di Omar Ebrahime
Il Novecento sui libri di storia delle arti è stato catalogato da tempo come il secolo delle avanguardie, delle “rotture” epocali, o dei cosiddetti sperimentalismi. I quali non sarebbero altro – poi – che la certificazione estrema e definitiva della crisi del canone della letteratura occidentale per come lo abbiamo conosciuto attraverso i secoli. Il mondo letterario ritratto come specchio della realtà, insomma, fatto di concetti certi e permanenti, come “bene” e “male” ad esempio, con un insegnamento morale sempre valido, sparirebbe ora di scena lasciando il posto alle fantasie più impensabili e ai perturbamenti ossessivi di intere generazioni (si pensi, a titolo esemplificativo, all’influenza che eserciterà per tutto il secolo la scuola della psicanalisi freudiana).
Di lui un cronista di primo piano della vita culturale e politica italiana, il guru del giornalismo Indro Montanelli (1909-2001), ebbe a dire: “La storia del XX secolo la si può fare senza chiunque altro ma non senza Guareschi” e non era affatto un’esagerazione.Nei suoi brevi sessant’anni di vita lo scrittore emiliano (era nato a Roccabianca, nella provincia parmense, il primo maggio del 1908) riuscirà davvero ad incidere la sua firma profonda nella storia della Nazione, come pochi altri.
Cresciuto in una famiglia della classe media (a cui sarà sempre orgoglioso di appartenere e di cui si farà anzi vero e proprio cantore una volta affermatosi come scrittore e caricaturista popolare) con un padre commerciante e una madre maestra elementare, Guareschi conosce giovanissimo Cesare Zavattini (1902-1989), il celebre sceneggiatore e commediografo esponente di primo piano del neorealismo cinematografico, allora caporedattore della Gazzetta di Parma, che poco tempo dopo lo fa assumere come correttore di bozze.
E’ il gradino più basso della carriera giornalistica, come noto, ma il giovane Guareschi non si farà intimorire e in pochissimo tempo scalerà tutti i livelli: da aiuto cronista passa a cronista, quindi capo-cronista, facendo esperienza anche presso il Corriere emiliano.
Parallelamente, si dimostra un’artista-professionista a tutto tondo: oltre a scrivere articoli sull’attualità si fa notare infatti come originale novelliere, ma tiene anche rubriche fisse di approfondimento e improvvisa fumetti e caricature, non disdegnando la fine satira politica e rivelando sempre un intelligente umorismo. La vera e propria svolta della sua vita arriva però nel 1936 quando – portato a termine il servizio militare – Zavattini lo chiama a Milano per entrare a fare parte di un giornale umoristico che stava nascendo allora: il Bertoldo (1936-1943).
Più esattamente, si trattava di una rivista settimanale, edita da Rizzoli e diretta dallo stesso Zavattini che raccolse i migliori tra gli artisti non allineati (dall’indimenticabile Leo Longanesi (1905-1957) ad Achille Campanile (1899-1977) fino a Federico Fellini (1920-1993) e gli illustratori del momento facendosi notare per la sua originale linea editoriale dettata da un orgoglioso, quanto entusiasmante, anticonformismo.
Con una tiratura settimanale di 600.000 copie la rivista arriva a essere la più venduta del suo genere ma avrà vita breve: lo scoppio della IIa Guerra Mondiale (1939-1945), infatti, complice anche un bombardamento anglo-americano sulla sede milanese della Rizzoli, porta alla chiusura del Bertoldo, dopo appena sette anni. I due anni successivi, che coincidono con la caduta del Fascismo e la guerra civile (1943-1945) vedono lo scrittore scegliere la fedeltà alla monarchia anziché parteggiare per la Repubblica Sociale Italiana (RSI): una decisione che gli costerà l’arresto e quindi l’internamento nei campi di prigionia tedeschi.
Anche in una simile situazione però, umanamente drammatica, l’umorista emiliano non perde la sua salda fede cattolica né la sua innata voglia di vivere: è in quegli stessi mesi infatti che conia il famoso ossimoro, poi divenuto celebre, “non muoio neanche se mi ammazzano!” (episodio riportato nell’autobiografia ufficiale, pubblicata postuma nel 1993, Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia).
Né questa scelta di campo lo potrebbe collocare tra i simpatizzanti delle forze alleate, tutt’altro: “mi sono abituato a dire ‘no ai tedeschi, continuerò a dirlo agli alleati”, affermerà una volta tornato in Italia. Le motivazioni di questo atteggiamento vanno ricercate nell’italianità profonda e genuina che lo scrittore interiormente coltiva come una sorta di seconda patria identitaria, da affiancare idealmente a quella papista e cattolico-romana.
