Cardinale Van Thuân
Newsletter n.527 del 3 settembre 2014
Intervista al Prof. Danilo Castellano.
di Samuele Cecotti
Che la famiglia sia sotto attacco è di grande evidenza, non solo in Italia ma in tutta Europa e in tutto l’Occidente. La mentalità divorzista ha ormai trionfato ovunque e si fa strada, rapidamente quanto violentemente, lo scardinamento dello stesso principio di eterosessualità dei coniugi/genitori. Si parla così, anche in sede legislativa, di matrimonio gay e di “omogenitorialità”. La monogamia è superata dalla poligamia/poliandria successiva consentita dalla legislazione divorzista e ogni giorno si aprono spiragli alla stessa poligamia/poliandria simultanea, magari nella forma del così detto “poliamore”.
Lo stesso mondo cattolico sembra confuso e disorientato, i dati emersi dalla consultazione propedeutica ai lavori preparatori dei due Sinodi sulla famiglia e registrati nell’Instrumentum laboris fotografano una popolazione cattolica che, in molta parte, ignora l’abc della dottrina morale e spesso vive in aperto contrasto con l’etica sessuale e familiare cristiana.
A ben vedere, la fotografia dice un deficit di ragione, prima ancora che di fede. Infatti ad essere negate, contraddette o semplicemente ignorate sono le più elementari verità della legge naturale conoscibile da ogni uomo attraverso l’uso della ragione.
Ne abbiamo parlato con il professor Danilo Castellano, ordinario di Filosofia del Diritto e della Politica e già Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine, forse (come è stato definito) il maggiore esponente della giusfilosofia tomista in campo accademico. Allievo del grande intellettuale cattolico Augusto Del Noce, membro delle prestigiose Reali Accademie di Spagna, quella per le Scienze Morali e Politiche e quella di Giurisprudenza e Legislazione, con circa quattrocento pubblicazioni scientifiche, è certamente una delle persone più indicate per offrire a noi e ai lettori un po’ di chiarezza in materia tanto importante e delicata.
Professore, la recente approvazione del così detto “divorzio breve” si inserisce in un processo ideologico-legislativo che ha nell’introduzione del divorzio e nella riforma del diritto di famiglia gli antecedenti. Potrebbe aiutarci a capire la natura di simile processo?
Certamente un filo di Arianna lega ideologicamente le novazioni legislative repubblicane in materia di diritto di famiglia. Le loro premesse stanno, però, nella Costituzione. L’Assemblea costituente, infatti, ha approvato il testo dell’art. 29 sopprimendo l’aggettivo «indissolubile» contenuto nel testo del Progetto. Diversi deputati democristiani alla Costituente furono assenti nella notte in cui venne approvato questo articolo.
Le assenze non erano casuali. Erano state concordate soprattutto con il PCI, il quale si era impegnato a votare l’attuale art. 7. Ciò era frutto di una illusione. Si disse, infatti, che l’aggettivo «indissolubile» del testo dell’art. 29 proposto era pleonastico, poiché con l’approvazione dell’art. 7 venivano «costituzionalizzati» i Patti Lateranensi del 1929. Come dimostra la storia repubblicana e soprattutto la giurisprudenza della Corte costituzionale l’art. 7 non «recepisce», invece, affatto il «contenuto» dei Patti Lateranensi (in palese contrasto con i principî costituzionali), ma semplicemente il sistema pattizio, vale a dire la procedura della loro eventuale revisione (come è avvenuto, per esempio, nel 1984).
Quello che più ancora ha inciso per le novazioni in materia di diritto di famiglia sono la definizione di persona (identificata con la sua volontà) e quella di eguaglianza (illuministica) accolte nella Costituzione della Repubblica (parzialmente anche nell’art. 29). Dunque, la legge n. 898/1970, confermata con referendum nel 1974, come la legge n. 159/1975 danno applicazione alla Costituzione; non sono in contrasto con essa. Così anche il «divorzio breve» e prima ancora la legge n. 164/1982 che, in taluni casi, consente di «conservare» il matrimonio regolarmente e validamente contratto anche in presenza del successivo cambiamento di sesso di uno dei due coniugi.
