Gli anni del desiderio e del piombo

sessantottoIl Timone n.69 gennaio 2008

Una rivoluzione culturale. Un esito nichilistico. Una generazioni “ferita” e una speranza ritrovata nelle radici cristiane del popolo italiano. Il significato più profondo del Sessantotto

di Enzo Peserico

Una Rivoluzione culturale.

«Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita»: è l’epitaffio – una frase di Paul Nizan – che Marco Riva, ventunenne redattore del Quotidiano dei lavoratori, chiede per sé nella lettera scritta ai familiari prima di suicidarsi all’interno della propria auto, l’8 gennaio 1971.

Il tragico gesto di Marco Riva si sarebbe drammaticamente riprodotto e diffuso negli anni seguenti, insieme al crescere esponenziale dei morti per eroina: ma, nel 1971, rappresentava in Italia una funesta anticipazione della drammatica conclusione dell’utopia perseguita da una generazione, simbolicamente datata 1977.

Gli storici che più attentamente hanno analizzato il fenomeno del Sessantotto in Occidente lo hanno definito una Rivoluzione culturale, che inizia nella seconda metà degli anni 1950 del XX secolo, ha nel 1968 la sua esplosione e si stabilizza negli anni seguenti, consolidando un rapido cambiamento nei valori di riferimento, nei modi di vivere e quindi nelle leggi.

Rivoluzione inferiore e rivoluzione politica

Osservando il corso della contestazione giovanile in Italia, come si articola lungo un decennio caratterizzato dall’uso sempre più radicale della violenza, si constatano due tendenze di fondo. La prima tendenza si esprime nella rivoluzione in interiore homine, come mostra il volto della Rivoluzione a livello microsociale; il tipo antropologico che l’incarna è il rivoluzionario d’elezione: «la mia vita come rivoluzione»; egli opera la Rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano e portando alle estreme conseguenze lo slogan «il personale è politico».

La seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto della Rivoluzione a livello macrosociale; il tipo antropologico che l’incarna è il rivoluzionario di professione: «la mia vita per la Rivoluzione»; egli realizza il suo progetto attraverso due linee: la lotta politica (anche) violenta e la lotta politica armata, cioè il terrorismo.

La tendenza che si manifesta nella ribellione politica ha assunto in Italia un ruolo preponderante. Il momento è favorevole: il desiderio di costruire il mondo nuovo e perfetto, liberato dalla ingiustizia e dalle disuguaglianze, trova nella teoria rivoluzionaria di Marx e di Lenin sia il modello utopico del futuro che la “tecnica”, cioè l’azione politica, per costruirlo infallibilmente. L’ideologia si arricchisce nel contempo di miti che, sapientemente propagandati, rafforzano la “fede” nella vittoria della Rivoluzione: la Resistenza, i vietcong, la guerriglia del “Che” Guevara e di Carlos Marighella, la Cina di Mao.

In questo clima culturale nasce e si moltiplica il “rivoluzionario di professione”: nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli di rivoluzionari. Si tratta di un dinamismo artificiale, perché produce esso stesso le affermazioni inverificabili e gli slogan che muovono all’azione gli attivisti; così lo descrive Marco Barbone, ex terrorista pentito, in una intervista-confessione raccolta da Avvenire. «[…] noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l’orizzonte dell’esistenza».

Identificando etica e politica, il “rivoluzionario di professione” ha l’obbligo morale di fare trionfare i postulati dell’ideologia con qualsiasi mezzo. La mitologia della Resistenza fornisce gli esempi dell’«antifascismo militante» e così, tra la teorizzazione dell’annientamento fisico dell’avversario, l’atto di violenza e, in seguito, l’azione terroristica, non vi è soluzione di continuità: l’ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale.

