1861-2011 Unità e Risorgimento, 150 anni dopo – Le ferite, la speranza
Milano il 19 marzo Sala Alda Merini
– Spazio Oberdan –
Egli stesso era ben consapevole dell’isolamento della minoranza risorgimentale, come scrisse il 26 febbraio 1854 a Giuseppe Mazzini: «[…] le masse che ponno fare una rivoluzione non servono alla formazione d’un esercito per sostenerla, non avendo con noi massime i contadini»[3].Ciò è vero innanzitutto per l’America del Sud, dove combatteva non per la libertà dall’Argentina delle popolazioni del Rio della Plata, che anzi s’impegneranno strenuamente nella difesa delle loro tradizioni culturali, ispaniche e cattoliche, ma per assicurare libertà di commercio all’impero britannico, molto interessato a quell’area geopolitica.Per questo motivo deve ricorrere, come ammette nelle sue Memorie, a «[…] marinai avventurieri conosciuti sulle coste americane dell’Atlantico e del Pacifico sotto il nome di “Frères de la côte”, classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri»[4] oppure «[…] quasi tutti disertori da bastimenti di guerra. E questi devo confessarlo erano i meno discoli. Circa agli americani, tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio. Dimodoché, essi erano veri cavalli sfrenati»[5].
È vero per la cosiddetta prima guerra d’indipendenza italiana, nel 1848-1849, quando gli viene affidato il comando di un migliaio di uomini, in maggioranza «[…] gente che aveva disertato od era stata dichiarata fisicamente inabile al servizio militare presso gli eserciti sardo o lombardo; e per quanto non fossero veri e propri criminali, come i marinai montevideani, al fuoco si mostrarono meno coraggiosi e meno fidati di questi»[6].
È vero per la Repubblica Romana, dove i rivoluzionari sono «tiepidamente aiutati, o non aiutati affatto, dai romani (a parte il folto gruppo di trasteverini, guidati dal loro capopopolo Ciceruacchio»[7] e durante la ritirata verso l’Italia settentrionale sperimentano «[…] gli effetti della reazione rinascente in tutte le province Italiane»[8].
Garibaldi lamenta che lo abbandonino soprattutto gli ufficiali, fra cui i vecchi compagni di tante battaglie: «I gruppi dei disertori scioglievansi sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie. […] codardi nell’abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti»[9]. Episodi simili si verificano anche in occasione della spedizione contro lo Stato Pontificio nel 1867, quando Garibaldi lamenterà che «l’irregolarità della nostra organizzazione ha cagionato nei suoi primordi degli atti ben vergognosi»[10] e attenderà invano la sollevazione di Roma, chiudendo ingloriosamente la sua avventura a Mentana, dove è sconfitto dai regolari pontifici, mentre i suoi uomini danno luogo a fenomeni massicci di diserzione e di fuga, quali mai si erano visti fino ad allora.
Unica eccezione sembrerebbe la spedizione dei Mille, caratterizzata da una partecipazione popolare, limitata e iniziale, che si esaurisce non appena sono chiari gli scopi politici — l’annessione dell’ex Regno di Sicilia al costituendo Regno d’Italia — e socio-economici, cioè la salvaguardia dell’ordine esistente, come risulterà chiaro a Bronte, dove lo stesso Garibaldi autorizza la strage, ordinando al governatore di Catania d’inviare «[…] immediatamente una forza militare atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi»[11].
I Mille, del resto, non costituiscono un’accozzaglia pittoresca di patrioti bensì il nerbo del volontariato garibaldino, cioè esperti veterani, vero e proprio esercito di quadri pronti ad assumere il comando di reparti sempre più consistenti e destinati, in molti, a veloci carriere nell’esercito sardo [12]. Eva Cecchinato insiste sul fatto che questa prima spedizione, «una sorta di “aristocrazia” riconosciuta del garibaldinismo» [13], non va identificata, come avviene comunemente, con l’impresa garibaldina tout court ma rappresenta solo l’avanguardia di un’operazione più vasta e complessa.
Le milizie garibaldine ottengono uno scarso contributo dal volontariato meridionale; già nelle prime settimane arrivano i rinforzi dal Regno di Sardegna, come ricorda, fra gli altri, il memorialista piemontese Giuseppe Cesare Abba, descrivendo la prima spedizione di soccorso, modello di tutte le altre: «Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito; quaranta ufficiali coll’uniforme dell’esercito piemontese formavano la vanguardia» [14].
Grazie all’aiuto, prima indiretto poi diretto, dell’esercito sabaudo, i Mille si moltiplicheranno e porteranno a termine vittoriosamente l’aggressione al Regno delle Due Sicilie. L’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che potrebbe rivendicare i caratteri di epopea popolare, si configura dunque sostanzialmente come un’operazione di pirateria al servizio dell’idea unitaria e degli interessi britannici — come una riedizione in scala più ampia, tutta da meditare in sede storiografica, delle imprese uruguayane di Garibaldi —, compiuta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica e condotta contro le più elementari norme del diritto internazionale, con l’obbiettivo di ribaltare le istituzioni legittime di uno Stato sovrano da sempre riconosciuto dal consesso delle nazioni e benedetto dalla suprema autorità spirituale.
Garibaldi, inoltre, aveva aderito al programma risorgimentale, ispirato alla duplice intenzione di unificare l’Italia e di procedere al «rinnovamento morale e civile» degli italiani; in sostanza, un tentativo insidioso di «rieducazione» popolare, volto a disfare il tradizionale ethos italiano fondato sul cattolicesimo per costruire un ethos nuovo, progettato a tavolino da élite politiche e intellettuali. Riteneva, infatti, che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale», evidente fin dai primi giorni di vita del nuovo Stato unitario, fosse la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione.
