Gli anticomunisti mandati al macello

Russland, Kosaken in der Wehrmacht
Il Giornale domenica 15 gennaio 1995
La fine della seconda guerra mondiale scatenava una serie di atrocità ai danni dei vinti sulle quali è calata una lunga omertà

I crimini dei vincitori: ricorso alla Corte di giustizia di Strasburgo 

di Piero Buscaroli

Nella seconda metà di gennaio, a Strasburgo, la Corte europea per i diritti dell’uomo dovrà esaminare il ricorso del conte Nikolas Tolstoi contro la condanna a pagare un milione e mezzo di sterline, inflittagli dalla giustizia inglese il 1° dicembre 1989. quale risarcimento preteso da un Lord Aldington che, col meno pomposo nome di Toby Low, fu, nel 1945, Capo di Stato maggiore del V Corpo d’armata britannico.

Fino a che Tolstoi non scrisse su di lui nel 1988, Toby Low, divenuto pari del regno e presidente del Partito conservatore, era riuscito, celandosi nell’ombra del comandante il V Corpo d’armata, il tenente generale Charles Keightley, a nascondere le sue personali responsabilità nella più losca operazione condotta dalle forze armate britanniche nella seconda guerra mondiale: la consegna forzata ai sovietici dei volontari cosacchi che, arruolati nella Wehrmacht e seguendola nella ritirata, con le famiglie, si erano acquartierati, alla fine della guerra, tra la Carnia italiana e l’adiacente Carinzia.

Negli incontri «tecnici» della Conferenza di Yalta, gli occidentali si erano impegnati a «restituire» quei collaborazionisti che fossero cittadini sovietici nel 1939. Non, perciò, gli esuli fuggiti dalla Russia dopo la rivoluzione, che cittadini sovietici non erano mai stati. E non i soli russi furono consegnati ai loro mortali nemici. Anche settecentomila croati, i soldati dell’esercito, le loro donne e i bambini, vennero brutalmente trasformati in vittime degli aguzzini di Tito.

L’orribile segreto, che tutti conoscevano nelle alte sfere militari britanniche, fu rivelato nel 1974 con la pubblicazione di un libro di Nicholas Bethell. The Last Secret. Forcible Repatriation to Russia 1944-47 (Andre Deutsch ed.) Bethell era un giovane aristocratico che alternava interessi letterari e storici alla carriera politica nel Partito conservatore. Nel governo Heath aveva ricoperto una carica simile alla nostra di sottosegretario.

Traduttore di Solgenitsin, Bethell fu forse spinto da una frase di Arcipelago Gulag a squarciare il velo, che già si era sollevato alla scadenza della riserva venticinquennale con cui gli archivi inglesi e americani proteggono temporaneamente una vasta fascia di classified documents. «È sbalorditivo che in Occidente, dove nulla di politico resta a lungo segreto, e inevitabilmente giunge al pubblico, o sulla stampa o in qualche altro modo, questo solo atto di tradimento commesso dai governi inglese e americano possa, essersi mantenuto all’oscuro. Questo è davvero l’ultimo segreto della seconda guerra mondiale, o, almeno, uno degli ultimi».

Ultimo non era, ché ancor doveva seguire Other Losses di James Bacque: la rivelazione, uscita l’anno scorso (in italiano Gli altri Lager, Mursia) di come americani e francesi fecero morire di fame, di stenti e di malattie, dopo la fine della guerra, un milione di soldati tedeschi nei campi di concentramento sotto la loro autorità; privandoli delle difese della Croce rossa internazionale con un sotterfugio verbale ideato dalla perversa mente del generale Eisenhower: la trasformazione di quelli che erano, con ogni diritto, Prisoners of War (Pow) in Desarmed Enemy Forces (Def); altro segreto su cui ha scritto un memorabile articolo Massimo Zamorani in queste pagine.

Bacque è un canadese, così come inglesi sono Bethell e David Irving, colui che osò sollevare un altro lurido velo sulla distruzione di Dresda, nel febbraio 1945 inglorioso misfatto e non impresa militare: massacro calcolato, pianificato nei minimi particolari per distruggere quanto più possibile della splendida città d’arte, trascurando i pochi obiettivi militari; e uccidere il maggior numero possibile di esseri umani: un massacro che, per esser stato condotto concentrando a questo scopo le conoscenze, le competenze e le risorse tecniche di uno Stato, è in ogni senso assimilabile ad Auschwitz.

Grande attenzione dovrà dedicare la storiografia dei prossimi decenni a questo capitolo della distruzione dall’alto dell’Europa, per metterne in luce il carattere non bellico, ma soltanto terroristico di genocidio pianificato; e per rimuoverne la crosta delle attenuanti che vi ha sopra depositato una storiografia compiacente e anglofila per partito preso, riducendo il capitolo dei bombardamenti a peccato veniale, diminuito da un preteso carattere di giusta ritorsione, e compensato dalla «liberazione» e dalla conseguente gratitudine dei vinti per esser stati rieducati all’onestà e alla libertà.

Ha un interesse decisivo osservare che i fondamenti di questa storiografia di correzione morale, revisionista in quanto intesa a rivedere la rozza spartizione tra delinquenti e redentori, siano stati posti da scrittori appartenenti a nazioni di parte vincente. Fu il più nobile e indipendente degli scrittori politici francesi di questo secolo, Alfred Fabre-Luce, che aprì, subito dopo la fine della guerra, il capitolo dei «crimini di guerra alleati».

Il primo di tali crimini emerse con sanguinosa evidenza già al processo di Norimberga, dove non restarono dubbi sulla responsabilità sovietica nell’assassinio del corpo degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyn. Dopo un goffo tentativo di addossare anche quella strage ai vinti, gli accusatori russi pretesero e ottennero che di Katyn non si parlasse più.

«Non potevamo certamente ignorare la marea di violenze e stupri, assassinii e deportazioni di popolazioni che contrassegnarono l’anno 1945», scrisse più tardi lo stesso Fabre-Luce; «Ma, fino al 1975, quando apparve L’ultimo segreto di Nicholas Bethell, non ci eravamo imbattuti in questi milioni di Russi anticomunisti, consegnati all’Urss, nonostante gli scrupoli iniziali di Churchill, per una decisione di Anthony Eden. Questo bestiame umano inseguito, acchiappato al laccio, venduto a tradimento, questi uomini che si arrampicano gli uni sopra gli altri per sottrarsi all’imbarco forzato, queste donne che saltano nei precipizi stringendo i loro bambini, sono immagini che non dimenticheremo facilmente».

È importante che questa riscrittura della storia, dove tornano a bilanciarsi le responsabilità, e i sentimenti umani, buoni e malvagi, tornano a distribuirsi tra le due parti in lotta, non nasca dai vinti; non sia espressione di sentimenti di rivincita, anche comprensibili, ma sorga dal disgusto di storici dei Paesi vincitori per gli aspetti disgustosi della vittoria. Da condanne morali che tagliano trasversalmente alleanze e nazioni, ideologie e perfino partiti

Il conte Tolstoi che, sulla scia di Lord Bethell, si mise a indagare sulle, responsabilità di ministri e comandanti inglesi in un delitto immenso, e pari, nel numero delle, vittime, alla metà della contabilità tedesca, era giornalista del «Times». Il giornale, subito dopo la pubblicazione di Victims of Yalta e di The Minisier and the Massacres, (entrambi editi da Jriodder & Stoughton), si schierò al suo fianco, chiedendo che «i responsabili di quel rimpatrio forzato vengano a giustificarsi alle sbarre della storia sul delitto che pesa sulla coscienza della Gran Bretagna. Tolstoi aveva dimostrato che il gabinetto di guerra, in cui sedevano sia Churchill sia Attlee, approvò il «principio del rimpatrio», il 4 settembre 1944, «dopo una brevissima discussione». Il «ministro» del secondo titolo è Harold MacMillan, allora ministro di Stato per il teatro di operazioni del Mediterraneo, che si trovò, nel maggio 1945, quale presidente della commissione di controllo in Italia; sui luoghi dove i Cosacchi prigionieri furono ammassati prima della consegna.

