George Weigel, nato a Baltimora, nello Stato nordamericano del Maryland, nel 1951, è studioso e opinionista cattolico, ascrivibile a una delle famiglie di cui si compone il mondo neoconservatore statunitense. Distinguished Senior Fellow all’Ethics and Public Policy Center di Washington, nel 1986 ha dato vita alla James Madison Foundation, servendo come suo primo presidente.
Per il suo impegno culturale profuso negli anni a difesa della verità della dottrina e del Magistero cattolici è stato insignito della croce papale Pro Ecclesia et Pontifice. Ha pure ricevuto otto lauree honoris causa e la medaglia d’oro Gloria Artis conferitagli dal governo della Polonia.Fra i suoi scritti sono stati tradotti in italiano: Verso una società libera: cento anni di dottrina sociale cattolica, con un’introduzione di don Richard John Neuhaus (Mondadori, Milano 1994); L’ultima rivoluzione: la Chiesa della resistenza e il crollo del comunismo (Mondadori, Milano 1994); Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II (Mondadori, Milano 1999); La Chiesa spiegata a chi non crede (e a chi desidera capire di più per credere meglio) (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2008); La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio, a cura di F. Felice (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006); e Benedetto XVI. La scelta di Dio, a cura di F. Felice (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006).
Il saggio qui tradotto è stato pubblicato con il titolo The Sixties, Again and Again in First Things: The Journal of Religion, Culture, and Public Life (mensile edito da The Institute on Religion and Public Life di New York e diretto da don R. J. Neuhaus, aprile 2008, pp. 32-39) ed è adattamento di una conferenza tenuta il 23 gennaio 2008 come William E. Simon Lecture, il ciclo annuale intitolato all’ex ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America, businessman e filantropo cattolico William Edward Simon (1927-2000), che, organizzato dall’Ethics and Public Policy Center e tenutosi presso la sua sede di Washington, ha avuto come titolo Referendum on the Sixties: The Issues Behind the Issues in 2008. Traduzione, note e inserzioni fra parentesi quadre sono redazionali.
George Weigel
Durante la campagna elettorale per la presidenziali francesi del 2007, Nicolas Sarkozy si scagliò duramente contro quanto gli europei ancora chiamano Sessantotto, descrivendo la Nuova Sinistra seguente il 1968 come “immorale” e “cinica”, e definendo la scelta di fronte a cui si trovava l’elettorato francese in termini netti: “In questa elezione, si tratta di sapere se l’eredità del Maggio ’68 debba essere perpetuata o se debba essere liquidata una buona volta per tutte” (1).
Evidentemente, la politica francese non ha ancora scoperto quelle piacevoli sensazioni che offrono i focus group.Da un capo all’altro del mondo occidentale, il 1968 fu un anno brutto, un momento in cui la storia sembrò sbandare senza controllo. Il peggio si verificò in Europa, dove l’impatto del 1968 fu più profondo. Nell’Europa Occidentale le agitazioni del 1968 provocarono una rottura profondadella con il passato, e se coloro che a Parigi salirono sulle barricate fallirono sul piano politico, ebbero invece successo su quello culturale; la scoraggiata Europa Occidentale, che oggi soffre di una crisi di senso della propria civiltà, è il riflesso della politica spossata del 1968, come Sarkozy, Marcello Pera, Giuliano Ferrara, Joseph Ratzinger e altri hanno riconosciuto.
Eppure negli Stati Uniti d’America quell’anno viene ricordato in modo diverso. Fu certamente un anno terribile, traboccante di violenza politica; ma sono stati gli Anni 1960 nel loro complesso, tutti “i Sixties”, a esercitare impatto duraturo sulla nostra cultura e sulla nostra politica.
Non propongo peraltro di rivedere se quelli che chiamiamo “Anni 1960” siano in realtà nati negli Anni 1950 oppure no, o se essi abbiano mostrato tutte le loro potenzialità in quel decennio volgare che furono gli Anni 1970. Voglio piuttosto prendere in esame sei momenti cruciali degli Anni 1960, con un occhio di riguardo al modo in cui essi hanno rimodellato la cultura politica statunitense innescando effetti che si avvertono ancor oggi.
Quanto un vasto settore della cultura politica statunitense ha imparato da quei momenti costituisce infatti il canovaccio del 2008, e, piaccia o no, in questo senso importante gli Stati Uniti d’America stanno ancor oggi combattendo le battaglie iniziate negli Anni 1960.
Il primo momento: l’assassinio di John F. Kennedy nel 1963
Oggi John Fitzgerald Kennedy [1917-1963] avrebbe novant’anni, un’eventualità quasi impossibile da immaginare. Quando le pallottole di Lee Harvey Oswald [1939-1963] lo colpirono, il 22 novembre 1963, l’immagine che il Paese aveva del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America si congelò in una specie di ambra commemorativa.
È abbastanza difficile pensare a un Kennedy sessantenne proprietario di un grande quotidiano — una carriera postpresidenziale che stava considerando — ed è semplicemente impossibile rappresentarselo a settantacinque o a novant’anni d’età. Nella percezione del Paese, egli resta cioè giovane in eterno.
Ma noi comprendiamo le ragioni per cui egli morì? Nel libro Camelot and the Cultural Revolution James Piereson sostiene che la risposta è, nella maggior parte dei casi, negativa (2). Secondo la Versione Autorizzata della “Kennedy story“, proposta dai biografi — ed ex assistenti di Kennedy — Arthur [Meier] Schlesinger [jr.] [1917-2007] e Theodore [Chaikin “Ted”] Sorensen, l’assassinio del presidente fu l’effetto collaterale di una cultura della violenza che aveva contagiato l’estrema Destra statunitense.
La fobia della Destra contro il comunismo e contro l’attivismo a favore dei diritti civili si faceva sentire in tutto il Paese e trasformò la città di Dallas in un manicomio politico in fermento. Era verosimile che lì potesse accadere qualcosa di terribile e ciò accadde a Kennedy, che si era recato a Dallas per difendere la politica della ragionevolezza contro quella della paura irrazionale. Kennedy venne martirizzato dall’irragionevolezza.
Questa la versione degli storici di corte, che, in modo piuttosto interessante, coincide con la versione narrata ai visitatori del museo ubicato al sesto piano del Texas School Book Depository di Dallas, da dove Oswald esplose i suoi colpi letali. Ovviamente, Schlesinger e Sorensen non hanno operato nel vuoto. Come Piereson utilmente ricorda, si sono accodati ai grandi media che hanno immerso l’assassinio di Kennedy e il successivo omicidio di Oswald in un torrente d’introspezioni a proposito di Stati Uniti d’America timorosi del mondo, terrorizzati dai cambiamenti sociali e drogati di violenza.
L’interpretazione di Schlesinger e di Sorensen fu congeniale a Jacqueline [Lee Bouvier, “Jackie”] Kennedy [1929-1994], e molto probabilmente l’idea che lei si fece di quanto era accaduto e del perché si deve a tale interpretazione. Dopo l’arresto e l’identificazione di Oswald, la signora Kennedy si lamentò per il fatto che suo marito non aveva avuto nemmeno la soddisfazione di venire ucciso per i diritti civili; il suo assassino era stato un “povero stupido comunista” (3), un fatto che ella riteneva aver spogliato la morte del marito “di ogni significato” (4).
