Un’inchiesta sui pentecostali africani nel nostro paese
di Laura Badaracchi
Lo racconta Annalisa Butticci, ricercatrice al Dipartimento di sociologia dell’Università di Padova, in Le religioni pentecostali, volume edito da Carocci e scritto a quattro mani con Enzo Pace, professore di Sociologia delle religioni e direttore del Dipartimento dello stesso ateneo. La storia della «vescova» Diana testimonia quello che gli studiosi della diaspora pentecostale africana in Europa chiamano molto plasticamente «reverse mission»: si tratta del «tentativo di rievangelizzare l’Europa a opera di coloro che furono al tempo evangelizzati dai missionari cristiani europei», spiega la Butticci, precisando che si può parlare di una fase elaborativa di un «discorso giustificatorio» nel quale «la missione salvifica delle Chiese africane assume una forte centralità».
Le parole del pastore Jeff, nigeriano, risultano inequivocabili: «Gli europei hanno portato la loro religione in Africa e noi l’abbiamo accettata, ricevuta e praticata. Adesso la riportiamo indietro in Europa come un rimborso. Io pensavo che in Italia, con la presenza delle Chiesa cattolica, non avrei trovato nessuna immoralità. Invece, con mia sorpresa, ho scoperto che l’Italia è una Babilonia! Mi ha colpito vedere certe cose in un Paese di santi. L’Italia ha bisogno di un ritorno». E conclude: «I nigeriani che sono qui hanno già conosciuto la parola di Dio, conoscono Cristo. La missione di evangelizzazione è per gli italiani che ci ospitano. Molti di loro sono davvero lontani da Dio».
RITORNA NELLE INTERVISTE dei pastori un aspetto, dunque, critico e al tempo stesso propositivo: «Lo sguardo sospetto nei confronti della Chiesa cattolica, che non riesce a dominare e sconfiggere l’immoralità che imperversa nella società italiana». Tuttavia i pentecostali si pongono davanti a questa sfida con un atteggiamento «di auspicata collaborazione», privo di antagonismo. Si delinea, quindi, uno scenario di annuncio verso gli autoctoni, sia da parte dei carismatici che arrivano nel nostro Paese con questo intento, sia da parte degli studenti e dei migranti economici che a un certo punto decidono di fondare una piccola Chiesa.
Sì, perché la presenza pentecostale è polverizzata sul territorio, nota la studiosa, che stima «una Chiesa pentecostale o carismatica» ogni 80 immigrati di fede cristiana al Nord e al Centro-Sud, con particolari concentrazioni in Campania, Puglia e Sicilia. Per la sola comunità nigeriana, se ne stimano 550; altrettante fra i ghaneani, ma generalmente non superano gli 80 fedeli. Compaiono anche togolesi e liberiani, filippini, latinoamericani ed europei dell’Est, anche se la presenza africana risulta prevalente.
Eppure, se dalle affermazioni dei pastori si passa ai fatti, emergono alcuni freni sostanziali alle «forti ambizioni missionarie», osserva ancora la ricercatrice. Sono pochissime, infatti, le Chiese che «sono riuscite ad attrarre fedeli italiani». Complici le difficoltà di integrazione: nella maggioranza dei casi «i culti sono condotti in inglese e gli stessi pastori e membri fanno fatica a comunicare in italiano, pur essendo in Italia da diversi anni». E poi le Chiese sono «di prima generazione, ossia fondate dai pastori attualmente in carica», quindi ancora in una fase pionieristica.
Una esigua minoranza, se si pensa al pentecostalismo come fenomeno globale che accoglie tra i suoi adepti «almeno un quarto dei due miliardi di cristiani nel mondo», riferisce il professor Pace. In Italia, comunque, si configura uno scenario composto da tante piccole tessere del mosaico, completamente diverso da quello di Paesi di antica migrazione, come l’Inghilterra, dove i pentecostali hanno ormai varcato il traguardo della terza generazione. Senza contare le barriere di «malcelato razzismo» e il fatto che «alle Chiese carismatiche e pentecostali non venga riconosciuta alcuna autorità religiosa – come precisa la Butticci -. La loro presenza è segnalata infatti nei registri delle associazioni culturali».
RILEVANTE LA FUNZIONE di network sociale svolta dalle Chiese, frequentate per lo più da persone tra i 20 e i 50 anni; molte le ragazze madri o le donne prive di sostegni familiari, per le quali le comunità «assumono un ruolo di considerevole supporto, organizzando veri e propri servizi di welfare» che vanno dal sostegno economico al baby sitting e doposcuola per i bambini. Ad accoglierle, sempre più di frequente sono pastori donne: «Le loro leadership, in un contesto cattolico e patriarcale come quello italiano, sono estremamente singolari e antagonistiche», commenta la studiosa.
Insieme ai loro «colleghi» uomini, le pastore vivono le difficoltà dei loro connazionali, a cui si aggiunge «una sorta di schizofrenia socio-identitaria»: di giorno sono operai in fabbrica, colf, in cerca di occupazione, a volte senza permesso di soggiorno; dopo il lavoro, «e soprattutto durante il fine settimana, sono leader religiosi e di comunità con responsabilità di consulenza individuale, guarigione, preghiera, amministrazione della Chiesa e guida dei fedeli».
Insomma, «improvvisati imprenditori del carisma», spesso senza titoli di studio in teologia o formazione pastorale, ma che riescono a intercettare e soddisfare bisogni «legati alle performance dello straordinario e alla fruizione dei più disparati beni di salvezza per il popolo migrante». Ritrovandosi in «non luoghi», come seminterrati e capannoni, depositi e magazzini, come pure in locali parrocchiali o dei patronati. Una realtà da approfondire, che supera i cliché coloriti dei canti con le mani alzate.