Tolstoi rivelò ancora che, fin dal giugno 1944, colui che poi divenne Sir Patrick Dean, brillante ambasciatore, scrisse: «Che possano essere fucilati o massacrati in massa, non ci riguarda. Perdere tempo a distinguere tra rifugiati civili e disertori e traditori dell’Armata rossa ci costringerebbe a una serie di interminabili litigi coi sovietici». Il «Times», si augurava che «il Foreign Office e tutte le personalità menzionate spiegassero finalmente all’opinione pubblica Inglese i veri moventi della diplomazia britannica in quel difficile momento storico».

Queste storie raccapriccianti, i «viaggi di ritorno senza avvenire» di torme di sofferenti, spinte a calci e bastonate nelle navi e nei vagoni bestiame, i continui suicidi in massa, avevano avuto testimoni numerosissimi. Un ufficiale francese ricordò: «A centinaia si gettarono sotto le ruote del treno piuttosto che ritornare di là. La disperazione, l’istinto di conservazione, spinsero gli uni a mutilarsi, gli altri a battersi con le unghie e i coltelli contro i soldati inglesi, che reagirono brutalmente».

E ancora Tolstoi: «Questo aspetto disumano dell’operazione non fu mai rivelato né al pubblico, né al Parlamento, perché il deputato laburista Christopher Mayew ha affermato che egli stesso, ministro di Stato al Foreign Office all’epoca di Bevin, non ne seppe mai nulla. Si trattava di uno sforzo deliberato per celare al pubblico penose verità»: Il «Times» chiese, quindi, dopo che le rivelazioni furono fatte, «una revisione onesta dell’interpretazione di certi fatti che, in quell’epoca, per motivi di propaganda bellica o post-bellica, costituirono una distorsione completa della realtà e della storia».

La risposta fu un violento e brutale rifiuto, cui contribuirono tutte le autorità ufficiali. Di fronte alle richieste di verità da parte di Tolstoi e dei suoi difensori, la cinica sentenza, così ammirata quando si tratti di inglesi, Right or wrong. my Country, oppose il muro di una bieca, rinnovata complicità. Il beneficio di avere obbedito agli ordini superiori, che fu negato ai militari tedeschi (e giapponesi) da Norimberga in poi, dovrebbe continuare a proteggere l’inganno inglese che fu alla base del rimpatrio forzato e del massacro dei Cosacchi.

Il ministero degli Esteri vietò la consultazione dei suoi archivi a Tolstoi e ai suoi difensori, ma non a Toby Low, ora Lord Aldington, ultimo sopravvissuto tra gli autori di quello che la «Neue Zürcher Zeitung» definì «inglorioso capitolo della storia militare inglese». Il ministro della Difesa e il Museo imperiale della guerra proibirono l’accesso alle testimonianze registrate sui rimpatrii, una delle quali, la sola ottenuta con procedura speciale da Tolstoi, lascia udire uno degli ufficiali del V Corpo confessare che tutti loro sapevano come fosse intenzione di Toby Low consegnare «quella gente a sovietici e jugoslavi».

L’atteggiamento dei giudici durante il processo basterebbe a cancellare le idilliache illusioni sulla giustizia britannica. Il giudice e il Lord parte civile erano membri dello stesso club, le spese giudiziarie del Lord furono pagate da una società di assicurazioni a partecipazione pubblica. «Aleggia il sospetto che l’establishment abbia stretto i ranghi in difesa di Aldington», ha scritto su «il Giornale» Luca Romano, in una corrispondenza da Londra. La condanna, infine, a pagare un milione e mezzo di sterline (3 miliardi e 750 milioni di lire, più le spese di giudizio) che ha trasformato il giornalista in un povero e debitore a vita, appare più il mostruoso reperto di una vendetta barbarica che un documento giudiziario di una nazione civile.

La presente rievocazione è scritta per coloro che dovranno pronunciarsi sul quesito se la giustizia inglese non abbia violato, contro Tolstoi, la convenzione europea sui diritti dell’uomo. Si fonda su Arcipelago Gulag di Solgenitsin, su The Last Secret di Nicholas Bethell, il capitolo «Dalla parte dei vinti» del mio libro La vista, l’udito, la memoria (Fogola, 1987) i due libri citati di Nicholas Tolstoi; su notizie tratte dal libro del nipote di Pyotr Krasnov, Nesabywajemoje («L’indimenticabile»), pubblicato in lingua russa a New York, oltre che su comunicazioni private (per quanto riguarda il rimpatrio e il massacro dei croati) di padre Giacomo Bigoni, storico dei Frati Minori Conventuali, mancato ai vivi da pochi mesi; nei suoi lunghi soggiorni nell’isola di Cherso dov’era intento a ricerche negli archivi del suo Ordine, ebbe resoconti e notizie che mi riferì dopo le mie prime pubblicazioni sull’argomento nel 1975, e divennero base di una quasi ventennale amicizia.

Dedico questo lavoro e Nicholas Tolstoi e a quanti uomini giusti si battono contro la falsificazione del giudizio storico.

A due milioni di persone ascende il conto complessivo dei russi che, alla fine delle ostilità, si trovò nelle mani degli «alleati» occidentali: uomini, donne, bambini, neonati e nascituri. Soldati sovietici catturati nelle immense «sacche» seguite alle battaglie d’accerchiamento dell’estate 1941, e poi arruolati nella Wehrmacht per ragioni diversissime, dalle convinzioni anticomuniste all’insofferenza della prigionia, al reclutamento forzato, ausiliari civili dei due sessi, dal tecnico alla sguattera; fuggiaschi sballottati tra i due fronti, risucchiati nelle ritirate dal miraggio del cibo, di un tetto; decine di migliaia di familiari, ignari e innocenti: relitti di comunità nazionali disperse e disposti a collaborare anche col diavolo, pur di abbattere il regime sovietico; idealisti religiosi, membri di emigrazioni politiche e ideologiche che, quando in eguali forme combatterono contro il nazionalsocialismo e il fascismo furono lodate quali espressioni dello spirito di libertà.

Erano emigrati fuggiti dalla Russia rivoluzionaria, i veterani degli eserciti bianchi, scampati alla disfatta controrivoluzionaria del 1920 Quando le armate germaniche varcarono il Niemen questa gente sentì suonare l’ora della riscossa, e accorse: dalla Francia, dall’Europa centrale, dall’Ungheria, anche dall’Italia, Tra essi spiccava la dinastia dei Krasnov, capeggiata dal famoso Pyotr, generale dell’Armata imperiale, Ataman dei Cosacchi del Don e poi di nuovo generale dei Cosacchi della Wehrmacht. Krasnov aveva consacrata la sua esistenza di soldato e scrittore alla lotta del suo popolo contro il bolscevismo. Il suo libro, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa, fu tradotto, tra le due guerre, in tutte le lingue europee. Lo divorai, forse a otto anni, e rimase dentro di me, come una delle più precoci radici del mio anticomunismo.

L’editore Salani tornò a stamparlo nel 1974 senza sentire il dovere, fosse sciatteria o sciacallesco cinismo, di dedicare una nota pietosa alla terribile fine dell’autore, di cui continuava a sfruttare il lavoro.

Più che ottantenne. Pyotr Krasnov chiuse la sua avventurosa e generosa esistenza appeso per il mento a un gancio di ferro alla Lubianka, le mani legate col filo di ferro dietro la schiena. Agli ordini suoi e di altri condottieri come Naumenko, l’Ataman dei Cosacchi del Kuban, combatterono trentacinquemila cosacchi. Altri quindicimila erano inquadrati nel fortissimo 15° Corpo di cavalleria del generale conte Helmut von Pannwitz, un nobile baltico che conosceva perfettamente il russo, e a questo sui talento, oltre alla fellonia inglese, dovette il cappio di forca che un boia sovietico gli passò intorno al collo.

Né secondo il diritto internazionale, né secondo l’etica militare, né secondo gli accordi di Yalta questi capi dovevano essere consegnati all’Unione sovietica. Chi ha condannato Tolstoi, per difendere Toby Low, dovrebbe ricordare l’arbitrio e l’infondatezza del delitto commesso.

Solgenitsin conobbe i superstiti di due milioni d’infelici nei campi dell’Arcipelago: quelli che non erano stati fucilati o impiccati subito dopo il ritorno, sopravvissuti a un decennio di torture e lavori forzati; e ancora figli di quelle martoriate famiglie che, nati in prigionia dovettero continuare nell’infanzia e nella giovinezza, riscattando con la «rieducazione» le origini impure. Ascoltò i loro racconti e comprese che, nello sterminio di questi due milioni di esseri umani le colpe dei Roosevelt e Churchill, Eden e MacMillian, erano identiche a quelle di Stalin.