Il significato sarebbe stato dunque creato e così nacque — con l’aiuto del popolare storico Theodore White e del periodico Life — quell’immagine familiare che descrive la Casa Bianca di Kennedy come una Camelot arturiana, un “breve momento di splendore” che — come dice il libretto composto da Alan Jay Lerner [1918-1986] per un musical della Broadway contemporanea — non dovrà “mai essere dimenticato” (5).
Rimangono tuttavia alcuni fatti precisi, come evidenzia Piereson: Lee Harvey Oswald era un comunista convinto, che in precedenza si era rifugiato in Unione Sovietica, e un sostenitore fervente di Fidel [Alejandro Castro] Ruz; l’amministrazione Kennedy era nemica giurata del regime comunista di Castro, aveva autorizzato l’operazione della Baia dei Porci (6) e aveva negoziato la rimozione da Cuba degli IRBM [Intermediate Range Ballistic Missile, “Missile Balistico di Portata Intermedia”] sovietici, con grande disappunto dello stesso Castro.
Il movente di Oswald fu l’odio nei confronti della politica da Guerra Fredda praticata da Kennedy. Il presidente non fu insomma una vittima dell’irrazionale Destra statunitense; fu una vittima della Guerra Fredda, una Guerra Fredda — ricorda Piereson — che egli perseguì con vigore, anche se non sempre con saggezza o con successo.
L’incapacità di prendere atto di tutto questo in un Paese ancora scosso dalla crisi missilistica cubana del 1962 è forse comprensibile. Ma l’esagerata condiscendenza verso il mito di Camelot ha esercitato effetti gravi sulla cultura politica degli Stati Uniti d’America. Trasformando Kennedy — la personificazione stessa del liberalismo pragmatico, razionalista, anticomunista e tutto teso ai risultati — in una figura mitica il cui idealismo non potrà mai più essere ricreato, i suoi agiografi hanno contribuito a minare la fiducia nel progresso che un tempo caratterizzava il liberalismo di Franklin [Delano] Roosevelt [1882-1945], di Harry [Spencer] Truman [1884-1972] e di Kennedy stesso.
Una volta svanita questa fiducia, la teorizzazione del complotto è migrata dalle paludi malariche dell’estrema Destra per cominciare a infettare il liberalismo statunitense. E siccome il glorioso passato di Camelot non poteva essere mai più ricreato, il liberalismo statunitense è divenuto meno una questione di cambiamenti sostanziali e più una questione di stile, e a un certo punto addirittura uno stile di vita. Il risultato è il liberalismo che conosciamo oggi: un liberalismo per il quale il riconoscimento giuridico — anzi, la promozione — del libertinismo come stile di vita resta la preoccupazione suprema.
L’assassinio di Kennedy fu l’evento che nella cultura politica statunitense innescò quella tempesta di fuoco che chiamiamo Anni 1960. Certo, un po’ di legna era già lì e attendeva solo di essere accesa. Un anno prima della morte del presidente, gli Students for a Democratic Society [SDS] pubblicarono quello che sarebbe diventato un testo chiave per la Nuova Sinistra, il manifesto noto come Port Huron Statement, la “Dichiarazione di Port Huron” (7).
L’assassinio di Kennedy sembrò confermare le lamentazioni di Port Huron a proposito della perduta innocenza politica di una generazione intera: come dissero Thomas [Emmet “Tom”] Hayden e i suoi colleghi dell’SDS, “ciò che avevamo inizialmente visto come l’Età dell’oro statunitense fu in realtà il declino di tutta un’epoca”. Morto Kennedy, non vi erano più risposte nel vecchio liberalismo pragmatico: da qui il disprezzo della Nuova Sinistra verso due degli ultimi liberali pragmatici rimasti, Hubert [Horatio] Humphrey jr. [1911-1978] e Henry M.[artin “Scoop”] Jackson [1912-1983], per non citare l’odio accanito che essa nutrì nei confronti del presidente liberale più vittorioso sul piano legislativo di tutta la storia statunitense, Lyndon [Baines] Johnson [1908-1973].
Prendete due misurini d’innocenza perduta, aggiungete demonologia in abbondanza, lasciate macerare questa miscela dentro la teoria politica marxista e semicotta di Herbert Marcuse [1898-1979] e che cosa ne otterrete? A pochi anni dalla Dichiarazione di Port Huron e dall’amministrazione Kennedy ciò che si ebbe fu quel letale cocktail politico che prese a scrivere America con la “k”: l’Amerika, ovvero una struttura politica autoritaria simil-nazista costruita sull’ingiustizia a casa propria e gravemente pericolosa nel mondo.
Il declino rapido dell’immaginazione e delle argomentazioni politiche della Sinistra statunitense che seguì all’assassinio di Kennedy portò, con il tempo, a un’altra sorpresa: il capovolgimento del campo gravitazionale delle idee politiche statunitensi. Nel 1949, Lionel Trillino [1905-1975], la personificazione letteraria del vecchio liberalismo, deplorò quei conservatori statunitensi che “[…] si esprimono” solo attraverso “irritanti posture mentali che tentano di assomigliare a idee” (8).
Meno di vent’anni dopo, era la Nuova Sinistra a incarnare la truce descrizione di Trilling, mentre un movimento conservatore rivitalizzato stava muovendo i primi passi nello sviluppare quelle idee economiche, culturali, sociali, nonché riguardanti il welfare e la politica estera che avrebbero dominato la vita pubblica statunitense dal 1980 fino agli attacchi dell’11 settembre 2001.
In quel periodo, e fino a oggi, i conservatori e i neoconservatori hanno sfidato gli statunitensi a farsi carico di fardelli ingenti onde “[…] assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà” (9), come Kennedy aveva affermato nel suo discorso d’insediamento alla presidenza mentre molti liberali, che pretendevano di vestirsi da Kennedy, si facevano promotori delle più svariate forme di neoisolazionismo.
Viene il sospetto che tutto ciò non fosse esattamente quello che Jacqueline Kennedy, Arthur Schlesinger, Ted Sorensen e Teddy White avevano in mente quando crearono il mito di Camelot. Irrispettosi di quanto i cortigiani pensavano, possiamo infatti essere del tutto certi che della propria amministrazione Kennedy non aveva l’idea che ne aveva l’SDS: ovvero che essa fosse il corrispettivo statunitense della Germania di Weimar.
Il secondo momento: il caso Griswold v. Connecticut del 1965
Nel 1961, il direttore esecutivo della Planned Parenthood League del Connecticut, Estelle [T.] Griswold [1900-1981], aprì una clinica per il controllo delle nascite a New Haven in collaborazione con il dottor C. Lee Buxton, un professore della Yale School of Medecine. Il loro obiettivo era verificare la costituzionalità della legge emanata nel 1879 dallo Stato del Connecticut per proibire la vendita di anticoncezionali, un provvedimento mai applicato su cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva da poco rifiutato di pronunciarsi.
Proprio a quel punto venne alla luce quella che appare esser stata una strategia attentamente elaborata: le autorità dello Stato del Connecticut agirono; Griswold e Buxton finirono sotto accusa, furono processati, vennero condannati e quindi multati di 100 dollari ciascuno; e quanto deciso in primo grado venne confermato dalle importanti Corti d’Appello del Connecticut, inclusa quella che, con appellativo splendido, si chiama “Corte Suprema degli Errori”.
Griswold e Buxton si rivolsero quindi alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, la quale accettò di esaminare il caso, denominato Griswold v. Connecticut, e poi, con la sentenza pronunciata nel 1965, invalidò sia le condanne sia la legislazione del Connecticut, affermando che il provvedimento in oggetto violava quanto l’opinione di maggioranza scritta dal giudice della Corte Suprema William O. Douglas [1898-1980] chiamava “il diritto alla privacy coniugale” (10).