Sembra che ad essere in gioco sia la natura stessa del matrimonio. C’è una natura del matrimonio? Oppure il matrimonio è ciò che la norma civile dice che sia così che ogni Stato potrebbe definirlo a suo arbitrio?
Oggi siamo ben oltre la vecchia dottrina positivistica in tema di matrimonio. Questa considerava contraddittorio definire il matrimonio un istituto «naturale». Basterebbe pensare, a questo proposito, al memorabile intervento di Calamandrei in sede di dibattito generale all’Assemblea costituente. Oggi, anche parte della cultura che si autodefinisce «cattolica», sostiene che non è legittimo parlare della natura delle «cose». Quindi anche il matrimonio si sottrarrebbe alle «regole» della sua essenza.
Esso starebbe tutto e solo nel progetto (individuale o collettivo). Un positivismo sociologico-volontaristico lo sorreggerebbe. L’istituto del matrimonio sarebbe il prodotto della pura convenzione, una delle tante «scelte condivise». La posizione più radicale e più coerente (anche se assurda) lo ritiene una «scelta» di fatto spettante alla coppia: fino a quando questa esiste, esiste anche il matrimonio; quando questa viene meno, verrebbe meno anche il matrimonio.
Quali sono, dunque, le proprietà essenziali del matrimonio senza le quali semplicemente non si dà vero matrimonio?
Qualche anno fa fui invitato da una Università spagnola (la San Pablo-Ceu di Madrid) a parlare su questo tema. Ritenni opportuno, allora, per spiegare le proprietà essenziali del matrimonio, commentare la definizione aristotelica di famiglia, cioè prendere in considerazione il pensiero di un filosofo pre-cristiano, al fine di evitare possibili «interferenze» fideistiche. Il matrimonio si presenta necessariamente come eterosessuale, monogamico, indissolubile, unitario, sussidiario. Ho dato, credo, la giustificazione di queste caratteristiche nel testo della relazione, pubblicata anche in italiano (cfr. Instaurare, Udine, n. 1/2012).
Se l’indissolubilità del vincolo matrimoniale non è un dato di fede ma di ragione e riguarda tutti i matrimoni perché siano veri matrimoni, il divorzio, prima ancora che contrario all’insegnamento di Cristo, è allora irrazionale e antigiuridico? Ma allora, data l’attuale legislazione in Italia e in Occidente, si può parlare ancora di matrimonio oppure si dovrà, amaramente, constatare che ciò che è chiamato matrimonio dalla legge in realtà non lo è?
Non c’è dubbio: l’introduzione dell’istituto del divorzio nell’ordinamento «giuridico» comporta simultaneamente l’espulsione dell’istituto del matrimonio, mantenuto come tale solo nominalisticamente. È stato osservato, infatti, che mantenere la legge n. 898/1970, cioè il divorzio, significa impedire a chiunque di contrarre matrimonio.
La tesi sembra singolare. Essa, però, ha un fondamento, perché a nessuno in ultima analisi è concesso di obbligarsi giuridicamente se si ammette il divorzio, cioè la possibilità di «liberarsi» dalle obbligazioni liberamente assunte. Lo sostenne già Platone, osservando che ci si può sposare solamente in virtù della legge (da intendersi non come sola norma positiva). Il fatto è che l’istituto del divorzio, sia pure con limiti puramente procedurali, consente di rimanere uniti solamente se lo si vuole. «Liberi di rimanere uniti» affermava, infatti, uno slogan divorzista nel 1974. Come dire che le obbligazioni si contraggono ma si possono porre nel nulla ad nutum. Cosa che, giustamente, non è consentita nemmeno per obbligazioni contrattuali come, per esempio, la compravendita.
La proposta Cirinnà al vaglio del Parlamento prevede il riconoscimento delle coppie omosessuali attraverso la creazione di unioni civili assimilate de facto al matrimonio. In molti Paesi poi si ha già il così detto “matrimonio gay”. Che cosa ci può dire al riguardo alla luce dell’etica naturale e della scienza giuridica?