In quella moltitudine i colpevoli i colpevoli di un qualsiasi crimine furono assoluta minoranza. Eppure nulla fu tentato per sottrarre gli innocenti al massacro: immediato o differito nella consunzione. Furono dunque mandati alla morte anche coloro che, secondo ogni diritto e ogni morale, dovevano essere salvati.

L’accusa di Solgenitsin colpì Bethel e lo spinse alla sua ricerca. Non che occorresse consultare archivi per conoscere la sorte di quei due milioni di vittime. L’avevano narrata i pochi che erano riusciti fuggire: il nipote di Krasnov e il generale Vyecheslav Naumenko che in un libro pubblicato a New York nel 1970, Il grande tradimento, narrò come il suo popolo fosse ingannato e tradito. Numerose testimonianze furono rese da ospiti dei Lager inglesi e americani in Europa dopo la guerra, che poterono assistere alle disgustose «operazioni» nelle quali i russi che si erano arresi ai democratici campioni della libertà, furono caricati a furia di menzogne e percosse, promesse e violenze, sui camion, treni e le navi, e portati al macello sovietico.

Chi abbia letto Der Fragebogen di Ernst von Salomon (tradotto da Longanesi nel 1954 col titolo Io resto prussiano), non ha dimenticato i militi della Waffen SS, prigionieri in un campo bavarese, che insultano i soldati americani reduci da uno di quei trasferimenti: «In piedi, accanto ai reticolati, non appena vedevano gli americani, smaniavano e gridavano: “Fate a noi quel che volete, ma quel che avete fatto ai russi è la più ignobile porcheria della storia umana!”».

Non occorreva aspettare l’apertura degli archivi per conoscere il numero approssimativo delle vittime, e la loro storia. Ma i documenti, oltre alle cronologie precise, i riferimenti esatti, i testi delle discussioni e decisioni, dei rapporti diplomatici e pareri, richieste d’istruzioni dei comandi, risposte ministeriali, diari dei comandanti dei reparti con responsabilità delle «operazioni», e poi l’immenso cinico inganno, seguito dai «disgustoso compito» delle consegne, disegnano un quadro raccapricciante, nella sua minuziosa vastità, che non può restare fuori dei cancelli della storia.

Churchill e Roosevelt, e soprattutto Eden che vi ebbe la parte decisiva, seppero di cagionare la sicura morte di due milioni di esseri umani che, in loro potere, avrebbero potuto salvare Non è lecito chiamare assassini Hitler e Stalin e poi fingere di non vedere queste colpe.

La qualità di conservatore non impedì a Bethell di lanciare contro il vecchio Lord Avon, tale il nome, abbellito dalla nomina a pari, di Anthony Eden, la terribile accusa d’esser stato «l’architetto del rimpatrio forzato» di queste centinaia di migliaia di disperati che supplicavano d’essere uccisi subito, piuttosto che consegnati all’Unione Sovietica.

Interpellato nel 1973, Eden si sottrasse, assicurando che non ricordava «i particolari di questo affare». Gli sottoposero i verbali delle sedute del governo in cui, proprio lui, nel settembre 1944, prese le decisioni, dopo una breve discussione. Rifiutò di commentarli.

Li commentò Bethell: «Quando scrisse che la Gran Bretagna non aveva alcun diritto morale e legale di interferire su come Stalin avrebbe trattato gli uomini che avrebbero combattuto contro di lui. egli non fece altro che chiedere al governo di rompere la tradizione inglese dell’asilo politico agli oppressi e ai perseguitati, e consegnare migliaia di persone a una punizione che, come egli riconobbe, sarebbe stata una condanna a morte, senza distinguere tra l’innocente e il colpevole oppure ad anni di prigionia senza scampo. Fu proprio per situazioni come queste che i Paesi civili concepirono l’idea del diritto di asilo».

Truman vecchio potè vedere quanto sia servito agli Stati Uniti, al di là di una vittoria già decisa, il duplice crimine di Hiroshima e Nagasaki. Nonostante stonati trombettieri della civiltà atomica levino ancora svergognati elogi del bombardamento americano, l’Asia non ha perdonato, e l’America porta ancora il peso di quell’ignominia.

Churchill ebbe ogni agio di contemplare la fine dell’Impero, conseguenza della sua politica. «Provava l’indifferenza mostruosa dei vecchi per l’avvenire degli altri —- osserva Fabre-Luce —, ma la sua forte costituzione gli ha giuocato un brutto tiro Ancora ben vivo, dovè constatare che quel che è essenzialmente fondato sul caso, viene anche rapidamente portato via dal caso».

Peggiore fu il tiro che la robusta costituzione giuocò a Eden che, pallido e disfatto, sconfitto in modo grottesco dal veto dell’alleato americano alla sua spedizione di Suez, uscì dalla storia a bordo d’una lugubre auto Humber ministeriale, sostenuto dalla moglie che gli metteva cuscini dietro la testa, inseguito dal solito codazzo schiamazzante di cronisti e fotografi. Le coriacee carni del leone britannico servivano ormai di nutrimento all’orso russo e all’aquila americana.

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Articolo pubblicato su Il Giornale
del 22 gennaio 1995

La consegna a Stalin dei russi della Wehrmacht prigionieri degli alleati

di Piero Bucarelli

Il problema dei russi in uniforme tedesca cominciò per gli “alleati” pochi giorni prima dello sbarco in Normandia. I servizi d’informazione fecero sapere che molte migliaia di russi presidiavano le coste prescelte. Che cosa farne? Il 8 maggio 1944 l’ambasciatore inglese suggerì al governo di Mosca di promettere un’amnistia agli arruolati per forza, escludendo i collaboratori volontari, le Waffen SS e altri “criminali”. I reparti si sarebbero divisi, i comandi, sospettando di questi soldati, non avrebbero osato impiegarli, molti avrebbero disertato.

La risposta di Molotov riflette l’imbarazzo davanti all’esistenza di un dissenso armato di tali proporzioni. Un imbarazzo che durava ancora venticinque anni più tardi, se Rosario Romeo, dopo aver partecipato a Mosca a uno di quegli incontri tra storici italiani e sovietici su cui tanto contava la propaganda comunista, scrisse in questo giornale (“L’ombra di Vlasov”, 10 giugno 1977) che «un fenomeno di collaborazionismo così esteso» poneva «un discorso assai delicato», e difatti era stato «portato avanti più nei corridoi del congresso che nel dibattito pubblico…»

Traditori? Risponde Solgenitsin: «Non si sarebbero mai arruolati nella Wermacht, se non fossero stati spinti dalla disperazione, se non avessero provato un odio inestinguibile contro il regime sovietico». Russi coi tedeschi? Il loro numero era insignificante, rispose Molotov, il problema non esisteva, non c’era alcuna ragione di far le promesse che Londra suggeriva. Il regime aveva trovato la soluzione: intanto negare che esistessero e, appena possibile, riprendersi i dissidenti e farli sparire.

Nei primi giorni dell’invasione della Francia, i poveri diavoli caddero prigionieri a migliaia. Il 20 luglio 1944, Eden informò l’ambasciatore russo che il numero cresceva. Tre giorni prima il governo aveva deciso di consegnarli, appena Mosca li richiedesse. Ivano il ministro dell’Economia di guerra Lord Selborn, scrisse a Churchill e Eden contro «la decisione di rimandare questa gente in Russia, che significherà per loro la morte».

Churchill concesse la solita esitazione alla sua fama di anima bella, poi si schierò con Eden, che ripeteva: «Non possiamo permetterci sentimentalismi». Il 23 agosto l’ambasciatore sovietico chiese la consegna dei prigionieri ma a domicilio; gli inglesi dovevano metterci anche le navi su cui rimandarli. Il ministro della guerra, Grigg, scrisse a Eden: «Lei crede che non possiamo permetterci sentimentalismi, ma io trovo la prospettiva piuttosto rivoltante. Tanto più che, se manderemo i prigionieri russi alla morte, toccherà a me le istruzioni alle autorità militari».