Il giudice Douglas riconobbe che la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America non menziona il “diritto alla privacy“, coniugale o di altro tipo, ma, con una decisione divenuta famosa, stabilì che un diritto di quel tipo doveva venire individuato nelle “penombre, generate dalle emanazioni” (11) dei diritti espressamente elencati nella Costituzione federale.
In dissenso, il giudice della Corte Suprema Potter Stewart [1915-1985] descrisse la legge dello Stato del Connecticut, che riteneva costituzionale, come “eccezionalmente sciocca” (12), cosa che, a posteriori, fu una frase che egli avrebbe potuto usare per descrivere il caso Griswold v. Connecticut, aggiungendo “pericolosa” a “sciocca”. In base alla nostra cultura giuridica, infatti, il caso Griswold v. Connecticut rappresentò la Pearl Harbor della battaglia culturale statunitense, vale a dire dell’aspro confronto su quali siano le fondamenta morali e culturali della nostra democrazia che ha modellato la politica nazionale per due generazioni.
Come Edward Whelan (13) ha acutamente osservato, chi avrebbe detto che la contraccezione avrebbe avuto un tale potere generativo? La sentenza nel caso Griswold v. Connecticut produsse quindi, nel 1972, la sentenza nel caso Eisenstadt v. Baird con cui la Corte Suprema estese le protezioni di legge garantite dal “diritto alla privacy” anche alle coppie non sposate.
A sua volta, la sentenza nel caso Eisenstadt v. Baird produsse la sentenza nel caso Roe v. Wade con cui il “diritto alla privacy” venne impugnato da un capo all’altro del Paese per abbattere le leggi sull’aborto vigenti nei diversi ordinamenti degli Stati componenti l’Unione nordamericana mediante ciò che il giudice della Corte Suprema Byron [Raymond] White [1917-2002] ha definito un esercizio di “arroganza giudiziaria” (14).
La sentenza nel caso Roe v. Wade produsse quindi la sentenza nel caso Planned Parenthood of Southeastern Pa. [Pennsylvania] v. Casey, che pose il “diritto all’aborto” fra le libertà sancite dal XIV Emendamento alla Costituzione federale. Le sentenze nei casi Roe v. Wade e Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey generarono poi la sentenza pronunciata dalla Corte Suprema del 2003 nel caso Lawrence v. Texas, che abolì una legge contro la sodomia vigente nello Stato del Texas, con il giudice Anthony McLeod Kennedy che fece esplicito riferimento al “diritto alla privacy“ emerso nella sentenza del caso Griswold v. Connecticut definendolo il “[…] punto d’inizio più pertinente” (15) al filo del ragionamento che ha condotto la Corte Suprema alla sentenza del caso Lawrence v. Texas.
E se le sentenze nei casi Eisenstadt v. Baird, Roe v. Wade, Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey e Lawrence v. Texas sono derivate direttamente dalla sentenza nel caso Griswold v. Connecticut, non è difficile vedere come la sentenza nel caso Goodridge v. Department of Public Health, con cui nel 2003 la Corte Suprema del Massachussets ha imposto il cosiddetto “matrimonio gay“, sia un derivato collaterale del “diritto alla privacy” scoperto dal giudice Douglas nella Costituzione.
L’alterazione dell’ordinamento giuridico compiuto dagli Anni 1960 ha dunque avuto un impatto tremendo sulla nostra cultura politica. Così come la pillola contraccettiva facilitò la rivoluzione sessuale sul piano tecnico, la sentenza del caso Griswold v. Connecticut la facilitò sul piano costituzionale.
L’indifferenza del governo verso la contraccezione è stata volentieri interpretata in modo tale da insinuare l’indifferenza del governo verso questioni come l’aborto e questo attraverso l’idea falsa che l’aborto sia una questione di privacy sessuale invece che di giustizia pubblica; e così il “diritto all’aborto” si è presto trasformato in uno dei temi decisivi della politica statunitense.
“Il “diritto all’aborto”, con tutte le sue argomentazioni in tema di liberazione sessuale — osserva Hadley [P.] Arkes (16) — è diventato il perno principale su cui sono stati poi articolati tutti gl’interessi del Partito Democratico”, esattamente come, “dall’epoca di Ronald [Wilson] Reagan [1911-2004], il Partito Repubblicano è diventato il partito pro-life della politica statunitense”.
Gli osservatori più attenti noteranno qui un’inversione radicale. Se l’aborto e tutte le altre questioni inerenti la difesa della vita umana sono di fatto le grandi questioni di diritti civili del nostro tempo — giacché riguardanti la possibilità dello Stato di negare arbitrariamente la protezione del diritto a determinati membri della comunità umana —, allora la sentenza del caso Griswold v. Connecticut ha comportato il cambiamento di rotta rispettivamente dei Democratici e dei Repubblicani in tema di diritti civili, con i primi che oggi interpretano il ruolo che i suoi intransigenti membri del Sud ebbero in questo Paese nei giorni di gloria del movimento a favore dei diritti civili.
Del resto, la Corte Suprema non è stata certamente la sola protagonista di questi importanti cambiamenti. L’invenzione della pillola contraccettiva è da considerarsi, al pari della scissione dell’atomo e della scoperta della doppia elica del DNA, una delle tre conquiste scientifiche che nel secolo XX hanno avuto maggior impatto a livello mondiale. La rivoluzione sessuale è del resto stata influenzata anche da precise correnti filosofiche, in particolare dall’enfasi sull’autenticità posta dall’esistenzialismo.
Un ruolo l’ha infatti giocato anche l’incapacità dimostrata da numerosi filosofi morali moderni di spingersi oltre la distinzione tra fatto e valore operata da Hume [David (1711-1776)] nel momento in cui cercano di elaborare un approccio a una qualche forma contemporanea di ragionamento etico fondato sul diritto naturale, il quale in cambio avrebbe peraltro contribuito a disciplinare il dibattito pubblico sull’aborto.
La resa passiva della maggior parte delle autorità religiose dinnanzi alla rivoluzione sessuale ha quindi rimosso un importante ostacolo culturale al progresso trionfale della rivoluzione sessuale, la quale è stata a sua volta sostenuta dagli sviluppi — o forse è meglio dire dal deterioramento — della cultura popolare.
Ancora, nel valutare l’impatto avuto dagli Anni 1960 sulla politica del 2008, occorre sottolineare le conseguenze giuridiche avute dal caso Griswold v. Connecticut. Infatti proprio con quella sentenza la Corte Suprema ha cominciato a dare veste giuridica all’idea che la morale sessuale e che il modello di vita familiare siano questioni di scelta o di gusto privati, e non questioni di rilevanza pubblica per cui lo Stato nutre un interesse legittimo. Non avrebbe dovuto essere affatto una sorpresa che questa tendenza avrebbe poi, un giorno, portato alla pretesa di considerare matrimonio qualsiasi “unione fra parti del corpo di adulti” che dichiari di esserlo.
Analogamente, non dovrebbe costituire sorpresa il fatto che la Corte Suprema, avendo con successo avocato a sé l’autorità di redigere una “Costituzione vivente”, basata su penombre ed emanazioni, assuma il ruolo di Filosofo Metafisico Nazionale o di Balia Nazionale, come ha fatto in occasione della sentenza pronunciata nel caso Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey attraverso il famoso passaggio relativo al “mistero della vita” e mediante l’ingiunzione minacciosa, rivolta a una plebaglia riottosa, ad adeguarsi alla propria giurisprudenza filoabortista.
