Il “Compagno Duch” è il primo gerarca del regime, che provocò quasi 2 milioni di morti, a essere condannato. Il regime dei Khmer rossi perseguì tra il ’75 e il ’79 l’eliminazione sistematica di circa un terzo del popolo cambogiano ed il loro leader Pol Pot, morto impunito nel ’98 aveva il pieno appoggio del PCI, da Giorgio Napolitano a Massimo D’Alema
Cacciato perché pubblicai le immagini dei massacri
Nel ’76 un servizio fotografico sulle uccisioni in Cambogia mi costò il posto di direttore di “Epoca”. Per il Pci le testimonianze delle atrocità erano falsi creati dagli imperialisti Usa.
di Livio Caputo
Cinque anni dopo la loro istituzione e diciotto mesi dopo l’avvio del processo, le «Camere straordinarie dei tribunali cambogiani» hanno finalmente condannato il primo esponente dei Khmer rossi per i crimini contro l’umanità commessi nel periodo 1975-79. Si tratta di Kaing Guek Eav, detto il compagno Duch, direttore del famigerato carcere Tuol Sleng S-21, in cui furono torturati e uccisi 14mila cambogiani (compresi molte donne e bambini) colpevoli soltanto di sapere leggere e scrivere e quindi di essere stati «contaminati» dalla civiltà capitalista.
Nonostante l’immensità dei suoi delitti, si tratta di un pesce relativamente piccolo rispetto non solo a Pol Pot, il capo del movimento morto nel 1998. Duch, che alla caduta del regime si era eclissato ed era stato scovato in un remoto villaggio dell’interno dal giornalista irlandese Nic Dunlop solo nel 1994, ha confessato le sue colpe e chiesto perdono alle sue vittime, ma ha sostenuto di essere stato solo una rotella di un ingranaggio infernale più forte di lui.
Il processo, in realtà, non ha aggiunto molto a quanto già sapevamo dei delitti commessi dai Khmer rossi quando, dopo il ritiro degli americani nella primavera del ’75, assunsero il controllo della Cambogia. Il loro leader Pol Pot, formatosi negli ambienti «gauchiste» di Parigi e seguace di un comunismo alla cinese, sosteneva che la civiltà capitalista aveva corrotto l’umanità e che, per purgarla da questo morbo, bisognava sopprimere tutti gli individui «contaminati».
Per questo il suo movimento, composto da giovani analfabeti reclutati nelle campagne cui era stato instillato l’odio per «l’uomo urbano», procedette al metodico sterminio di circa due milioni di persone (un terzo della popolazione), spesso accusati solo di portare gli occhiali: dopo essere stati rinchiusi in campi di concentramento come Tuol Seng, venivano torturati e poi inviati a morire nelle paludi dell’interno, come documentato dal famoso film «Urla dal silenzio».
In realtà, più della scontata condanna di Kaing, interessa constatare quanto il giudizio sui Khmer rossi sia mutato rispetto al periodo in cui egli commetteva i suoi misfatti. A metà degli anni Settanta, infatti, Pol Pot era portato in palma di mano da gran parte della sinistra europea. L’11 aprile del 1975, cioè prima dell’apertura di Tuol Seng, ma quando già si conoscevano le sue idee, il Comitato centrale del Pci (comprendente tra gli altri D’Alema, Napolitano e Bassolino) votò una risoluzione per esaltare «l’eroica resistenza dei popoli cambogiano e vietnamita» e invitare tutti i comunisti a «sviluppare un grande movimento di solidarietà e di appoggio ai combattenti».
Molti intellettuali, compresi scrittori illustri come Tiziano Terzani, consideravano Pol Pot e i suoi Khmer rossi avanguardie della rivoluzione ed eroi della guerra contro gli «imperialisti americani» delle popolazioni indocinesi. Pensarla diversamente, anche quando il genocidio era già iniziato da tempo, era considerato un atteggiamento fascista. Quando il sottoscritto, allora direttore di Epoca, pubblicò nella primavera del 1976 con il titolo «Un massacro per la rivoluzione» il primo servizio fotografico che documentava i crimini del regime cambogiano, fu duramente contestato dal comitato di redazione e alla fine ci rimise addirittura il posto.
Per quella sacrosanta rivoluzione – era la tesi dei compagni – non si potevano commettere massacri, al massimo si eliminava qualche traditore, e le immagini che dimostravano il contrario non potevano essere che falsi fabbricati dalla Cia. Ci vollero diversi anni, e innumerevoli quanto inconfutabili testimonianze, prima che anche i comunisti occidentali si decidessero ad ammettere che Pol Pot era solo un grande criminale.
Più che a fare giustizia, la condanna del compagno Duch può essere utile per ricordare ai giovani che ancora sventolano bandiere rosse con falce e martello quanti crimini furono commessi in nome del comunismo, non solo nella versione europea, ma anche in quella asiatica, e come possa essere pericoloso seguire acriticamente le sirene della cosiddetta intelligentia di sinistra.