Mentre altri operavano a livello della minoranza colta, Garibaldi diffonde, in forme più immediate e comunicative, fermenti anticattolici presso i ceti popolari, anche con la distribuzione capillare della sua immagine di redentore e di opuscoli e di catechismi che attribuivano a lui la vera rappresentanza della «legge di Cristo» contro le imposture del Papa, con la sostituzione nelle sedi di molte associazioni dell’immagine del santo patrono con suoi ritratti o fotografie, nonché la disponibilità ad officiare laicamente alcuni sacramenti, soprattutto il battesimo, anticipando e accompagnando nuove ritualità, come la celebrazione di matrimoni e battesimi con il solo rito civile e l’assegnazione ai figli di nomi non tratti dal calendario cristiano ma ispirati al nuovo martirologio patriottico; infine, con la stesura di romanzi ingiuriosi e denigratori nei confronti del clero e del Pontefice.
Sono di quegli anni, inoltre, le sue battaglie per laicizzare l’istruzione elementare, per estendere ai chierici l’obbligo del servizio militare e per togliere alla Chiesa «[…] il pascolo dei morti, adottando invece dei campisanti, che riempono di miasma le città, il sistema di cremazione, usato utilmente dagli antichi Greci e Romani, non che dagli Italiani, fino al quarto secolo dell’era volgare»[15].
Non è estraneo a questo furore irreligioso la sua iniziazione massonica, avvenuta nel 1844, in Uruguay, presso una loggia riconosciuta dal Grande Oriente di Francia, notoriamente laicista e anticristiano. Non va dimenticato, peraltro, che in Garibaldi l’anima razionalista e negatrice del mistero coesiste con quella occultistica.
Nel 1863 accetta la presidenza onoraria di una società spiritica veneziana e nel 1881 — pur avendo spesso optato per una struttura «aperta», al fine di facilitare la comunione dei diversi corpi massonici e fare della massoneria il perno di quel fronte laico e radicale che avrebbe dovuto contribuire a trasformare il paesaggio sociale e culturale dell’Italia unita —, torna a preferire strutture verticizzate e forme più riparate d’iniziazione, chiudendo la propria carriera come Grande Ierofante del Rito Antico e Primitivo, suprema carica dei rami rituali di Memphis e Misraïm.
Anche per questo motivo non si può celebrare Garibaldi, vero «soldato del cosmopolitismo rivoluzionario»[16], secondo la definizione dell’agitatore francese Jean-Joseph-Charles-Louis Blanc (1811-1882), e «rivoluzionario disciplinato»[17], cioè pronto a mettere da parte ogni sua ambizione per il trionfo della Rivoluzione in Italia. In conclusione, una figura tutt’altro che limpida ed esemplare, tanto nella prospettiva religiosa quanto in quella civile, se si considera un valore la continuità identitaria della nostra nazione.
Una figura che contribuisce a dividere e non, come auspicato, a unire: accettarne l’icona equivarrebbe infatti ad accettare un’unità intossicata da una falsa e ideologica nozione d’italianità, in contraddizione con le radici più genuine della civiltà italica. Non a caso Garibaldi fu assunto come emblema nel 1943-1945 dalle brigate partigiane comuniste, nonché dal Fronte Popolare socialcomunista nella battaglia elettorale — felicemente persa — del 18 aprile 1948.
Fu vera gloria? No!
[1] Massimo Introvigne, Verso il 2011. Identità cattolica e unità degli italiani, in Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, pp. 5-33 (p. 10).
[2] Messaggio alle Camere del Capo dello Stato, Sandro Pertini (1896-1990), per il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi, del 2-6-1982, in Corriere della Sera, 3-6-1982.
[3] G. Garibaldi, Epistolario, a cura di Giancarlo Giordano, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1981, vol. III (1850-1858), pp. 62-63.
[4] Le memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, Cappelli, Bologna 1932, p. 57.
[5] Ibid., p. 144.
[6] Jasper Ridley, Garibaldi, 1974, trad. it., Mondadori, Milano 1975, p. 290.
[7] Mino Milani, Giuseppe Garibaldi. Biografia critica, Mursia, Torino 1982, p. 187.
[8] Le memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, cit., pp. 300-301.
[9] Ibid., p. 302.
[10] G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. II (1862-1867), Cappelli, Bologna 1935, p. 434.
[11] Idem, Lettera del 3-8-1860, in Epistolario, a cura di Massimo De Leonardis, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988, vol. V (1860), p. 197.
[12] Cfr. P. Pieri, op. cit., p. 654, nota.
[13] E. Cecchinato, Il regno delle camicie rosse. L’impresa garibaldina nel 1860, in M. Isnenghi (diretto da), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. I, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, cit., pp. 560-579 (p. 560).
[14] Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, Zanichelli, Bologna 1960, p. 141.
[15] G. Garibaldi, Alle donne, alla gioventù studiosa e alla stampa indipendente d’Italia, 6-7-1867, in Epistolario, vol. XII (gennaio-dicembre 1867), a cura di Emma Moscati, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1983, pp. 116-119 (p. 117-118).
[16] Cit. in Fulvio Conti, L’Italia dei democratici. Sinistra risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano 2000, p. 83.
[17] Cfr. Mario Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Il mito, le favole, Donzelli, Roma 2010.
Leggi anche l’intervento di mons Luigi Negri
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