I russi erano, a questo momento, 3750, e bisognava decidere. C’erano ausiliarie, serve, cuoche, c’erano civili. E più appariva ovvia la necessità di distinguere, più Eden si ostinava su una sorte uguale per tutti. Nei campi di concentramento si dovettero separare dalla massa quei volontari irriducibilmente anticomunisti che no provavano ostilità contro Gran Bretagna e Stati Uniti, sulla cui protezione contavano, anzi, illudendosi come molti in Germania, che la guerra sarebbe continuata contro l’Unione Sovietica. Si sarebbero uccisi piuttosto che tornare in Russia.

Comparvero le missioni sovietiche promettendo perdono e calorose accoglienze: «Bruceremo nel fuoco quelle uniformi tedesche che indossate», disse il generale Vasiliev in un campo nello Yorkshire: «Si, con noi dentro, lo sappiamo», lo interruppero. Erano, ormai, due schiere: quelli che l’illusione di salvarsi consigliava ostentare una lealtà sovietica che meritasse loro il perdono; e gli altri,che ostentavano, invece, il terrore e l’odio che dovevano impietosire gl’inglesi e indurli a rinunciare al rimpatrio.

Si scatenarono i sentimenti peggiori, la delazione, e l’inganno; ma anche i migliori, la coerenza, il coraggio, lo stoicismo. Quanto alla salvezza, tutti e due i sistemi fallirono. Il 30 settembre 1944, Churchill e Eden fecero a Stalin la visita che restò famosa per il foglietto delle “percentuali”, proposte dall’inglese e giovialmente sottoscritta dal furbo georgiano, cui non pareva vero d’incassare il 90 per cento dell’influenza in Romania e Bulgaria, e metà in tutto il resto, in cambio d’un 90 per cento agl’inglesi in Grecia.

CosacchiA Mosca, comunicò Churchill estasiato a Roosevelt, aveva trovato «una straordinaria atmosfera di buona volontà», e Harold Nicolson, un diplomatico e scrittore rinomato anche per altre ragioni, annotò: «Eden ha un vero affetto per Stalin», e «Stalin non ha mai mancato alla parola». Tra illusioni e follie, maturò la decisione, mai prevista fino a quel momento, di rimpatriare i prigionieri anche con la forza, e subito furono spediti a Murmansk i primi diecimila. Lasciarono i porti inglesi il 31 ottobre.

Un ufficiale inglese e un funzionario americano che li avevano accompagnati, osservarono che non ci fu alcun benvenuto: gli sbarcati s’incamminarono, carichi delle loro robe, sotto pesante scorta armata. I due comunicarono l’impressione ricevuta e gravi sospetti ai loro governi, ma il funzionario del Foreign Office che ricevette il rapporto rimase tranquillo: forse ignorava che la marcia al Lager più vicino era preludio ad anni di lavori forzati. I prigionieri in mani americane erano ora 28.000.

Eisenower domandò consiglio agli ufficiali sovietici di collegamento. Risposero che non era possibile, non c’erano russi coi tedeschi. Il 20 dicembre gli americani si allinearono agli inglesi: consegnare tutti, lo volessero o no. Restava una breccia: gli americani consideravano tedeschi tutti i prigionieri catturati in uniforme tedesca finché non si dichiarassero di nazione diversa. Avevano le loro buone ragioni, perché tedeschi e giapponesi avevano catturato numerosi americani, la cui cittadinanza appariva controversa. Essi intendevano che il «diritto dell’uniforme» fosse contraccambiato.

Fino a quel momento i russi potevano sperare di scamparla dichiarandosi tedeschi. Non lo capirono, e in maggioranza si dichiararono russi, sperando in un trattamento migliore. Li ammassarono con un altro migliaio in partenza, e tutt’insieme cominciarono a smaniare e tentare suicidi. Era il preavviso di quel che si preparava. Anche a Washington il ministro della Guerra era contrario alla consegna: «Ci assumiamo rischi inutili consegnando prigionieri tedeschi di origine russa. Saremo noi i responsabili del grande massacro che i sovietici commetteranno».

Il ministro della Giustizia pose un grave problema: quale fondamento legale avesse la consegna di individui riluttanti e contrari. Né lui né il collega erano al corrente degli accordi già presi con l’inglesi. La sorte dei disgraziati, ora saliti a centomila, fu suggellata a Yalta. «Erano te anni che la propaganda inglese narrava le sofferenze ed esaltava gli eroismi del popolo russo. Aveva nascosto il vero carattere del governo sovietico. Aveva fatto credere che i suoi capi fossero simili ai nostri, così determinando, verso quel governo, un atteggiamento che rese possibili, e anche accettabili, alcuni grandi tradimenti», ha scritto nella prefazione a Bethell, Hugh Trevor-Roper, uno storico accademico c’ebbe incarichi di rilievo nei servizi segreti.

A Yalta Stalin, abilissimo negoziatore, incassò l’intera Polonia «incatenata, in ceppi e imballata», scrisse Gorge Kennan. Quello della Polonia è il meglio conosciuto, ma un tradimento a testa toccò ad ognuna delle nazioni “liberate” dell’Europa orientale: più i Croati, i Cetnici, i Cosacchi. Oggi si può misurare l’eccesso, incosciente e criminale, dello zelo filosovietico inglese, che si spinse a rimpatriare gli emigrati “bianchi”, la cui consegna era stata esclusa per l’elementare evidenza che mai erano stati cittadini sovietici.

Trevor-Roper dové ammettere: «Dei sei capi, la cui esecuzione fu pubblicamente annunciata, uno solo era passibile di rimpatrio. Gli altri dovevano indiscutibilmente restare prigionieri delle potenze occidentali e ricevere, infine, asilo politico (…). Per accontentare Stalin, gli “alleati” sacrificarono non solo i Cosacchi, ma anche i termini degli accordi di Yalta, e la distinzione tra tradimento e dissenso politico».

Ernest Bevin, successore laburista di Eden, sentenziò: «Sarebbe difficile tacciare una linea tra rifugiati politici e traditori». Così calò il coperchio sulla tomba, comune agl’innocenti e ai supposti colpevoli. Stalin aveva detto: «Ci occuperemo di quelli che hanno combattuto per i tedeschi quando saranno ritornati i Russia». E bisogna supporre, aggiunge Bethell, «che Churchill ed Eden sapessero che cosa intendeva Stalin quando parlava di “occuparsi di quella gente” che, in ogni caso, si erano già impegnati a regalargli».

L’11 febbraio 1945 fu firmato l’accordo: «Tutti i cittadini sovietici liberati dalle armate alleate verranno separati dai prigionieri tedeschi (…) concentrati in luoghi predisposti, dove saranno ammesse commissioni sovietiche per il rimpatrio». Nessuno accennò a rimpatri forzati, e Stalin propose di non far parola della decisione nel comunicato sulla Conferenza.

Al Foreign Office ne furono consolati: «Questo accordo deve restare segreto», annotò un funzionario a margine. Poteva oscurare la luce radiosa in cui Yalta fu presentata all’Occidente liberaldemocratico entusiasta: la precisazione «cittadini sovietici» significava che i veterani della guerra civile e della “vecchia emigrazione” erano esclusi. Mai la civiltà liberaldemocratica fu più chiara e sicura di sé.

Ora bisognava interrogare, distinguere, ci avrebbero pensato le illuminate missioni sovietiche. «Spiacevole e penoso» parve al brigadier generale R. Firebrace accompagnare il collega Ratov a interrogare i prigionieri per identificare i cittadini sovietici del 1939 che dovevano rimpatriare. Uno puntò il dito contro Ratov, gridando «Avete ucciso mio padre, avete ucciso mia madre, avete ucciso i miei fratelli, e io chiedo al generale inglese di uccidermi qui e subito, piuttosto che rimandarmi in Russia». Firebrace borbottò che quel disgraziato gli sembrava polacco e non russo, e lo ficcò in una lista di casi controversi, salvandolo, almeno per il momento.

cosacchi_WermachtFece rumore il caso di Ivan e Natalia. Ivan, tent’anni, figlio di perseguitati politici, era stato più volte in carcere prima della guerra. Catturato dai tedeschi nel 1942, finì in un battaglione di lavoro dell’armata Vlassov. Nel 1943 sposò Natalia, una ragazza di diciassett’anni, che ora stava con lui nel campo, e a gennaio dette alla luce un bambino. Per il Foreign Office, tutto era chiaro: padre e madre «saranno consegnati, trattati duramente e probabilmente giustiziati», annotò tranquillo il funzionario, «mentre il bambino, inglese per nascita, sarà allevato a cura dello Stato».