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il Giornale, 27 luglio 2010
Da Napolitano a D’Alema il Pci applaudiva l’”eroe”
La sponda comunista. Gli eredi di Botteghe Oscure non hanno mai rinnegato le dichiarazioni di allora
Gennaro Sangiuliano
Aprile 1975, l’ultimo elicottero americano abbandona Saigon, la foto del marines che ripiega la bandiera a stelle e strisce sul tetto dell’ambasciata Usa fa il giro del mondo, diventa il simbolo della sconfitta, dell’America umiliata, della grande vittoria comunista. Aprile 1975, in piazza Maggiore a Bologna, capitale del potere rosso in Italia, il Pci organizza una grande manifestazione per celebrare la «magnifica vittoria» dei compagni in Indocina.
In quei giorni non solo è caduta Saigon ma con qualche giorno di anticipo a Phnom Penh, capitale della Cambogia, entrano vittoriosi dei misteriosi guerriglieri, piccoli in pigiama nero, si chiamano Khmer rossi, li guida il «compagno Pol Pot», così definito dai documenti del Pci, che invece il giornalista Ettore Mo definirà «uno degli uomini più scellerati della storia dell’umanità».
In quelle settimane la Cambogia, e in forma meno oscena il Vietnam e il Laos, iniziano un periodo di oscurantismo e di terrore. Una follia dell’utopia leninista marxista che, secondo le statistiche ufficiali dell’Onu, fece oltre due milioni di morti. Il Pci non si limita a celebrare la vittoria dei compagni ma rivendica a pieno titolo un legame con i guerriglieri in pigiama nero. L’11 aprile del 1975, quando stava per iniziare il terrore dei Khmer, il Comitato centrale del Pci aveva già votato una risoluzione a favore di quella che definisce «l’eroica Resistenza del popolo cambogiano e vietnamita ».
Dell’organismo dirigente che esprime la piena solidarietà agli inquietanti leader del comunismo indocinese, facevano parte, oltre ad Enrico Berlinguer, Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano, Antonio Bassolino, Armando Cossutta. Il documento testualmente invita a «…sviluppare un grande movimento di solidarietà e di appoggio ai combattenti. Ogni democratico, ogni comunista, sia, come sempre e più di sempre, al loro fianco».
Non occorre un grande sforzo per valutare quale fu l’atteggiamento di fratellanza comunista che il Pci italiano ebbe nei confronti del compagno Saloth Sar, vero nome e cognome di Pol Pot, basta scorrere la collezione dell’ Unità dell’epoca per comprendere come non esistesse alcuna remora, alcun dubbio, alcun sospetto, su questo criminale che i fatti hanno posto al pari di Hitler e Stalin.
Con toni di grande retorica Pol Pot e i Khmer rossi sono i vincitori di una battaglia del bene contro il male, coloro che hanno umiliato l’odiata America, con i suoi orpelli della libertà e della democrazia. Invece, dopo poche ore l’ingresso a Phnom Penh inizia uno dei più immani genocidi del Novecento, due milioni di vittime, su una popolazione di meno di sei milioni di abitanti. In poche ore, la capitale, simbolo dell’urbanizzazione occidentale, viene svuotata, i malati vengono lasciati morire negli ospedali o finiti con un colpo di fucile alla nuca. Nel mirino finiscono prima gli «evoluè», le persone che hanno una qualche forma di cultura non marxista, basta portare gli occhiali o parlare una lingua straniera, per essere passati per le armi. Poi tocca agli altri.
Il ritardo al lavoro nelle campagne è punito con la fustigazione a colpi di bambù, al terzo ritardo si è condannati a morte. Un uomo che vuole sposare una donna inoltra domanda alla direttrice delle donne del villaggio che gliene assegna una a sua scelta. Tiziano Terzani ammette i suoi errori e comincia a raccontare la verità. I telegiornali Rai, con grande professionalità di alcuni colleghi, raccolgono le prime testimonianze degli orrori, raccontati da chi fugge in Thailandia. «I falsari della tv», titola l’Unità in prima pagina, all’attacco dei telegiornali definiti: «esibizione di parzialità e di menzogna». Gli inviati dell’Unità raccontano, invece, la gioiosa vita nel paradiso del comunismo.
Si dovrà a uno straordinario film, «Urla nel silenzio», diretto da Roland Joffé e vincitore di tre premi Oscar, il miglior racconto della macelleria cambogiana. Tutto questo è storia, consacrata dai tribunali internazionali, ma in Italia ancora non è stata scritta la storia di chi ha condiviso, almeno moralmente, le nefandezze di Pol Pot e compagni. Certo, il contesto dell’epoca, si dirà. Ma poi, perché dopo non c’è stato neanche un gesto, uno scampolo di autocritica?
Se vogliamo quello che è accaduto per la Cambogia è più grave dei fatti di Ungheria e Cecoslovacchia.Questo per l’entità del genocidio e per la natura gratuitamente criminale dell’azione di Pol Pot. Quelle volte che qualcuno ha interpellato i dirigenti dell’allora Pci, i firmatari di quei documenti di sostegno, molti dei quali ancora oggi attivi in politica, ha ottenuto risposte di circostanza.
La dissociazione è scontata. Nessuna condanna aperta e meditata per aver condiviso politicamente quella follia. Del resto la misura di tutto ciò è anche nella conoscenza di quei fatti. In Italia sono stati pubblicati solo tre o quattro libri sul genocidio cambogiano. Questa vicenda ora è consegnata alla storia ma come ci hanno insegnato Vico e Croce la storia è il metro della civiltà.