La proposta Cirinnà altro non fa che portare avanti (coerentemente anche se assurdamente) la ratio che sta a presunto fondamento del divorzio: il matrimonio non ha una sua essenza e finalità naturali ma dipende dalla volontà degli esseri umani. La sua convenzionalità consentirebbe di attribuirgli qualsiasi fine.
Lo sostenne, per esempio, sul piano teorico in Italia Bobbio; lo realizzò, ancora per esempio, in Spagna a livello legislativo Zapatero. Al fondo sta l’assunzione della libertà come libertà negativa, vale a dire di quella libertà (luciferina) che per essere tale rivendica il suo esercizio sulla base della sola libertà, cioè con nessun criterio. È il vecchio e assurdo sogno della gnosi che deve «respingere» l’etica e la stessa giuridicità, trasformate rispettivamente in mero costume e in sola effettività.
Si parla sempre più spesso di “famiglie” al plurale facendo seguire la più varia aggettivazione – la famiglia sarebbe, di volta in volta, tradizionale, arcobaleno, aperta, allargata, etc. – così da perdere completamente il senso di che cosa sia la famiglia. Ci può spiegare in che senso, invece, la famiglia è società di diritto naturale?
Bisogna fare almeno due distinzioni: una riguarda il matrimonio e la famiglia; la seconda i modelli storico-sociologici di famiglia. Per quanto riguarda i modelli di famiglia vanno considerate le epoche storiche, i problemi legati alle circostanze, le forme organizzative dipendenti da necessità da soddisfare. La famiglia, pur conservando la sua natura, può essere, pertanto, «tribale», patriarcale, nucleare, etc..
Oggi, però, si attribuisce un significato «sovversivo» alle qualificazioni della famiglia. In altre parole, non vengono in considerazione elementi contingenti di una realtà «naturale» ma si pretende di definire famiglia ciò che famiglia non è. Tanto più che – e questo riguarda la prima distinzione – si è fatto «saltare» il matrimonio, il quale non è più il «nucleo» della famiglia. Nell’effettività sociologica e «giuridica» occidentale contemporanea la famiglia secondo l’ordine naturale è un ricordo.
Che cosa significhi che il matrimonio e la famiglia sono di ordine naturale è presto detto, anche se troppo brevemente detto: sono realtà rispettivamente cui la natura inclina (matrimonio), anche se ad esso si dà vita liberamente, e il «luogo» (la famiglia) in cui la donazione avvenuta con il matrimonio trova realizzazione o, meglio, in cui essa è resa realmente possibile. È per questo che nel matrimonio (a differenza delle unioni di fatto) l’amore si traduce in impegno morale e giuridico allo stesso tempo.
Davanti a questo assurdo gioco linguistico dove le parole (famiglia, matrimonio, paternità e maternità, etc.) perdono ogni significato e la legislazione pretende essa stessa di ridefinire la realtà, che cosa devono fare i cattolici e quanti si ostinano a usare la ragione per contribuire al bene comune?
Dobbiamo, purtroppo, constatare l’assenza e, spesso, la subordinazione della cultura cattolica alla cultura gnostica, sia essa quella della modernità o della postmodernità. La prima cosa richiesta ai cattolici, pertanto, è quella di cambiare paradigma. Va abbandonata ogni forma di «clericalismo» ossia il metodo che porta a tentare di battezzare tutto (anche ciò che non può essere battezzato), convinti di aver fatto, così, opera di cristianizzazione
Una seconda constatazione, poi, si impone: per quel che riguarda il bene comune regnano confusione e disorientamento. Esso non è considerato, nemmeno dalla cultura cattolica, il bene proprio di ogni uomo in quanto uomo e, perciò, bene comune a tutti gli uomini. Il bene comune, infatti, è erroneamente identificato talvolta con il bene pubblico, talvolta con il bene privato. Anche quando esso viene considerato come l’insieme delle condizioni che favoriscono il processo di perfezione dell’essere umano, il bene comune è identificato con elementi assolutamente «esterni» all’uomo. Soprattutto i cattolici debbono abbandonare questi errori.
I cattolici, infatti, sono chiamati ad essere «luce del mondo», in particolare nei momenti oscuri e difficili dell’umanità.