I due, che lo storico indica con lo pseudonimo Sidorow, ebbero una doppia fortuna: la tempestiva nascita e un’irriducibile anziana signora quacchera, Ethel Christie, ch’era stata crocerossina in Russia nel 1920, e scocciò mezzo mondo, fin che ottenne che Ivan e Natalia restassero in Inghilterra, dove tutt’ora vivono. L’isolato caso di favola umanitaria fa soltanto risaltare la sfortuna dei disgraziati che, ficcati a forza nelle navi, salparono, ora, per Odessa.

I primi viaggi riuscirono «sgradevoli» per la tensione tra scorta e marinai inglesi, e gli ufficiali sovietici. I prigionieri s’impiccavano, si tagliavano le vene, si gettavano dalle navi a Gibilterra, ai Dardanelli. I Turchi li ripescavano e li riconsegnavano. Alcuni furono fucilati all’arrivo, il 18 aprile 1945: gli ufficiali inglesi non poterono vedere, ma udirono gli spari: si sentirono rispondere che «erano stati giustiziati perché lavoravano per la polizia inglese ed erano venduti ai capitalisti». Neppure queste esperienze recarono pentimenti.

Il 30 maggio alcuni prigionieri si gettarono nel Bosforo, dalla “Empire Pride”; i turchi li riportarono, uno si tagliò le vene. A bordo imperversavano le delazioni, i sovietici interrogavano e selezionavano i prigionieri che, all’arrivo, furono costretti a camminare trascinandosi dietro i morenti, uno in coma, un altro appena amputato d’una gamba. L’ufficiale inglese vide quello che aveva tentato il suicidio mentre lo portavano via, e poi udì uno sparo. Il comandante della nave rifiutò di riprendere a bordo i sovietici nel viaggio di ritorno. E tuttavia i trasporti verso il macello continuarono. Le democrazie liberali avevano una parola da mantenere.

Finita la guerra in Europa non ci fu bisogno di navi, bastarono i camion e i treni a compiere l’opera. Il 22 maggio 1945 le commissioni sovietiche e americane per il rimpatrio s’incontrarono a Lipsia. I russi restituivano i prigionieri inglesi, americani e francesi che avevano trovato al lavoro nelle fattorie in Germania Orientale. Gli “alleati” ricambiavano, consegnando non soltanto i russi liberati dai campi di prigionia ma anche quelli che, arresisi in uniforme tedesca, ora imploravano di non essere rimandati in Urss.

Fu allora che le democrazie liberali aggiunsero, alle categorie contemplate a Yalta, quelle che nessun impegno le obbligava a consegnare. Cominciarono con una commedia per i giornalisti: vagoni ferroviari decorati con scritte inneggianti alla «gloriosa madrepatria sovietica», e al «Padre della vittoria, il grande Stalin», vennero a caricare i primi gruppi, e scomparvero dietro la linea di demarcazione. «Nessuno appare riluttante al ritorno», scrissero i giornali americani. L’8 giugno, il generale Bradley espresse un parere più realistico: «Non credo che questa gente abbia molto da vivere».

Irriducibili restarono i Cosacchi che, in unità autonome dentro l’Esercito tedesco, si erano guadagnati alta reputazione sul campo. Nei documenti inglesi, la loro storia comincia il 17 maggio 1945, quando il maresciallo Alexander telefonò a Londra chiedendo come comportarsi con cinquantamila Cosacchi e venticinquemila Croati che si trovavano sul territorio occupato dalle sue truppe. Avvertiva che farli tornare nei Paesi d’origine era fatale per la loro esistenza. Churchill ebbe il consueto quarto d’ora d’anima bella, ma ci pensò a risolvere il problema Harold McMilan, editore versatile e futuro primo ministro , giunto dall’Italia.

Il 29 maggio, Alexander ebbe l’ordine di consegnare i Croati alle missioni di Tito, e i Cosacchi a quelle di Stalin. Fu, per molti soldati inglesi, «Il più disgustoso ordine dell’intera guerra». Gli Atamani dei Cosacchi del Don, generale Pyotr Krasnov, e del Kuban, generale Naumenko, combatterono nell’Armata bianca ed emigrarono nel 1920 in Eurpa occidentale con migliaia di seguaci. Quando la Wehrmacht entrò in Russia, questi uomini, che non accettarono lo Stato sovietico e non ne furono cittadini, organizzarono l’Esercito nazionale cosacco.

Nell’equipaggiamento di base della Wehrmacht, conservarono i colbacchi, le bandoliere, le lunghe spade ricurve, le eleganti sciabole incrostate di pietre preziose, che passavano di padre in figlio nelle famiglie nobili, nei clan.

Quando la Wehrmacht dovette ritirarsi, la disperata nazione la seguì sui carri tradizionali, tirati dai cavalli, e fu sistemata in territorio italiano, tra Tolmezzo e il confine austriaco. La sacca, denominata Cossackia, arrivò a contenere, verso la primavera 1945, trentacinquemila cosacchi, metà soldati e metà civili. All’apparire dell’Ottava armata, che saliva dall’Italia, ripiegarono verso Nord, attraversando il confine con l’Austria al passo di Monte Santacroce, mentre i loro capi trattavano con gli inglesi che, preoccupati di dover domare questa sconosciuta orda orientale, rimasero «piacevolmente sorpresi» apprendendo ch’erano disposti ad arrendersi.

Ancor maggiore fu la sorpresa quando incontrarono i capi caucasici, «dieci dei quali erano principi», d’aspetto fiero e aristocratico. Più tardi circolò voce che capo supremo era un altro, ossia, un’altra: una bella principessa che, scesa dalle montagne , rimproverò i principi d’essersi arresi, usurpando un’autorità che spettava a lei sola. Gli inglesi credevano d’esser piombati in una favola orientale. Seguirono intense trattative. I Cosacchi erano convinti che gli occidentali avrebbero continuato la guerra, contro l’Unione Sovietica. Non avevano la minima idea del destino che li attendeva. Lo stato di servizio anticomunista pareva loro un’ottima presentazione agli “alleati”.

Se, in quei giorni, perfino gli ufficiali superiori inglesi ignoravano ancora gli accordi di Yalta, si può capire chei Cosacchi non fossero informati sulle nuove realtà politiche e militari. Secondo le fonti inglesi il 16 maggio c’erano, nei dintorni di Lienz, ventiduemilanove uomini, quattromilaseicentonovantatré donne e duemilaquattrocentotrentasei bambini, mentre altri quattromilaottocento si erano acquartierati a Oberdrauburg, nell’alta valle della Drava. A pochi chilometri di là erano i Cosacchi del 15° Corpo di Cavalleria del generale Helmut von Pannwitz. E intanto si avvicinava l’alta nazione che aveva combattuto dalla parte sbagliata, settecentomila Croati, tra esercito e popolazione.

I loro capi dissero al generale Scott che cercavano asilo in Occidente perché rifiutavano di vivere sotto il comunismo. Lo supplicarono di riferire al governo inglese. Non potevano imbarcarli per qualche colonia in Africa o in America? Quando capirono che non c’era speranza , accettarono di arrendersi ai commissari comunisti appena arrivati. Scott ricorda il generale croato, «una persona educata, molto corretto, tedesco ei modi». Ne ebbe pietà. Ma gli ordini delle liberaldemocrazie erano chiari: «I Croati erano nemici, i titini gli alleati».

Del ritorno “in patria” s’incaricarono i partigiani della settima brigata jugoslava, che allestirono una serie di “marce della morte”, ciascuna con migliaia d’infelici, legati con i fili spinai e costretti a correre dietro gli aguzzini avanzanti su camion e cavalli. Il problema si risolveva via via che a migliaia, sfigurati, dissanguati, mutilati, finirono sulle strade del martirio.

Liberi del problema croato, restava agli inglesi quello dei Cosacchi che aspettavano calmi, ordinati. Più conoscevano questa gente fiera e più gli inglesi li prendevano in simpatia. Ammiravano la dignità, il comportamento, la loro maestria a cavallo. Un certo maggiore “Rusty” Davies fu incaricato dei collegamenti. Poiché non sapeva cosa significasse l’incarico gli piacque. «Erano magnifica gente, di gran cuore e coraggio». Non sapeva ancora che «ognuno di loro, uomo, donna, bambino, doveva essere consegnato alle autorità sovietiche, lo volesse o no, con la forza se necessario».