La strada reale che conduce a questo tipo imperiale di magistratura potrebbe anche non essere cominciata con la sentenza nel caso Griswold v. Connecticut, ma certamente quella sentenza ha accelerato il moto che ha portato al suo coronamento.
Il terzo momento: l’offensiva del Têt nel 1968
La guerra combattuta dagli Stati Uniti d’America in Vietnam si è estesa dal 1964 al 1975. La guerra combattuta dagli Stati Uniti d’America in tema di Vietnam prosegue ancora oggi, come il presidente [George Walker jr.] Bush ha scoperto nell’autunno del 2007 allorché ha stilato un’analogia con quello scenario bellico per lanciare l’allarme contro le conseguenze non dissimili che un precipitoso ritiro degli Stati Uniti d’America dall’Iraq potrebbe avere.
“Una mossa rischiosa”, l’ha definita il settimanale Time. “Priva di senso”, ha detto lo storico Robert Dallek. “Irresponsabile e ignorante”, ha rumorosamente disapprovato il senatore John [Forbes] Kerry. “Grottesco”, lo ha schernito Robert Scheer del settimanale The Nation, edito a New York. “Surreale”, l’ha giudicato la redazione del quotidiano The New York Times. Perché, si è chiesto il capo della maggioranza Democratica al Senato, Harry [Mason] Reid, Bush legava le proprie “strategie lacunose” a “uno dei peggiori errori di politica estera mai compiuti nella storia del nostro Paese?”.
A giudicare dalle batoste prese, verrebbe da pensare che il presidente abbia bestemmiato. Cosa che, in un certo senso, egli ha davvero fatto, giacché se oggi nella Sinistra esiste ancora una convinzione che viene nutrita in modo simile alla più rigida interpretazione dell’inerranza biblica diffusa fra certi fondamentalisti protestanti, ebbene questa è l’attaccamento che la stessa Sinistra ha nei confronti della propria vulgata relativa alla Guerra in Vietnam. Secondo lo storico Arthur [L.] Herman, tale vulgata si basa su quattro tesi.
La prima sostiene che un’America, ossessionata dal comunismo, inciampò irrazionalmente in una lotta interna vietnamita in cui non era in gioco alcun interesse vitale statunitense. Quell’ossessione portò dunque gli Stati Uniti d’America — e questa è la seconda tesi — a combattere una guerra contro un movimento di guerriglia autoctono e sostenuto dalla popolazione locale per la quale l’esercito statunitense era impreparato; fu per questo motivo che le forze armate del nostro Paese fecero ricorso a tattiche barbariche per poi su di esse mentire al popolo degli Stati Uniti d’America.
Stando quindi alla terza delle tesi di cui si sostanzia la vulgata canonica, quella lotta perdente nelle fetide giungle del Vietnam distrusse il morale e la disciplina delle truppe statunitensi; questo sfacelo fece dilagare l’abuso delle droghe, causò l’assassinio di quegli ufficiali che risultavano impopolari, provocò atrocità come il massacro di Mi Lai (17) e creò una generazione di veterani profondamente segnati nel fisico e nella psiche.
Infine, stando alla quarta tesi della Sinistra, l’insuccesso registrato in quell’occasione dagli Stati Uniti d’America ha anche comportato qualche effetto positivo, come per esempio la riunificazione del Vietnam; e se pure la conquista del Vietnam del Sud e della Cambogia da parte comunista è stata seguita da atrocità, va anzitutto considerato come esse siano state innescate dall’intromissione degli Stati Uniti d’America in questioni che non li riguardavano affatto.
I “fondamentalisti del Vietnam” della Sinistra hanno però un problema serio, dal momento che il lavoro prezioso svolto dagli storici negli ultimi dieci anni, grazie a fonti documentali originali provenienti da personale sia ex vietcong sia nordvietnamita, suggerisce che ognuna delle quattro tesi da essi elaborata a proposito di quella guerra è sbagliata.
Del lavoro di questi storici sono interessanti i dettagli, giacché tendono tristemente a concludere che nel Sudest asiatico gli Stati Uniti d’America abbiano strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria; ma, comunque si valutino quelle conclusioni, resta davvero inequivocabile l’effetto che la versione canonica sulla Guerra del Vietnam continua a esercitare sulla politica di oggi.
La politica interna seguita negli anni 1960 dagli Stati Uniti d’America contro la guerra fu un’espressione contingente di quanto potrebbe essere chiamato, stando alle mode esistenzialiste dell’epoca, “politica dell’autenticità”. Nella “politica dell’autenticità”, ciò che conta è la nobiltà dei miei sentimenti; ciò che non conta è l’evidenza e quanto non è obbligatorio è l’esame di coscienza alla luce dell’evidenza.
La “politica dell’autenticità” ci conduce, mediante un breve tratto di strada, alla morale pubblica dei sentimenti, impermeabile ai dati di fatto e indifferente alla valutazione morale delle conseguenze possibili. Oppure, per dirla con Max Weber [Maximilian Carl Emil Weber (1864-1920)], nella discussione avvenuta negli Stati Uniti d’America in merito alla questione della Guerra del Vietnam, la morale delle intenzioni ha prevalso sulla morale della responsabilità.
L’irresponsabilità che ha infatti caratterizzato le risposte fornite dalle Amministrazioni guidate dai presidenti [James Earl “Jimmy” jr.] Carter e [William Jefferson “Bill”] Clinton alla minaccia dello jihadismo globale — un’impotenza profondamente influenzata dalla vulgata canonica sulla Guerra del Vietnam — ne è un risultato ovvio.
Questa irresponsabilità nel nome d’intenzioni e di sensibilità morali apparentemente superiori è peraltro peggiorata negli ultimi anni, spinta a estremi finora inimmaginabili dall’impatto psicologico distorcente di quanto, a far data dal 12 dicembre 2000, la Sinistra statunitense ha considerato una presidenza illegittima.
La prematura proclamazione della sconfitta in Iraq operata da Reid — una sconfitta di cui il leader della maggioranza Democratica al Congresso è sembrato pregustare l’impatto — è difficile da spiegare se prima non si comprende questo fatto. Per Reid e per chi la pensa come lui, l’avere Bush suggerito l’idea che un ritiro precipitoso degli Stati Uniti d’America dall’Iraq avrebbe condotto a bagni di sangue simili a quelli avvenuti nel dopoguerra in Vietnam e in Cambogia è una bestemmia pronunciata da un eretico e da un usurpatore politico contro la versione canonica del “Vietnam statunitense” e contro la rivelazione in essa contenuta circa i pericoli insiti nell’hybris americana.
L’Offensiva del Têt (18) nel gennaio del 1968 ha segnato il momento in cui la versione canonica liberal del “Vietnam statunitense”, che già stava influenzando l’informazione giornalistica, ha cominciato a esercitare un impatto notevole sulla politica del Paese. Il presidente Lyndon Johnson, prendendo sul serio la disinformazione prodotta da Walter [Leland] Cronkite [jr., giornalista] a proposito dell’Offensiva del Têt, si scoraggiò; gran parte del Partito Democratico prese le distanze da quella guerra che era stata iniziata da John F. Kennedy; e l’opinione pubblica, plasmata da quelli che ora appaiono essere stati alcuni dei peggiori reportage dell’era della televisione, si rivoltò risolutamente contro la guerra.
