Il paesino bosniaco dove, tra galline e tacchini, una cellula preparava l’attentato ai funerali di Wojtyla
di Toni Capuozzo
Sono stato a Gornja Maoca. Embè? E’ il paesino nel quale, secondo un’inchiesta pubblicata lo scorso 26 agosto dal Corriere della Sera, una cellula wahabita aveva concepito un piano per colpire, in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II, nella più formidabile adunata del secolo di potenti e civili senza nome riuniti nello stesso luogo.
E allora adesso mi piacerebbe raccontarlo come un viaggio ai confini, lungo una strada di fango e di polvere, sfiorando cespugli che frusciano sui vetri come ricordi di dieci anni di guerre balcaniche, incarnati nell’operatore che mi sta accanto, nel corpaccione dell’immortale Igor Vucic, cinico e buono come un vero balcanico: “E’ tanto che non andavamo insieme in un posto di merda, ci eravamo promessi di visitarli tutti, ma sono senza fine”.
Mi piacerebbe descriverlo come una salita al paradiso posticcio di una comunità ritornata alle origini, trenta uomini e donne e bambini sotto la cupola celeste cupo della sharja, e dire delle loro barbe degli uomini intinte nell’henné, delle donne dietro le persiane, dei bambini sospettosi.
Come una gita in un agritur fondamentalista, tra galline e tacchini, cavalli e pecore bianche e nere in abbondanza. O riferire delle parole di Enes Mukovic, il leader, della sua baldanza conquistatrice: la strada di Allah è la strada che inforcherete anche voi italiani. O solo raccontare una loro giornata, una comunità hippie sopravvissuta agli anni Sessanta, affumicata dagli altoparlanti della casa trasformata in moschea, i versetti come un viaggio psichedelico, accompagnata da un reverendo Jones in abiti islamici in mezzo a un incongruo paesaggio alpino.
Ma bisogna dar conto delle notizie, dei fatti o delle voci. Dunque, le premesse. C’è un’indagine del Sismi, e un’operazione con la polizia croata. Viene arrestato a Zagabria un tipo, con precedenti per omicidio, munito di doppio passaporto, croato e bosniaco. Gli trovano in casa 11 lanciarazzi e un chilo di esplosivo.
Con lui finiscono in carcere altre quattro persone. Che ci fa un delinquente comune con quell’arsenale ? E’ roba già venduta a un noto passeur, un contrabbandiere di extracomunitari specializzato nel confine italo-sloveno. E lui che ci avrebbe fatto? Lo avrebbe dovuto portare in Italia per conto di una cellula terrorista, con base a Gornja Maoca, in Bosnia.
Curiosamente, nessun giornale italiano manda qualcuno nel paese, tanto per dare un’occhiata. E’ un viaggio istruttivo, perché è un sentiero tra i resti della guerra, le paure sepolte, la caccia pigra ai criminali di guerra serbi, la stralunata convivenza interetnica in posti come Brcko, le paure dei serbi, il disagio dei musulmani normali, le trame del fondamentalismo, le tozze moschee di cemento finanziate dai sauditi, che sostituiscono l’eleganza leggera dei minareti di montagna, legno dei boschi di Bosnia.
Ed è anche un viaggio tra le voci, che sostituiscono le notizie: “Vedi, non è che gli americani sottovalutino i mujaheddin, solo che non vogliono dare troppo rilievo alle notizie, per paura che si risveglino le paure, e gli odi”, dice Igor. Un cameriere, a Brcko, parlando sottovoce ha detto bene: “Qui la legge internazionale vieta di provocare, e certe notizie provocano”.
Un eremo fodamentalista
Dunque: i fatti. Gornja Maoca da quattro anni è un eremo fondamentalista. Qui venne arrestato un militante con un lanciarazzi e molti passaporti, e trattenuto per più di un anno dagli americani, prima di essere passato alla polizia bosniaca. Amnesty International intervenne sul suo caso, temevano venisse portato a Guantanamo, come un gruppo di algerini che era stato preso in Bosnia. Le voci dei villaggi attorno parlano di campi di addestramento tra i monti: difficile, gli elicotteri americani li avrebbero individuati, ed è complicato distinguere tra paure e tensioni, e rancori degli abitanti serbi che hanno lasciato Gornja Maoca.
A Sarajevo le voci dicono che i mujaheddin si sono trasferiti in altri due campi, uno a Jablanica, la gloriosa città del ponte sulla Neretva fatto saltare da Tito nella ritirata che precedette la vittoria, e l’altro nella Bosnia centrale. E il piano per colpire ai funerali del papa ? Sarebbero stati tre i commando che avrebbero dovuto infiltrarsi in Italia, e, lavorando uno all’insaputa dell’altro, raccogliere informazioni sulla cerimonia, e stabilire i dettagli.
I finanziamenti dell’operazione arrivavano dall’Austria, dove vivono un certo numero di esponenti della comunità wahabita. Sono tutte voci, ma hanno trovato eco sulla stampa locale. Enes Mukovic, il reverendo Jones di Gornja Maoca, dice che è una montatura dei servizi segreti croati e serbi per impedire loro di vivere secondo le regole di Allah, e sporcarne l’immagine.
Lui non ha neppure combattuto le guerre balcaniche, era in Austria a quei tempi. Forse qualcosa di più verrà fuori dal racconto del primo pentito di Al Qaeda in Bosnia, che a Sarajevo sta raccontando per filo e per segno fatti e misfatti.
Noi abbiamo potuto solo verificare che i carabinieri italiani sono saliti effettivamente a Gornja Maoca, e hanno perquisito la casa di Mukovic. Chissà se anche loro hanno notato il piccolo cimitero serbo invaso dalle felci, nella valletta sottostante. Come un monumento alle pulizie etniche al contrario, e una cartolina dalla guerra giusta, o tollerabile, che ci fece bombardare la televisione di Belgrado, quando l’America era buona, e il governo nostro passabile, e i musulmani del Kossovo povere vittime.