Il tenente generale Charles Keightley comandante il Quinto Corpo d’armata e, con speciale zelo, il suo Capo di Stato maggiore, Toby Low, ordinarono: «Nessuno deve scappare». Spiegarono anche che, seppure gli ufficiali superiori cosacchi, vecchi emigrati del 1920, fossero «in teoria» esclusi dalla consegna, la diplomazia inglese si era convinta che, se gli avessero dato anche queste vittime, Stalin, commosso dalla delicatezza, avrebbe tenuto «una linea più moderata» nella conferenza sul futuro della Polonia, che doveva aprirsi il 17 giugno.

I Cosacchi non dovevano sospettare il loro destino. Potevano resistere, combattere, come minacciavano, fino all’ultimo. Bisognava convincerli a cedere le armi. Gli fecero credere che il loro campionario di armamenti tedeschi e russi, italiani e jugoslavi, antiquato ed eterogeneo, era di ostacolo alla formazione della «legione cosacca» di cui parlavano gli inglesi, da impiegarsi chissà dove, forse in Giappone.

Il 26 maggio, a un rapporto di ufficiali superiori, il colonnello Malcom conobbe il suo compito, e inorridì: «Era il rinnegamento di tutto quanto avevamo detto ai Cosacchi…». «Non riuscivo a crederci», ricorda il maggiore Davies, che chiese di essere sostituito. E, invece, doveva restare, gli spiegarono i superiori, proprio per la fiducia che i Cosacchi riponevano in lui: gli avrebbero creduto, e sarebbero caduti nella trappola senza fare storie. E quando se ne fossero accorti, sarebbe stato tardi.

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Pubblicato su Il Giornale del 29 gennaio 1995

L’infamia nella valle della Drava

Disperazione e suicidi in massa fra i prigionieri russi riconsegnati a Stalin

Di Piero Buscarelli

Concluso il disarmo dei Cosacchi poteva cominciare l seconda fase: la separazione degli ufficiali dalle truppe e dalle famiglie, che doveva trasformare l’armata prigioniera in una torma sbandata. Davanti al più abietto tradimento mai consumato da un esercito vincitore verso un altro vinto, la correzione, che abbiamo invocato, sella storia fin qui ricevuta, impone il confronto tra lo zelo servile delle democrazie liberali per compiacere Stalin, e il geloso sentimento della sovranità che sempre indusse i comandi italiani in Francia , nei Balcani, nell’Egeo, a proteggere, col pieno sostegno del governo di Roma, le comunità etniche perseguitate dai tedeschi.

cosacchi_WermachtSe, nell’ultimo tratto della guerra, il governo della Rsi dové subire la sopraffazione dei tedeschi ora occupanti, ciò avvenne perché dai quarantacinque giorni di Badoglio all’8 settembre 1943, ogni sovranità italiana fu dissolta. Mussolini, che così ridotta ritrovava l’Italia dopo due soli mesi, dovette rassegnarsi a strappare isolati lacerti di autonomia all’alleato inferocito, ora padrone. Mai, tuttavia, la Rsi consegnò spontaneamente ai tedeschi i suoi prigionieri.

I fastidiosi esaltatori della civiltà liberaldemocratica anglosassone meglio spenderebbero il loro tempo traendo i necessari paragoni tra la dirittura morale di un governo che, pur ridotto all’impotenza, sempre contese al tracotante alleato le sue poche centinaia di prigionieri, e la voluttà sadica, la spensierata crudeltà, la deliberata fellonia con cui le potentissime democrazie avviarono, a quel che già sapevano certo massacro, due milioni di esseri umani (contando anche i Croati) che avrebbero potuto e dovuto salvare.

Gli ufficiali furono invitati ad una conferenza per comunicazioni che doveva, senza sospetti, farli uscire dai campi. «E’ una deliberata menzogna», protestò Davies, replica, in formato ridotto, dell’anima bella Churchill. Il dubbio si sparge nei campi. Perché i generali inglesi non vengono qui, invece che portar fuori millecinquecento ufficiali per una conferenza? «Poche volte un’autorità inglese decise, così alla leggera, di tante vite umane» dice Tolstoi.

«Niente casi individuali», erano gli ordini, tutti dovevano essere «rimpatriati», anche i Krasnov, gli emigrati anziani, le famiglie, i Cosacchi del generale Domanov a Lienz, quelli di von Pannwitz, del generale Andrej Schkuroi, caucasici del generale Kluch Girey. Si legge con vero orrore il tradimento perpetrato ai danni di von Pannwitz che, ancora nel pieno esercizio del comando, giunse in automobile sul ponte dove i comandanti inglesi lo avevano convocato, senza dirgli ch’era il confine con la zona russa.

La sua vettura passò lentamente e, quando fu dall’altra parte, Pannwitz vide i russi in attesa. Esclamò uno stupefatto «Mein Gott!» e scomparve. Nessuna legge imponeva di consegnarlo, non era richiesto per crimini di guerra; aveva comandato unità russe, ma restava un ufficiale tedesco. La sua vita doveva essere garantita dalla potenza che l’aveva catturato.

La consegna di von Pannwitz ai russi che lo «giustiziarono» fu un premeditato assassinio, un gesto di fellonia di fronte al quale ci si domanda se esista ancora un onore militare britannico. E così la sorte dei mille ufficiali e sottufficiali tedeschi del XV Corpo di Cavalleria. Ne tornarono poche decine.

Uno sconosciuto ufficiale inglese avvertì il principe zu Salm, che così poté far fuggire i duecentocinquanta ufficiali e sottufficiali tedeschi ai suoi ordini. Nei campi dei Cosacchi i sospetti sulla conferenza si scontravano con antichi riguardi. «Abituati a credere alla parola di un ufficiale», scrisse Naumenko, «non potevano sospettare che l’alto comando inglese macchinasse un tale crimine», completa il nipote di Krasnov. «Memori delle tradizioni dell’Armata imperiale, gli ufficiali russi non concepivano un tradimento così vile».

La mattina del 28 maggio un giovane ufficiale, Bluterov, chiese a Davies: «Ho mia moglie e un bambino, e oggi debbo andare a questa conferenza. Vorrei che mi dicesse se torneremo o no». Col solito «orrore» che poi gli passava, Davies rispose di sì. Altrimenti Bluterov avrebbe detto la verità ai suoi camerati. Pochissimi rifiutarono, e all’una del 28 maggio gli equipaggi dei camion trovarono gli ufficiali ponti per la conferenza inesistente. Baciarono le mogli e i ragazzi, si dissero arrivederci e partirono. Erano 1.475.

Uno dei pochi che riuscirono a fuggire, il colonnello Frolov, guadò la colonna: «Un carro armato ogni due o tre camion. Perché quella guardia e perché così forte?». Patito il convoglio scattò la terza fase: preparare i soldati inglesi. Ci pensò il generale Mosson con un proclama: «Secondo gli accordi tra i governi alleati, i cittadini delle Nazioni alleate debbono ritornare ai loro Paesi. Tutti i Cosacchi e i Caucasici nell’area di questa brigata, debbono tornare in Russia (…). Per evitare disordini, gli ufficiali sono stati separati dalle truppe. Uomini, donne e bambini saranno trasportati quando ci saranno camion e treni».

Soldati e sottufficiali potevano cedere all’umana pietà: «Sarà un compito molto difficile (…) Ci sono tante donne e bambini, molti di voi provano simpatia per questa gente. Ricordate che presero le armi a fianco dei tedeschi e combatterono contro i noi, in Italia e su altri fronti (…). I russi intendono mettere questa gente ai lavori campi per rieducarli come buoni cittadini sovietici». Tale sequela di menzogne doveva soffocare i disgusti delle coscienze. Antony Eden non soffriva di queste debolezze. Fin dalla seduta di governo del 3 settembre 1944, aveva detto tranquillo: «Molti di loro andranno alla morte».