Oggi nessuno storico serio considera l’Offensiva del Têt se non una colossale sconfitta militare subita dal Vietnam del Nord e la fine del fenomeno Vietcong come un evento di capitale importanza per il futuro del Vietnam. Ma quando David Halberstam [giornalista (1934-2007)] — che, con [Cornelkius Mahoney] “Neil” Sheehan [giornalista], ha fatto più di chiunque altro per dare vita alla vulgata canonica sulla Guerra del Vietnam — è morto tragicamente in un incidente automobilistico nel 2007, non uno dei necrologi che ho letto ha suggerito l’idea che egli si sia tremendamente sbagliato a proposito dell’Offensiva del Têt o che la sua caparbietà nell’errore abbia contribuito a creare una situazione politica che ha avuto conseguenze letali per milioni di persone.
Il punto in questione qui non sono gli attacchi scatenati dai media. Il punto è che la vulgata canonica sulla Guerra del Vietnam continua a distorcere la visione del mondo propria a molti di quanti rivestono incarichi di responsabilità nella sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America.
Il senatore Barack [Hussein] Obama II potrebbe, per ragioni politiche perfettamente comprensibili, volere spingersi oltre gli anni 1960. Ma ecco una domanda per Obama o per chiunque altro pensi di assumersi il meraviglioso fardello e la meravigliosa responsabilità della presidenza degli Stati Uniti d’America in questo preciso momento storico: con chi state sulla “questione Vietnam” e sulla relazione che essa ha con le responsabilità globali che gli Stati Uniti d’America hanno oggi? State con i fondamentalisti, impermeabili all’evidenza? Oppure sarà il nuovo approccio alla comprensione della Guerra degli Stati Uniti d’America in Vietnam — un approccio basato sull’evidenza dei fatti e di taglio storico-critico — a modellare il vostro pensiero circa le responsabilità che spettano agli Stati Uniti d’America nel mondo del secolo XXI?
Il quarto momento: la Commissione Kerner del 1968
Gli Anni 1960 sono cominciati con il movimento statunitense per i diritti civili al culmine della sua fase classica e sono finiti con i leader dell’attivismo classico per i diritti civili morti o emarginati. Nel mezzo, il movimento per la riconciliazione nazionale in una società non razzista è stato espropriato dagli estremisti che predicano un vangelo di vittimizzazione e che identificavano le lotte dei neri nordamericani con le teorie rivoluzionarie d’ideologi terzomondisti quali Frantz Fanon [1925-1961].
Ciò accadde in un periodo di tempo sorprendentemente breve. Quando firmò il Civil Rights Act [“Legge per i diritti civili”], nel 1964, Johnson condivise la penna presidenziale con Martin Luther King jr. [1929-1968] e con Roy Wilkins [attivista (1901-1981)]; ma, nel giro di pochi anni, King era morto, uomini come Wilkins erano stati accusati dai nuovi militanti neri di essere degli oreo (19) e la cultura della vittimizzazione aveva oramai intriso i centri urbani del Paese scendendo su di essi come una fitta coltre di nebbia. Il sogno, di King, di una nazione finalmente giunta in vetta alla montagna della giustizia era stato sostituito da slogan tipo “Burn, baby, burn!”, “Brucia, piccolo/piccola, brucia”.
L’idea delle pari opportunità era passé; le quote razziali vennero mascherate dall’eufemismo dell’affirmative action (20); e la legittima richiesta di King affinché i suoi figli venissero giudicati per il carattere piuttosto che per il colore della loro pelle fu capovolta da truffatori e da artisti improvvisati, un’inversione, questa, poi confermata dall’attivismo giudiziario. Il risultato fu l’estraniazione della maggioranza della popolazione e lo sprofondare dei centri urbani in un miasma fatto di famiglie distrutte, promiscuità, crimine, abuso di droghe e povertà.
Si può certamente discutere del come e del perché una delle parti in gioco nel dramma razziale statunitense sia finita così, ma il fatto che ciò sia avvenuto continua a informare la politica americana dei primi anni del secolo XXI. Forse il momento cruciale è stato il Rapporto della Commissione Kerner del 1968, più formalmente conosciuto come Rapporto della National Advisory Commission on Civil Disorders, la Commissione Consultiva Nazionale sui Disordini Civili, creata dal presidente Johnson per stabilire quali fossero state le cause delle rivolte razziali divampate nel Paese nell’estate del 1967.
Dal 1967 gli Stati Uniti d’America si erano oramai confrontati con il peccato originale della propria fondazione e stavano compiendo progressi enormi nella costruzione di quello che oggi è il più ugualitario dal punto di vista razziale fra i grandi Paesi del pianeta. La segregazione nelle istituzioni pubbliche era stata dichiarata incostituzionale e quella delle strutture pubbliche dichiarata fuorilegge.
La tassa pro capite richiesta per poter votare nelle elezioni federali era stata bandita dal XXIV Emendamento alla Costituzione, i cittadini statunitensi di ascendenza africana erano stati rapidamente affrancati e, come ha dimostrato la Convention Nazionale del Partito Democratico, la comunità nera aveva iniziato a svolgere un ruolo significativo nella politica nazionale.
Che tutto questo venisse realizzato da un movimento dai fondamenti religiosi votato alla riforma morale e giuridica del Paese, in cui neri e bianchi operavano, marciavano e versavano sangue assieme, offrì la possibilità di ulteriori progressi nell’affermazione dell’uguaglianza razziale davanti alla legge, nella creazione di pari opportunità economiche e nel rafforzamento della cultura della responsabilità in tutta la società statunitense.
La Commissione Kerner parve però sorda a molte di quelle dinamiche positive, proponendo invece un’analisi in cui la “frustrazione” nera e il “razzismo” bianco erano le due forze modellatrici della vita urbana nazionale. L’America Nera era una vittima, e una vittima non poteva essere ritenuta moralmente responsabile perché si scagliava contro la propria vittimizzazione.
Secondo l’analisi proposta dalla Commissione Kerner, gli Stati Uniti d’America bianchi e razzisti erano stati analogamente privati di risorse morali, così che era il governo, piuttosto che le istituzioni della società civile così centrali nel movimento classico dei diritti civili, a dover diventare il principale agente del cambiamento sociale onde affrontare la crisi di un’America “che si stava muovendo verso due società […] separate e ingiuste”.
Mentre la Commissione Kerner riscriveva la vulgata nazionale della questione dei diritti civili sul copione della vittimizzazione razziale e dell’irresponsabilità irrefrenabile — cioè esattamente ciò contro cui King, Wilkins e altri della loro generazione avevano combattuto — il senso di tutto questo stava per essere superato dalla violenta controversia avvenuta nel 1968 a proposito del controllo locale sulle nomine dei docenti delle scuole pubbliche nel quartiere di Ocean Hill-Brownsville di Brooklyn.
Quando le cose si calmarono, le scuole del centro di Brooklyn si trovarono in una condizione notevolmente peggiore, i liberal bianchi si erano abituati a trovare scuse per le violenze commesse dai neri e le vecchie alleanze fra il movimento per i diritti civili da una parte e il movimento dei lavoratori nonché le organizzazioni degli ebrei statunitensi dall’altra erano state sottoposte a prove dure. Albert Shaker [1928-1997] e l’American Federation of Teachers, [Federazione Statunitense degl’Insegnanti], potevano anche aver vinto alcune delle battaglie combattute a Brooklyn, ma persero la guerra maggiore, giacché il progressismo statunitense, obbligato a scegliere fra mantenere la propria enfasi classica su una società indifferente alle differenze razziali e tenere il passo del nuovo attivismo militante nero, finì per scegliere la seconda ipotesi.