Il 1977

Intanto gli anni passano e lo slancio utopico dei primi fermenti della contestazione svanisce. La primavera del 1977 vede un’improvvisa fiammata contestatrice, con raduni e scontri violenti di piazza, e sancisce contemporaneamente l’agonia del movimento del Sessantotto, che cede definitivamente la parola alle armi. Ma il rivoluzionario di professione del 1977 ha mutato aspetto: l’utopia della Rivoluzione culturale, cioè il mito dell’uomo nuovo, è sempre più intrisa di disperazione. I morti per droga e i suicidi sono all’ordine del giorno.

I miti del marxismo stanno per crollare, anche se pochi sembrano accorgersene, sotto le evidenze del «socialismo reale». L’ansia messianica si regge ormai quasi esclusivamente sul polo negativo, cioè sulla distruzione del sistema malvagio, e il mezzo utilizzabile allo scopo sembra essere soltanto uno, cioè la violenza armata.

Il suicidio del Sessantotto

Si può fare un bilancio del 1968 nel 2008?

Sotto il profilo politico, la classe dirigente che ha militato nei movimenti messianico-rivoluzionari nati con il 1968 si è installata al potere – culturale, politico e mediatico – fondando il proprio programma politico-culturale su una forma aggressiva di relativismo e dì laicismo. Incapace di uscire dalle categorie dialettiche della modernità, progresso contro reazione, opposte a quelle ritenute per sempre superate, in quanto “metafisiche”, vero e falso, giusto e ingiusto, questa casta padrona ha tenuto sul proprio naso gli occhiali ideologici anche dopo aver smesso di credere alle ideologie di cui si era nutrita.

Ne è derivato un esercizio del potere che si spogliava di una ideologia frantumata dalla storia e indossava l’abito relativista e laicista, da “partito radicale di massa”: così, dello slogan del Maggio francese, l’immaginazione al potere, i Sessantottini si sono impadroniti di un potere senza immaginazione, funzionale all’appiattimento tecnocratico del vecchio illuminismo antispirituale. Mentre la rivoluzione politica si trasformava con le Brigate Rosse in progetto insurrezionale, che viene sconfitto nel 1978 quando con l’omicidio di Aldo Moro perde l’appoggio popolare diffuso nelle fabbriche, quella comportamentale, ossia delle tendenze, diventa modello di massa, che si istituzionalizza con la legge sul divorzio nel 1970 e con la proclamazione del diritto di aborto nel 1978. Ma il suo esito è stato il suicidio del desiderio.

Scambiato il desiderio originale di felicità con la sua malattia soggettivista, ossia il primato del piacere individuale, la Rivoluzione culturale in Italia ha fatto della morte del padre e del vietato vietare la conquista senza ritorno, bruciando alle proprie spalle i ponti della tradizione. Si è trovata così ad attraversare le frontiere del nulla, svelando il suo itinerario verso la cultura della morte: il terrorismo, la libertà di drogarsi, di abortire, di darsi la morte con l’eutanasia, la pretesa di annullare la sessualità negando le differenze di genere, costituiscono la moneta con la quale è stato ripagato il desiderio di una vita buona.

Scriveva il giovane Marco Riva nel suo lucido e disperato commiato: «Avrei tanto voluto vivere, amare, essere amato. Non è stato il rifiuto della vita, ma l’impossibilità di vivere, di vivere la mia vita, la mia realtà, a farmi scegliere la morte». Sono i più sensibili a togliersi la vita, i più deboli a morire di droga, i più coerenti a sparare, i più scaltri a riciclarsi nelle stanze del potere. Per tutti una constatazione amara: il Sessantotto, che diceva di contestare l’imperialismo e di voler abbattere il capitalismo, abbatte ciò che rimane di religioso, di trascendente, in nome di una ideologia marxista a forte coloratura messianico-rivoluzionaria. Crollata l’ideologia, il sessantottino passa dall’utopia alla prassi e diventa il cane da guardia della tecnocrazia.

