teologica Teresianum. Recensendo il libro di padre Aldino Cazzago, Firszt afferma: «Più Giovanni Paolo II è patriota, più risulta capace di servire altre nazioni, di difenderle, specialmente quelle piccole e indifese, soddisfacendo così il compito di un Pontefice la cui missione è di mettersi a servizio dell’uomo in prospettiva di universalità».
Ora, arrivare alla conclusione che il vero patriottismo sia tutt’altro che becero nazionalismo, con i tempi che corrono è già un buon risultato. Si spinge oltre Yoram Hazony, direttore dell’Istituto Herzl di Gerusalemme, filosofo politico ed editorialista del Wall Street Journal, nel suo fortunatissimo “The Virtue of Nationalism” (New York, Basic Books). Il nazionalismo non è un sentimento negativo, è anzi la virtù di chi resiste al risorgere degli Imperi. Questa è la sua tesi.
Marco Gervasoni, su Il Giornale, chiosando il libro di Hazony scrive che «l’antico popolo d’Israele è la prima nazione della storia e che questa Alleanza è più buona e giusta di quella dell’altra forma di organizzazione politica, l’Impero». Quello che segue è uno snodo fondamentale del libro di Yoram Hazony. «Non esistono infiniti modelli di comunità politica – scrive Gervasoni citando Hazony – anzi nella storia ve ne sono solo due: la nazione, e il suo opposto, l’Impero. Quando perciò molti esaltano modelli post-nazionali, globali, federalisti e quant’altro, anche se non lo sanno (o fanno finta di non saperlo) quello per cui essi si battono è un Impero». Questa, infine, la conclusione di Gervasoni, difficilmente confutabile: «La stessa Unione europea, come scrive Hazony, è strutturata come un Impero, fallace e fallimentare perché privo di un centro e guidato da un’autorità non politica ma tecnocratica, però pur sempre entità di carattere imperiale».
Fa sorridere, dunque, il monito di Angela Merkel, la quale, venerdì 9 novembre, al Congresso del Ppe tenutosi ad Helsinki ha tuonato contro il «nazionalismo che porta alla guerra». É ancora Antonio Socci a sottolineare come ci voglia una discreta dose di coraggio a lanciarsi in certe intemerate. «Con la storia che ha la Germania nel Novecento e con l’egemonia tedesca sulla UE di oggi (vero nazionalismo teutonico che sta facendo vincere alla Germania una guerra economica per noi devastante), la Merkel viene pure a dar lezioni?». Anche qui è difficile dare torto al giornalista.
Tornando a Giovanni Paolo II, per padre Aldino Cazzago l’insegnamento del pontefice polacco ricorda a tutti che «l’unificazione dell’Europa non deve essere fatta a scapito della storia e della peculiarità delle nazioni che sono coinvolte. Unificazione non è omologazione o appiattimento».
In questo senso risulta davvero imprescindibile il discorso che il Wojtyla fece all’Assemblea dell’Onu il 5 ottobre 1995. In un’allocuzione assolutamente sbalorditiva (almeno a leggerla con la “sensibilità” di oggi), dopo aver ricordato che «il diritto all’esistenza implica, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime (..) sua originaria “sovranità” spirituale», san Giovanni Paolo II arrivò addirittura a parlare di “sopravvivenza delle nazioni” (con parole che sono la miglior legittimazione dell’imponente manifestazione di popolo che domenica ha riempito Varsavia al motto di “Dio, Patria, Onore”). «La storia – così San Giovanni Paolo II al Palazzo delle Nazioni Unite di New York – dimostra che in circostanze estreme (come quelle che si sono viste nella terra in cui sono nato), è proprio la sua stessa cultura che permette ad una nazione di sopravvivere alla perdita della propria indipendenza politica ed economica».