Quanto all’alleanza fra ebrei e neri, con il tempo si frantumò anche quella fino ad arrivare al punto in cui Jesse [Louis] Jackson [attivista per i diritti civili] poté riferirsi a New York definendola “Hymietown”, vale a dire “Città degli Ebrei” (21), e rimanere ancora sia membro attivo della politica Democratica sia una figura temuta dai consigli di amministrazione intimiditi dai ricatti razziali.
L’emergere di ciò che lo storico della presidenza statunitense Steven [F.] Hayward ha definito una “terapeutica cultura del vittimismo”, la quale avrebbe esercitato un impatto profondo sulla politica statunitense, è cominciato con il crollo del movimento classico per il diritti civili alla metà degli Anni 1960: il che vuol dire nel momento del suo massimo trionfo.
Il movimento classico per i diritti civili era deciso a rimodellare il Paese attraverso la ragione etica; a esso, distorto in una sghemba parodia di sé stesso dalla cultura del vittimismo, fece seguito un moralismo vergognosamente distaccato dalla ragione che si sarebbe dimostrato incapace di mobilitare chicchessia, bianco o nero che fosse, alla grande causa di una giustizia uguale per tutti.
Come al solito, a pagare il prezzo più alto furono i meno dotati di risorse utili a opporsi allo sfacelo della ragione etica e della cultura della responsabilità in interi quartieri: il sottoproletariato. Ma fra quanti invece abbondavano di risorse per indulgere nell’irresponsabilità, la nuova cultura della vittimizzazione dei tardi Anni 1960 avrebbe alla fine messo in moto due tendenze della vita pubblica statunitense che sono ben presenti oggi, nel 2008: il movimento gay — che è riuscito, anche se del tutto arbitrariamente, a identificarsi con l’America nera precedente l’era dei diritti civili — e l’attivismo delle celebrità della Sinistra, che sarebbero finite a fornire copertura politica a tipi come Saddam Hussein [1937-2006] e Hugo [Rafael Chávez] Frías.
Il quinto momento: la pubblicazione de La città secolare nel 1965
All’inizio degli anni 1960, il Consiglio Nazionale delle Chiese, personificazione ecumenica del protestantesimo mainline, ovvero maggioritario, viveva sicuro nel pantheon delle più influenti istituzioni degli Stati Uniti d’America tanto quanto l’American Medical Association, l’Ordine dei medici statunitensi, e l’American Bar Association, l’Ordine degli avvocati.
Trent’anni dopo, per citare la ben nota formula di Richard John Neuhaus, la mainline, la linea maggioritaria, era divenuta la oldline, la linea vecchia, ed era sulla buona strada per finire sideline, a bordo campo.
Raggiunta ora quella posizione non invidiabile, il Consiglio Nazionale delle Chiese ha dovuto ridursi a prendere in affitto solo qualcuno degli uffici del civico 475 di Riverside Drive a New York, la famosa “casella postale di Dio”, che un tempo aveva invece riempito completamente. Dato che il protestantesimo mainline aveva cessato di essere una forza culturale determinante nella vita pubblica degli Stati Uniti d’America, il vuoto è stato riempito da una nuova presenza pubblica cattolica e, forse influente soprattutto sul piano elettorale, dall’attivismo emergente del protestantesimo evangelicale, fondamentalista e pentecostale in quella che sarebbe stata poi conosciuta come Destra Religiosa, un movimento che per più di un quarto di secolo ha formato una parte decisiva della coalizione repubblicana di governo.
Il momento decisivo di questo spostamento tettonico nell’interfacciarsi della religione degli Stati Uniti d’America con la vita pubblica del Paese avvenne negli Anni 1960, quando la mainline implose, tanto sul piano teologico quanto su quello politico.
Il lato politico della storia è noto. Quanto era cominciato come il sostegno del protestantesimo mainline al movimento classico per i diritti civili si trasformò rapidamente nel sostegno del protestantesimo liberal all’attivismo militante nero, alle forme più dure della protesta contro la Guerra del Vietnam, agli elementi più estremi del movimento femminista nonché del movimento ambientalista, antinuclearista e propenso ad analoghe agitazioni sociali, quindi, da ultimo, al movimento di liberazione dei gay.
Tutto ciò va considerato una tristezza, poiché è stato il protestantesimo mainline a dare fondamento morale e culturale all’esperimento democratico statunitense, dal periodo coloniale fino alla Seconda Guerra Mondiale [1939-1945].
Il lato teologico del libro mastro è stato impersonato dal best-seller pubblicato nel 1965 da Harvey Cox, La città secolare (22), che argomentava in favore di un cristianesimo radicalmente secolarizzato in cui è il mondo a stabilire l’agenda delle priorità della Chiesa. Il libro di Cox non ha resistito molto bene al tempo; oggi quasi nessuno lo legge, salvo che come testimonianza storica.
A suo tempo, però, La città secolare tirò in ballo quasi tutte quelle tematiche principali che, mentre portavano il protestantesimo mainline alla marginalità religiosa, nondimeno esercitarono un’influenza innegabile sulla politica degli Anni 1960, così come del resto su quella attuale.
L’adorazione del nuovo; la passione per la retorica rivoluzionaria; il male interpretato con categorie terapeutiche; il culto concepito come realizzazione personale; la celebrazione dell’azione separata dalla contemplazione o comunque dalla seria riflessione intellettuale; la noncuranza verso la tradizione; il moralismo al posto del ragionamento morale; l’identificazione dei tentativi compiuti dall’uomo con l’apparire improvviso del Regno di Dio: qualsiasi fossero le intenzioni di Cox, sono queste le cose che la gente ha imparato da La città secolare e dalle sue più svariate filiazioni nel mondo del pensiero religioso liberal statunitense.
Quando la dichiarazione di Hartford, An Appeal for Theological Affirmation (23), cercò di ristabilire l’equilibrio nel 1975, il danno era oramai già stato fatto. La città secolare contribuì ad accelerare la secolarizzazione della cultura dell’élite statunitense, la quale creò non solo nuove opportunità di presenza pubblica per organismi religiosi più tradizionali ma anche nuove linee politiche sbagliate, che sono tanto visibili quanto lo sono i titoli dei giornali del mattino e dei loro editoriali.
Il sesto momento: la nascita dell’ambientalismo nel 1969
Che gli uomini non possano vivere senza punti di riferimento trascendenti di natura morale e spirituale è ben illustrato dal fatto che, mentre il protestantesimo mainline liberal stava crollando, quelli che in precedenza erano probabilmente stati alcuni fra i suoi aderenti più convinti trovarono un nuovo dio: la Terra.
A mio avviso, la trasformazione di quel movimento di difesa ambientale, dai tratti piuttosto sensibili e ammirevoli, che un tempo esisteva negli Stati Uniti d’America in un nuovo “ismo” — l’ambientalismo — si comprende meglio se lo s’inquadra come una questione di desiderio religioso disorientato.
Avendo trovato il Dio del protestantesimo liberal non plausibile o comunque noioso, le élite progressiste statunitensi hanno scoperto una nuova divinità, il cui culto ha implicato una drastica trasformazione di quasi tutti i settori della vita nazionale da parte dello strumento di salvezza preferito del nuovo progressismo: lo Stato.