Così, le tendenze libertarie emerse negli anni Sessanta ed esplose con il Sessantotto continuano l’opera della secolarizzazione che attraversa il Novecento, producendo frutti avvelenati: lo svuotamento interno del principio di autorità, sostituito con un vuoto e occhiuto autoritarismo; la sostituzione dell”‘abito” e della “divisa” con un modo di vestire uniformante e “casual”; l’oscuramento del valore della sessualità, insidiato dalla sessuofobia del rigorismo protestante e rapidamente trasbordato al libertinismo attraverso la diffusione della contraccezione e dei modelli trasgressivi veicolati dai mass-media.

La speranza ritrovata

La riflessione, compiuta senza occhiali ideologici, sugli “anni del desiderio e del piombo”, ci aiuta anche a verificare in Italia la sorprendente continuazione di quella che Giovanni Cantoni definì, commentando la resistenza del popolo italiano all’egemonia socialcomunista degli anni Settanta del XX Secolo, la «lezione italiana».

Da un lato il Sessantotto, compiuta la Rivoluzione culturale in nome della negazione dell’autorità, falsifica il desiderio di giustizia e di felicità delle giovani generazioni e si suicida negli esiti della cultura della morte, con il terrorismo, il diritto all’aborto, l’annientamento attraverso l’eutanasia e la libertà di droga.

Dall’altro, dopo la caduta del Muro di Berlino (1989), la fine dell’Unione Sovietica (1991) e l’attacco terroristico agli Usa l’11 settembre 2001, l’Italia riscopre ancora una volta l’esistenza di un popolo, di un Paese reale non rappresentato da chi occupa i poteri politici, finanziari e massmediatici. Un popolo certamente aggredito in profondità dal processo di secolarizzazione accelerato dal Sessantotto, ma ancora radicato nella propria eredità cristiana, che se risvegliato e sollecitato dalle autorità sociali riconosciute e da minoranze attive e coese, è capace di rispondere vigorosamente alle sfide nichiliste del laicismo e dello scientismo tecnocratico e a i quelle aggressive ed egemoniche del fondamentalismo islamico.

II “ritorno di Dio” anche tra i giovani, l’omaggio di popolo reso alle vittime di Nassirya nel 2004, l’astensione attiva nel 2005 contro il referendum sulla legge 40, la risposta di oltre un milione di persone, nel Family day del maggio 2007, alle aggressioni legislative all’istituto familiare, manifestano la formazione e la diffusione di un’atmosfera di idee e di sentimenti che ritrova la speranza partendo dai valori permanenti della vita, della famiglia e delle libertà concrete delle persone e delle comunità.

Una «lezione italiana» per l’Europa, che costituisce una concreta via alternativa al laicismo e al fondamentalismo, fondata su una vera laicità e sul ritorno della speranza. Come ha scritto il card. Camillo Ruini illustrando il progetto culturale della Chiesa italiana nel 2002, anche il trauma provocato dal terrorismo islamico ha stimolato «un risveglio religioso identitario nelle nazioni di matrice storica e cultura le cristiana» anche in Italia, sia a livello di popolo sia in una parte significativa della cultura “laica”.

Da qui la possibilità della cultura cattolica di «rispondere positivamente alle richieste, implicite nel risveglio identitario, che la fede cristiana possa alimentare, in un’ottica non confessionale, ossia pienamente rispettosa della libertà religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato, una visione della vita e di alcuni fondamentali valori etici che forniscono la base dell’identità delle nostre nazioni: si ha così, tendenzialmente, il superamento della fase storica del laicismo e del secolarismo» (prolusione al IV Forum del Progetto culturale, Roma 3 dicembre 2002, in Camillo Ruini, Nuovi segni dei tempi, Mondadori, 2005).

Impossibile?

Nel Sessantotto si scriveva sui muri: siate realisti: esigete l’impossibile. Ma proprio questa è la lotta che dobbiamo intraprendere, persuasi «che l’impossibile (ciò che il mondo ritiene tale) è la sola cosa necessaria» (S. Teresa D’Avila).

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Enzo Peserico Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione. Sugarco, pp 246

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