A Spittal, una settantina di chilometri a est di Lienz, li ficcarono in una caserma, come in una gabbia. Tutto intorno, la guardia armata, raddoppiata. Un ufficiale cosacco ne domandò il perché a uno inglese, che rispose di non averne idea. Un capitano, Lavers, era responsabile della custodia. Ogni resistenza doveva essere stroncata, con fuoco «per uccidere». I tentativi di suicidio dovevano essere impediti ma se ciò comportasse «il minimo pericolo per le nostre truppe, lasciare che si uccidano».

Molti, che finora non avevano creduto alla loro sorte, constatarono che dalle baracche erano stati tolti tavoli, seggiole, letti, perché non servissero agli aspiranti suicidi. Il vecchio Krasnov passò la notte a scrivere e ricopiare petizioni, in francese, con le ragioni dei Cosacchi che avevano preso le armi contro Stalin: per re Giorgio VI, Churchill, l’arcivescovo di Canterbury, le Nazioni Unite, la Croce Rossa internazionale. Non oltrepassarono il cestino dei rifiuti. Il nobile vegliardo chiese di esser considerato il solo responsabile per il comportamento di tutti i suoi Cosacchi sui campi di battagli.

Nel campo, sorvegliato da torri d’osservazione con mitragliatrici, cominciarono i suicidi. I camerati portarono fuori i corpi e li allinearono sopra coperte presso gl’ingressi del campo, così che gli inglesi li vedessero. Tempo perso. Sorgeva il mattino del 29 maggio 1945 nella verde valle della Drava circondata d’alte montagne, quando, alle 5.30, tre ufficiali cappellani cosacchi chiesero agli inglesi di celebrare la Messa. Gli risposero che facessero pure, ma si sbrigassero in mezz’ora.

A centinaia, generali e ufficiali, si inginocchiarono, molti in lacrime e pregarono il Signore con le canne delle mitragliatrici inglesi puntate addosso. Dagli ufficiali, che Albione aveva condannato a morte, si alzò il coro: «Salva il nostro popolo o Signore». Come uno spettatore soddisfatto, il colonnello Bryar assicura che «la cerimonia fu impressionante, il canto stupendo».

Alle 6.30 arrivarono i camion: uno bloccò la porta. A Bryar, che gli ordinò di far salire i suoi ufficiali, il generale Domanov rispose che non aveva più giurisdizione su loro. Allora, un plotone inglese marciò sui gruppi, cercando i capi. Gli ufficiali superiori sedevano sui pavimenti, le braccia incrociate alle gambe. Li tirarono fuori tra percosse e colpi di baionetta. Disarmati, in maggior parte sopra la sessantina, furono infine gettati sui camion.

I vecchi emigrati, esclusi dalla consegna secondo gli acordi di Yalta, mostravano passaporti e carte, ma Keightley e Low, le più sinistre figure della sanguinosa tregenda, avevano vietato i «casi individuali», perché volevano procurare ai sovietici la gioia di metter le mani su capi così illustri. E fecero di peggio: «Ordinarono alle vittime di mantenere intatte le loro uniformi tedesche con le insegne e i gradi, così che i sovietici non faticassero a riconoscerli». Apparvero, infatti, particolarmente «deliziati» nel mettere le mani sui «principali diavoli del folklore sovietico di venticinque anni, Schkuroi, Krasnov… Tanto più deliziati, in quanto neppure Stalin si era spinto a chiedere la loro consegna. Erano graziosi doni delle liberaldemocrazie alle forche del compare».

Nel campo di Lienz i soldati e le famiglie aspettavano il ritorno degli ufficiali. Qualcuno intuì che li avessero già consegnati, ma Davies negò categoricamente. Solo la mattina del 30, quando erano già in viaggio verso Judemburg, annunciò che non sarebbero ritornati, ma ciò non significava che li avessero consegnati ai sovietici. Erano solo diventati prigionieri di guerra dell’Inghilterra. E se poi fossero stati consegnati agli ufficiali, ciò non voleva dire che anche i soldati, le donne e i bambini dovessero seguire la loro sorte.

La notte in attesa del “ritorno” passò tra l’insonnia e il tormento per i ventimila del campo, sottufficiali, soldati, civili, preti, donne, bambini. «Era vitale tenere nascosta la verità il più a lungo possibile. Non c’erano guardie bastanti a trattenere quella massa, se si fosse ribellata. I cosacchi elessero Ataman pro tempore un savio sottufficiali, molti fuggirono nei boschi e sulle montagne. Si levarono suppliche, le invocazioni di essere uccisi piuttosto che riconsegnati».

Davies sperimentò l’ultimo ricatto: «Se restate calmi, non dividerò le famiglie. Altrimenti, separerò le donne dagli uomini, e i bambini dai genitori». Obbedirono solo per il piacere di morire insieme. E intanto, stabilirono il programma per il giorno fatale. Si sarebbero inginocchiati a pregare sul piazzale del campo, intorno all’altare dove tutti i preti insieme avrebbero celebrato il servizio solenne. Gl’inglesi non avrebbero osato violenze su un popolo in preghiera. Cucirono centinaia di bandiere nere e le appesero sulle tende. Tornarono ai camion, le guardie vennero a prendere i bagagli degli ufficiali consegnati. Dalle mogli disperate accettarono lettere, ormai prive di destinatari.

Il 30 maggio suonò l’ora dei Caucasici, scelti per il primo assalto. Li spinsero sui camion nel solido modo. Erano 1.737. Il 31 maggio fu il turno dei 7.000 Cosacchi di von Pannwitz. Separati dagli altri e totalmente ignari, si lasciarono portar via senza resistere. Nei campi intorno Oberdrauburg, il macello cominciò il 1° giugno, quando gli inglesi avvertirono: era giunta l’ora, si preparassero a partire. I Cosacchi rifiutarono e furono caricati alla baionetta. Si aprivano le giubbe sui petti, invocando che li uccidessero. Alcuni, che cercarono di fuggire, furono assassinati a fucilate. «Fu terribile, dovemmo ficcarli nei treni a colpi di baionetta», raccontò un tale Shaw, che comandava la scorta.

«Nel campo accanto, furono identiche scene; dieci minuti di macello con bastoni, calci di fucile, baionette. Qualcuno aprì il fuoco, tre cosacchi caddero uccisi. Donne incinte furono buttate “come sacchi” sui camion, le ultime resistenze furono spente dal fuoco dei lanciafiamme sulle tende».

Lo “special horror”, come fu chiamato, del campo di Lienz, fu costituito dalla presenza di quattromila donne e duemilacinquecento bambini: un atto di genocidio che significò la liquidazione della nazione cosacca emigrata. Quando finì la recita della danza macabra lungamente preparata, partirono treni che si lasciarono dietro una scia di donne morte o ferite dopo essersi lanciate dai finestrini. La stampa dei paesi «alleati», molto rispettosa dei desideri governativi, non fece parola degl’imbarazzanti avvenimenti.

Prima dell’apertura degli archivi, nel 1972, non c’erano documenti ufficiali. Betel e Tolstoi li hanno pubblicati. Il rapporto del tenente colonnello Malcom comincia: «Alle 7.30 andai nel campo con Davies. Molte migliaia di persone si stringevano in un compatto quadrato, d’ispirazione difensiva primitiva, quasi animali: donne e bambini al centro, gli uomini sui lati, un gruppo da quindici a venti preti con i paramenti sacri, immagini e stendardi religiosi». A un altro testimone, la piattaforma di legno gremita di preti, icone e colorati stendardi, le bandiere nere distese su ogni sostegno disponibile, la folla, i canti, fecero l’effetto di «una scena di carnevale».

Dopo un preavviso di mezz’ora, Davies ordinò di caricare alla baionetta. L’orgia di violenza durò lunghe ore, tra preghiere, canti e mischie selvagge per strappare un gruppo dopo l’altro alla massa. Le cariche si susseguirono mentre la folla pregava e cantava. La scena terribile fu dipinta da un artista sopravvissuto, S.G. Kolkov, per il martirologio cosacco e l’albo d’oro delle liberaldemocrazie.

I suicidi si moltiplicarono. Il flusso rapinoso degli eventi, la scomparsa degli ufficiali, le preghiere infuocate dei preti, il fiammeggiante terrore degli aguzzini sovietici in attesa, tante cause insieme «avevano rimosso in molta di questa gente l’istinto di conservazione». Nelle madri, che portavano con loro alla morte i bambini, agiva una logica della disperazione. Sapevano che sarebbero state uccise o chiuse in campi di concentramento, mentre destino dei piccoli era d’essere allevati ad educati in orfanotrofi di Stato alle ideologie di Marx, Lenin e Stalin, all’odio della religione e dei genitori. Preferirono salvarli da tale sorte morendo con loro.