Ispirato in parte da best-seller come quello pubblicato da Rachel Carson [1907-1964] nel 1962, Silent Spring (24), la difesa dell’ambiente divenuta ambientalismo si è evoluta negli Anni 1960 in un movimento fortemente critico nei confronti della tecnologia e dell’impatto che essa ha sull’ecologia globale nonché profondamente scettico verso i mercati economici; l’ambientalismo, inoltre, si è incrociato politicamente con il movimento pacifista.
Ciò è quantomeno strano, dal momento che è stato un artefatto prodotto dal tanto deplorato complesso militare-industriale — le fotografie del pianeta Terra scattate dagli astronauti della missione Apollo 8 durante la circumnavigazione della Luna del Natale 1968 — a fornire al nuovo ambientalismo l’icona di riferimento e qualcosa del potere emozionale che esso esercita.
Nonostante quell’ironia, l’attivista pacifista John McConnell, avendo visto le foto scattate da Frank [Frederick] Borman II, da [James Arthur] “Jim” Lovell jr. e da [William Alison] “Bill” Anders dai finestrini del modulo di comando dell’Apollo 8, creò da una di esse la “bandiera del Giorno della Terra” e nel 1969 propose a una conferenza dell’UNESCO [Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura] che si teneva a San Francisco una festa globale per celebrare la Terra.
E così giunse la proclamazione dell’Earth Day, il Giorno della Terra, sottoscritta da U Thant [1909-1974], da Margaret Mead [antropologa (1901-1978)] e da altri, così com’è giunta ora l’annuale celebrazione dell’Earth Day.
Il nuovo ambientalismo è stato del resto popolato da molti degli stessi attivisti che si erano adoperati per la creazione del movimento contro la Guerra degli Stati Uniti d’America in Vietnam e, nei decenni successivi, ha manifestato caratteristiche simili al fondamentalismo o al fideismo di quanti si sono tenuti stretto il disastro prodotto dalla vulgata convenzionale dell’America-in-Vietnam.
Fra quelle caratteristiche, oltre a un certo atteggiamento apocalittico, vi è anche la cecità verso i dati che ne confutano le pretese e le evidenze scientifiche. Come lo statistico danese Bjørn Lomborg ha mostrato studio dopo studio, l’aspettativa di vita sta aumentando su scala globale, Terzo Mondo incluso; l’acqua e l’aria nel mondo sviluppato sono più pulite di cinquecento anni fa; le paure che i prodotti chimici avvelenino la Terra sono completamente esagerate; oggi nel mondo sia l’energia sia il cibo sono più convenienti e più abbondanti che mai prima; la “sovrappopolazione” è un mito e il quadro globale è, in realtà, quello di una prosperità umana senza precedenti.
Ma riconoscere tutto questo significherebbe mettere in discussione la rivelazione concessa a un altro degli alleati ideologici del nuovo ambientalismo, il movimento per il controllo demografico: ovvero che gli uomini sono un agente inquinante; un’idea pericolosa nata dall’antico e progressista movimento eugenista e portata a maturazione popolare negli Anni 1960 da propagandisti palesi come Paul Ehrlich, la quale continua ancora oggi a influenzare la politica statunitense per gli aiuti all’estero. Ora, come sempre, venerare dèi falsi porta a praticare una politica cattiva.
Un decennio ancora abbondantemente vivo
Presi assieme, questi sei momenti suggeriscono l’idea che durante gli Anni 1960 alla politica liberal sia capitato qualcosa gravido di conseguenze permanenti e lo stesso sia successo alla cultura politica statunitense. La politica della ragionevolezza ha ceduto il passo alla politica dell’emozione e ha amoreggiato con la politica dell’irrazionalità; le pretese della ragione etica sono state sostituite dal moralismo; l’idea che tutti gli uomini e le donne siano chiamati a vivere esistenze responsabili è stata sostituita dall’idea che alcune persone siano nate vittime; e la convinzione democratica è stata sostituita dall’attivismo giudiziario.
Ognuna di queste conseguenze è ancora oggi in gran parte viva; e quanto di esse si pensa definisce il substrato della politica del 2008, il canovaccio, la questione di fondo.
Il fatto che questo percorso abbia resistito alla vittoria della democrazia e dell’economia libera nella Rivoluzione del 1989 e al collasso dell’impero sovietico ci dice qualcosa d’importante circa il dopo 1968. Cominciando dalla fine degli Anni 1960, il liberalismo statunitense ha seguito le orme della Sinistra globale e ha sostituito le sue precedenti preoccupazioni riguardanti l’economia e la politica della partecipazione con le questioni sociali e uno stile di vita libertino.
Il liberalismo statunitense, così come la sua controparte europea, ha quindi adottato la strategia elaborata del teorico marxista italiano Antonio Gramsci [1891-1937] e ha intrapreso una lunga marcia dentro le istituzioni, dapprima le università, i mezzi di comunicazione, le iniziative filantropiche e le comunità religiose; oggi persino gl’istituti del matrimonio e della famiglia. Che questo abbia avuto impatto profondo sulla nostra politica è ovvio: la guerra culturale statunitense, che è uno dei principali canovacci dell’intera questione, dà quotidianamente forma al dibattito pubblico su questioni di politica sia interna sia estera.
Il fatto che il liberalismo razionalista, orientato al risultato, pragmatico di John F. Kennedy si sia trasformato prima nella Nuova Sinistra poi nella forma statunitense del progressismo postmoderno ha messo l’Io imperiale autonomo al centro di uno dei poli della vita pubblica del Paese e lì esso ha sradicato l’idea che la costruzione di una società libera e virtuosa sia l’obiettivo della democrazia statunitense. Tutto questo stimola peraltro le domande più profonde e più urgenti sull’avvenire.
Può una cultura condivisa, che deve sostenere le istituzioni tipiche del governo responsabile, essere costituita da una congerie di io autonomi? Può una politica separata dalla ragione etica dare le ragioni del perché nelle questioni pubbliche la tolleranza, la cortesia e la persuasione siano superiori alla coercizione?
Cosa può dire la politica dell’autonomia — che è il distillato della politica degli Anni 1960 — di fronte alle minacce esistenziali con cui dovranno confrontarsi il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America e il prossimo Congresso: la minaccia dello jihadismo — che ha un’idea assai chiara e assai diversa dalla nostra di cosa sia una società buona — e la minaccia di uno scivolamento lento, per via biotecnologica, nell’umanità rattrappita voluta dal presuntuoso mondo nuovo?
La libertà è forse autonomia, e la caparbietà è una libertà per cui vale la pena sacrificarsi? Oppure sarà solo il riappropriarsi di un concetto di libertà intesa come perseguimento dell’eccellenza — la libertà legata alla verità morale e disposta alla virtù — a guidarci attraverso le instabilità politiche e culturali di questo inizio di secolo XXI?
Gli Anni 1960 sono in verità ancora abbondantemente vivi fra noi, sia nel bene che nel male. Non dovremmo infatti dimenticare quella parte degli Anni 1960 che chiamò gli americani a vivere nobilmente per la difesa e per la promozione della libertà, correttamente compresa. Ma la grande questione che ci si pone innanzi oggi — il canovaccio del 2008 — è vedere se l’eredità ammirevole degli Anni 1960 trionferà sui residui meno felici di quel decennio turbolento.
Note:
(1) Nicolas Paul Stéphane Sarkozy de Nagy-Bocsa, Discorso pronunciato il 29 aprile 2007 al Palais Omnisports di Parigi-Bercy, durante la campagna elettorale per il secondo turno delle elezioni presidenziali di Francia, , visitato il 24-10-2008.