E’ questa la chiave per comprendere anche il suo vivace impegno civile – che seguirà di lì a poco – profuso per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, le prime elezioni libere del Dopoguerra, in cui si decise – letteralmente – il destino di un popolo. Da una parte c’era infatti allora il Fronte Popolare che vedeva l’unità delle sinistre filosovietiche, coese come non mai, dall’altra la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (1881-1954) e i Comitati Civici di Luigi Gedda (1902-2000) che si battevano per la difesa delle radici cristiane e la scelta filo-occidentale.
Di fatto fu lo scontro che decise l’orientamento politico e sociale dell’Italia contemporanea o, perlomeno, della cosiddetta Prima Repubblica (1948-1994). L’anticomunismo di Guareschi, di marca sostanzialmente cattolica e quindi ragionato e sistematico, affatto demagogico né retorico, scrisse nell’occasione le pagine migliori con una carrellata di felici slogan che passeranno alla storia, da “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no” a quello, riportato su migliaia di manifesti elettorali: “100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia. Mamma, votagli contro anche per me”.
Negli stessi anni, viene inaugurata l’altra grande esperienza di battaglia culturale che lo vede protagonista, ovvero la rivista indipendente del Candido, da lui stesso voluta e fondata (1945-1961). Settimanale umoristico di chiare simpatie monarchiche, mai rinnegate anche all’indomani della sconfitta nel contestato referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la rivista fu diretta da Guareschi per circa dodici anni, fino al 1957, quando lo scrittore fu sostituito da Alessandro Minardi (1908-1988).
La pattuglia di collaboratori del foglio era – se possibile – ancora più agguerrita di quella del Bertoldo, il suo ideale, e più vicino, punto di riferimento. Sul Candido scrissero infatti, tra gli altri, Indro Montanelli, Lucio Lami (1936-2013), ancora Achille Campanile e Leo Longanesi e persino – saltuariamente e sotto pseudonimo – una giovanissima Oriana Fallaci (1929-2006).
Nel 1961, poi, complice l’apertura a sinistra dell’editore Rizzoli, la rivista chiuse definitivamente le pubblicazioni e Guareschi verrà accolto dal Borghese, il periodico anticonformista che – almeno in parte – raccoglierà la funzione politica che era stata del Candido. Non erano comunque anni facili per Guareschi, il suo amore per la verità l’aveva infatti già portato a scontrarsi con i poteri forti che allora giganteggiavano nel Paese, fossero pure democristiani.
Una triste vicenda, dai più purtroppo dimenticata, lo vide infatti affrontare un processo per diffamazione su denuncia dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che aveva visto pubblicate sul Candido due sue lettere autografe in cui – in piena guerra – chiedeva alle forze alleate di bombardare Roma con l’obiettivo di fiaccare la resistenza nazifascista. Le perizie che lo scrittore chiese più volte di effettuare sulle lettere oggetto di dibattito vennero inspiegabilmente negate e lo scrittore fu condannato a dodici mesi di carcere.
Assolutamente convinto della propria innocenza, Guareschi rifiutò persino di andare in appello e accettò la condanna, conoscendo sulla propria pelle l’esperienza del carcere. Anche le richieste di grazia, che diversi amici gli consigliavano di inoltrare, furono tutte rifiutate sulla stessa base argomentativa: chi è innocente non ha nulla di cui farsi perdonare.
Alla fine, lo scrittore rimase così in prigione per 409 giorni dando una rara testimonianza di coerenza umana e intellettuale, anche di fronte all’enorme ingiustizia che si compiva a suo danno. Di fatto, Guareschi sarà il primo giornalista della storia repubblicana a scontare interamente una pena detentiva in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa, obiettivamente una vergogna in un moderno Stato di diritto.
E ancora, più avanti, quando ormai l’Italia politica inaugurava la stagione del centrosinistra e quella culturale iniziava a diffondere i primi virus ideologici di quello che sarebbe stato il “1968”, Guareschi subirà un’altra umiliazione: la rivista popolare Oggi, infatti gli rifiuterà la pubblicazione di un racconto antiabortista dal titolo “L’embrione”, temendo di incorrere nelle ire della magistratura militante che lo scrittore emiliano prendeva di mira.
Morì poco tempo, dopo lasciando un vuoto incolmabile, a causa di un improvviso attacco cardiaco, in quel di Cervia, il 22 luglio 1968.
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