«Il ricordo più terribile», per Davies, fu un Cosacco che prima uccise ola moglie, i tre figli, e poi se stesso. Davies lo vide, la pistola in mano, dopo ch’ebbe allineato in ordine i suoi cari già uccisi, e non poté d’impedirgli di completare l’opera. A decine fuggivano nei boschi solo per impiccarsi agli alberi. Un altissimo ponte sulla Drava fu la salvezza per molti. Una giovane donna fu vista mentre sui gettava nel fiume con due piccoli bambini in collo. Il grido del più grandicello, «Mamma, ho paura», aveva raggiunto, nella sua Cherso, il padre Bigoni, che me lo ripeté, tal quale si legge in Betel.

In quattr’ore, i bravi soldati di Sua Maestà gettarono sui camion, «come sacchi», e popi sui treni, 1.252 esseri umani. In totale, dai campi della valle della Drava ne furono mandati all’Est, quel giorno, seimilacinquecento. Specialmente raccapriccianti sono le storie di un bimbo di cinque anni, e della figlia, diciassettenne, del sergente Pastryulin. Nei giorni seguenti vennero meno le forze e gli animi. Il 2 giugno furono consegnati 1.858, il 3, furono 1.487.

Quel giorno, domenica, il cappellano cattolico dell’Irish London Regiment fece una predica terribile: «Questa gente sarà uccisa dai comunisti», disse: «Quanto vi hanno fatto fare è una vergogna, per chiunque vi abbia partecipato», e lesse il Vangelo di San Marco, capitolo 6, verso 34: «Vide la moltitudine e ne ebbe compassione, perché erano pecore senza pastore».

Tra suicidi, cariche, fughe, disperazione, la disciplina vacillava. Andavano dal cappellano a chiedere di assolverli da quella «sanguinosa vergogna». Un colonnello, Bredin, avvertì che il morale delle truppe non resisteva a quel lavoro di aguzzini. Ma il 7 giugno, Keightley comunicava soddisfatto che la consegna dei Cosacchi era completata.

Ne aveva deportati trentacinquemila. I sovietici, fatti i loro conti, protestarono che ne mancavano quattromila, fuggiti sui monti. E allora si videro ufficiali sovietici con uniformi inglesi comandare pattuglie che gl’inglesi avevano messo a loro disposizione. Mille e trecentocinquantasei fuggiaschi furono ripresi nelle valli dove i loro cavalli vagavano solitari.

Dopo ch’ebbero consegnato gli ultimi prigionieri riacciuffati, gl’inglesi udirono raffiche di mitraglia in un campo sovietico. Il 3 giugno i generali e gli ufficiali superiori furono portati a Mosca con gli aeroplani. Itreni carichi della nazione tradita percorsero lentamente le pianure dell’Est, il 25 giugno oltrepassarono Kiev, in luglio le province siberiane. A centinaia morirono in viaggio, settemila nel primo anno di prigionia. Solgenitsin poté incontrare piccoli gruppi di superstiti.

Il presente racconto riguarda principalmente la consegna dei Cosacchi concentrati nella valle della Drava, perché tale è l’argomento dei libri di Bethel e Tolstoi, e ragione della condanna del nobiluomo russo. Ma dell’immenso misfatto compiuto, con consapevole determinazione, dalle liberaldemocrazie anglosassoni, l’episodio dei Cosacchi è solo un momento.

Seguì, dal giugno 1945 in poi, la consegna degli altri russi in mano agli americani, dal campo di Fort Dix nel New Jersey, dove i prigionieri si ammutinarono alla vigilia dell’imbarco, le guardie aprirono il fuoco, e ci furono morti e suicidi, fino agli ultimi giorni di agosto; a Kempten, in Baviera, dove si ripeterono le tremende scene, le liturgie ortodosse, le violenze sui prigionieri, le donne, i bambini; al campo di Platting, presso Norimberga, dove Ernst von Salomon vide i carri armati americani circondare il campo nella notte mentre i soldati, armati di mazze di gomma, «s’infiltrarono tra le baracche e si appostarono accanto ai letti dei prigionieri. A un fischio, fecero cadere le mazze, urlando e strepitando, sui dormienti completamente ignudi, li cacciarono fuori incalzandoli con il disgustoso “presto,.presto“, lungo le baracche, e le strade del campo, dove dovettero salire sugli autocarri, e dietro ogni autocarro s’infilò un carro armato…» (Io resto prussiano, pag.858).

Le “operazioni” proseguirono da Dachau a Shônberg, fino all’Italia, dove altri russi si trovavano nei campi della Campania, a Pisa, a Riccione. Nonostante, il 20 febbraio, si levasse la voce di Pio XII, il solo che osasse condannare «il rimpatrio di uomini contro la loro volontà, il rifiuto del diritto d’asilo», i treni della morte con impresari inglesi continuarono a partire in “operazioni” battezzate, con fine ironia, Eastwind, Vento dell’Est. Salirono, i treni carichi, verso Nord. Quando passarono il Po, i prigionieri cominciarono a temere. La vista delle Alpi rese chiaro che andavano a Est. Apparvero i coltelli, cominciarono i suicidi. Ammanettati ai sedili, attraversarono il confine con l’Austria, dove i sovietici li aspettavano.

L’ultimo treno partì da Riccione il 9 maggio 1947. La guerra era finita da due anni. Due anni di una agonia che ora si concludeva nella fine atroce. Nelle persone di massimi e diversi capi, le democrazie liberali anglosassoni non avevano trovato la dignità necessaria a salvare l’ultimo drappello della sterminata schiera di vittime. Anche i miseri ospiti dei campi italiani erano stati lusingati con ogni specie di menzogne. In ogni treno gli inglesi allestirono un vagone mortuario, in cui gettare i cadaveri dei suicidi. Che fare, altrimenti, di loro?

Le democrazie liberali non volevano chiasso sui loro delitti. I sovietici furono avvertiti: se volevano che le consegne continuassero, dovevano impegnarsi ad accettare i morti per vivi, e firmare le ricevute. Non era un impegno da spaventare le polizie di Stalin. S’impegnarono, forse ridendo degli scrupoli di quegli strani alleati.

«Questi prigionieri furono consegnati in maniera perfida, tipica della diplomazia inglese tradizionale». Ora il lettore di Solgenitsin sa che cosa significhino appieno queste righe. Perfida e anche inutile, perché l’ultimo delitto non fruttò all’Inghilterra i benefici che la ragion di Stato riserva ai suoi devoti. Nel suo miserando declino, Lord Avon poté constatare come il compenso alla frode e al delitto fosse mancato

*  *  *

Ai primi di agosto 1986, a Londra, in un’aiuola di Thurloe Palace, di fronte al Victoria and Albert Museum, attrasse la mia attenzione un gruppo di uomini anziani, che i folti baffi grigi indicavano per balcanici, e la bandiera con lo stella a scacchiera bianca e azzurra che ripiegavano mi fece riconoscere per Croati.

Stavano intorno a una stele di pietra terminante in una scultura in bronzo, una raggiera di teste umane affacciatisi da un solo blocco centrale. Una scritta, incisa circolarmente nel pavimento, precisava: «Questa scultura è stata benedetta dal vescovo di Fulham il 2 agosto 1986, per sostituire un precedente cippo, benedetto dal vescovo di Londra il 6 marzo 1982, che fu più tardi distrutto da vandali, ai quali la verità riusciva intollerabile».

La stele fu dedicata «alle vittime di Yalta», ossia «alla memoria degli innumerevoli innocenti, uomini, donne, bambini, provenienti dall’Unione sovietica e dagli Stati dell’Europa Orientale, che vennero imprigionati e morirono nelle mani dei governi comunisti, dopo essere stati rimpatriati a conclusione della seconda guerra mondiale. Possano riposare in pace». Nel loro nome e ricordo, invochiamo dalla Corte di Strasburgo che voglia aprire le vie alla revisione della condanna del conte Tolstoi

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1943 L’estate delle tre tavolette di Franco Bandini
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