(2) Cfr. James Piereson, Camelot and the Cultural Revolution: How the Assassination of John F. Kennedy Shattered American Liberalism, Encounter Books, New York 2007. James Piereson è Senior Fellow e direttore del Center for the American University del Manhattan Institute, nonché presidente della William E. Simon Foundation, entrambi di New York.
(3) Cit. ibid., p. 59.
(4) Ibidem. La vedova Kennedy si espresse così parlando con la madre, Janet Norton Lee Bouvier Auchincloss Morris (1907-1989), la sera stessa dell’omicidio, il 22 novembre 1963. La fonte è l’opera dello storico e biografo statunitense William Raymond Manchester (1922-2004), The Death of a President, November 20-November 25, 1963, Harper & Row, New York 1967, p. 407 (trad. it., Morte di un presidente, 20-25 novembre 1963, Mondadori, Milano 1967, p. 547).
(5) Il paroliere e librettista statunitense Alan Jay Lerner, autore di numerosi musical teatrali di grande successo assieme al compositore di origine austriaca Frederick Loewe (1901-1988), scrisse nel 1960 la pièce intitolata Camelot, basandosi sul popolare romanzo The Once and Future King, pubblicato nel 1958 dallo scrittore statunitense Terence Hanbury White (1906-1964), a cui peraltro s’ispira anche il lungometraggio a cartoni animati La spada nella roccia (The Sword in the Stone), regia di Wolfgang Reitherman (1909-1985), prodotto dalla Walt Disney nel 1963. Camelot ebbe un grande successo e, dopo l’assassinio di Kennedy — di cui Lerner era stato compagno di classe all’Università Harvard di Cambridge, nello Stato nordamericano del Massachusetts —, venne pubblicizzato come uno degli spettacoli preferiti dal defunto presidente e dalla sua famiglia alla Casa Bianca, in particolare la scena in cui re Artù crea cavaliere un giovanetto domandandogli di tramandare il racconto del “reame beato” di Camelot alle future generazioni con queste parole: “Do’t let it be forgot / That once there was a spot, / For one brief, shining moment / That was known as Camelot”, “Non venga dimenticato / che un dì un luogo vi è stato, / durato un breve momento di splendore, / che era noto come Camelot”. Da allora l’immaginario popolare statunitense associa il musical di Loewe e di Lerner, ma soprattutto il “mito” di Camelot, all’amministrazione Kennedy.
(6) Il 17 aprile 1961, esuli cubani negli Stati Uniti d’America cercano, senza successo, di sbarcare nella Bahía de Cochinos, appunto la Baia dei Porci, una stretta insenatura nella parte centrale dell’isola caraibica, con lo scopo di rovesciare militarmente il governo comunista de L’Avana.
(7) Cfr. The Port Huron Statement, Students for a Democratic Society, New York 1962 (n. ed. corretta, 1964). Il documento fu scritto principalmente da Thomas Emmet Hayden, attivista progressista e poi no global, all’epoca Field Secretary dell’SDS. Ex marito dell’attrice filocomunista Jane Fonda, femminista e simbolo della “liberazione sessuale” degli Anni 1960, è stato deputato al Congresso dello Stato della California dal 1982 al 1992, quindi senatore al Congresso della California dal 1992 al 2000. Il testo disponibile anche su Internet: cfr. http://www.vlib.us/amdocs/texts/porthuron.html (visitato il 24-10-2008) e, in una versione meno completa ma più “autorevole”, pubblicata sul sito ufficiale del senatore Hayden, http://www.tomhayden.com/porthuron.htm >, visitato il 24-10-2008). Cfr. anche Thomas “Tom” Emmet Hayden, The Port Huron Statement: The Visionary Call of the 1960s Revolution, Thunder’s Mouth Press, Emeryville (California) 2005.
(8) Lionel Trilling, The Liberal Imagination: Essays on Literature and Society, Doubleday, Garden City (New York) 1950, Preface, p. VII.
(9) John Fitzgerald Kennedy, Inaugural Address, Friday, January 20, 1961, in Inaugural Addresses of the Presidents of the United States, vol. 2, Grover Cleveland (1885) to George W. Bush (2005), ed. riveduta e accresciuta, Applewood Books, Bedford (Massachusetts), s.d. (ma 2005), p. 125.
(10) Cfr. William Orville Douglas, parere di maggioranza nella sentenza del caso Griswold v. Buxton, Washington, 7-6-1965, in http://www.law.cornell.edu/supct/html/historics/USSC_CR_0381_0479_ZO.html , visitato il 24-10-2008.
(11) Ibidem.
(12) Potter Stewart, parere di dissenso nella sentenza del caso Griswold v. Buxton, Washington, 7-6-1965, in http://www.law.cornell.edu/supct/html/historics/USSCCR 03810479_ZD1.html, visitato il 24-10-2008.
(13) Martin Edward Whelan III, This Week in Liberal Judicial Activism-Week of March 19 [rubrica di effemeridi che documenta l’attivismo progressista dell’apparato giudiziario statunitense], Mar. 22 1972, in Bench Memos [blog], in National Review Online, New York 19 marzo 2007, http://bench.nationalreview.com/post/?q=ZGYwYzhiNWQ4ZjYzMTA3YjI1ZDExNDkzNzIyZGEwNDU=, visitato il 24-10-2008. Martin Edward Whelan III è presidente dell’Ethics and Public Policy Center di Washington.
(14) Byron Raymond White, parere di dissenso nella sentenza del caso Doe v. Bolton, Washington, 22-1-1973, , visitato il 24-10-2008.
(15) Anthony McLeod, parere di maggioranza nella sentenza del caso Lawrence v. Texas, Washington, 26-6-2003, , visitato il 24-10-2008.
(16) Hadley P. Arkes, di religione ebraica, professore di Giurisprudenza e Istituzioni degli Stati Uniti d’America nella cattedra intitolata all’ambasciatore cattolico statunitense Edward Noonan Ney dell’Amherst College nello Stato nordamericano del Massachusetts, è considerato oggi uno dei principali intellettuali pro-life e conservatori degli Stati Uniti d’America.
(17) Il “massacro di Mi Lai”, nella frazione di Son Tinh, nella provincia di Quang Ngai, a nord di Saigon, capitale dell’allora Vietnam del Sud, fu compiuto il 16 marzo 1968 da una compagnia della 23a Divisione di fanteria dell’esercito degli Stati Uniti d’America — nota come Americal Division —, che agli ordini del secondo tenente William Laws “Rusty” Calley jr., uccisero alcune centinaia di civili vietnamiti per rappresaglia nei confronti della popolazione locale alla quale, durante un precedente scontro a fuoco, si erano mescolate le truppe dei vietcong, guerriglieri comunisti del Fronte Nazionale per la Liberazione del Vietnam. Il massacro venne fermato dall’equipaggio di un elicottero dell’esercito statunitense in ricognizione nella zona, che atterrò frapponendosi fra i soldati nordamericani e i civili vietnamiti.
(18) L’Offensiva del Têt fu condotta a sorpresa dall’esercito del Vietnam del Nord comunista e dai vietcong contro le truppe statunitensi, l’esercito sudvietnamita e i loro alleati nella notte del capodanno vietnamita, fra il 30 e il 31 gennaio 1968. Nonostante i successi iniziali, l’offensiva fu un fallimento giacché non riuscì a sfondare in alcun punto le linee statunitensi, anche se sui mass media ebbe un impatto tanto clamoroso quanto infondato.
(19) Gli oreo sono dei popolari biscotti-sandwich composti da due cialde al cioccolato, nere