Gli elettori in nero

Da Il Sabato n.43 –

28 Ottobre 1989

Firenze. I senegalesi godono di privilegi negati agli altri immigrati. Perché a sostenerli è il Pci. In vista delle amministrative ’90.

Massimo Romanò

«Una piazza agli africani? Noi non la vogliamo, è un ghetto. Questo è solo razzismo alla rovescia». Derres Araià, eritreo, e Osman Gaal, somalo, lanciano la loro accusa contro il Pci. E non parlano solo per loro: parlano anche a nome di capoverdiani, egiziani, togolesi, nigeriani. Fanno parte del popolo africano ma nessuno di loro è mai stato interpellato; per questo oggi si sentono presi in giro, offesi dalla stravaganza di Graziano Cioni, assessore comunista.

Cioni, insieme al vicesindaco socialdemocratico Nicola Cariglia, ha proposto una iniziativa che si chiama proprio così: «Una piazza agli africani». A Firenze non si parla d’altro da mesi e la discussione ha coinvolto tutti: partiti politici, Chiesa, commercianti, associazioni di volontariato. Ma cosa ha proposto di tanto eclatante l’assessore Cioni?

Semplicemente di riservare una piazza «fuori dal centro storico, ma non molto distante da esso, al mercato multicolore dei venditori senegalesi, facendo convergere decine di ambulanti, suonatori, musici e astrologi». Con alcune limitazioni: «Il numero dei posti sarà definito e non saranno tollerati sconfinamenti».

«Una vera e propria gabbia in cui rinchiudere i diversi in maniera che non diano fastidio ai turisti» commentano oggi Araià e Gaal. Ma alla base della stravaganza di Cioni c’è un vero e proprio patto di ferro: quello tra il Pci e i senegalesi. Un patto antico, un’amicizia di lunga data: i senegalesi a Firenze sono quasi tutti iscritti al Pci, o loro ambasciatori in Italia si incontrano spesso con il vicesindaco comunista Michele Ventura. Molti di loro sono stati messi in posti chiave del Pci e della Cgil.

Uno di loro, Tutu Coundul, attivista della Filcam-Cgil (la federazione dei commercianti), siede anche, per conto del Pci, nella Commissione regionale  per l’immigrazione.

I senegalesi, secondo un accordo stipulato fra i due Paesi, possono entrare in Italia senza visto d’ingresso e quindi è facile prevedere che il loro afflusso nelle nostre città non conoscerà soste. Se a tutto questo si aggiunge che la prossima legge sugli stranieri prevede il diritto di voto alle amministrative per gli stranieri residenti, si può capire il perché di tanta attenzione del Pci verso questo gruppo.

Graziano Cioni

La storia del patto di ferro comincia in un’afosa serata di luglio. Il 27 per l’esattezza. Le migliaia di stranieri si sono da tempo divise la città: i senegalesi in via Calzaiuoli, i marocchini a Borgo Sam Lorenzo, i mediorientali in piazza Santa Maria.

Firenze mal sopporta l’invasione ed è così che l’assessore Cioni ordina in blitz nel centro storico. I vu’ cumprà vengono scacciati dai vigili urbani. Il primo agosto, mentre sindaco e giunta sono già con le valigie in mano, Cioni fa scoppiare la bomba in un’affollata assemblea, composta naturalmente solo da senegalesi, l’assessore promette ad alta voce: «O vi si trova un’alternativa , oppure in via dei Calzaiuoli vi ci riaccompagno io».

Cioni, dopo essere stato costretto a quel blitz si era velocemente reso conto che il patto di ferro con i senegalesi poteva subire un pericoloso scossone. «Tu ci hai mandato i vigili per farci cacciare dal centro», gli avevano detto, «e tu ora devi dirci come facciamo a mangiare».

Cioni un’idea ce l’ha e la butta lì per placare gli animi. E’ una vecchia proposta che risale al maggio: vietiamo il commercio nelle strade e nelle piazze del centro, ma concediamo ai senegalesi alcuni luoghi dove poter vendere i prodotti artigianali dei propri Paesi. In alternativa a questo, diamo loro posti di lavoro per la pulizia delle aree dei mercati o per la raccolta differenziata dei rifiuti.

Non passano neppure ventiquattr’ore e i commercianti insorgono: «Regalare delle piazze ai senegalesi» dichiarano in un documento, «sarebbe un provvedimento inaccettabile, fonte soltanto di gravi tensioni sociali». E’ solo in primo avviso della guerra che sta per scoppiare.

Il 5 agosto l’appello di Cioni sembra trovare qualche risposta. Arrivano quindici offerte di lavoro per lavapiatti e spazzini. Non è il massimo. Dichiara oggi Fallou Fastyer, senegalese simpatizzante del Pci: «Finora la nostra comunità è rimasta totalmente estranea al mercato della droga ma se ci negano il pane, quanti potrebbero fare questo passo?»

Il 7 agosto Cioni spara un’altra cartuccia: «Affidiamo ai senegalesi la pulizia della città e del centro storico». Come si vede l’accento resta sempre su quell’unico gruppo di immigrati, anche se Cioni ogni tanto allarga l’area di interesse a tutto il popolo africano.

Ed è forse per questo che i rappresentanti delle altre comunità africane stilano un comunicato: «Vogliamo precisare di non essere mai stati informati delle iniziative comunali, né di esserne interessati. Una piazza non può certo risolvere problemi di gran lunga più urgenti da noi molte volte sottolineati e mai presi in considerazione».

La polemica monta: l’assessore comunista e il suo compagno di strada socialdemocratico non sanno più che fare, se non sparare una proposta al giorno. Ed è così che si arriva alla mattina dell’8 agosto. All’alba Cioni e Cariglia arrivano al caffè Paszkosky. Accompagnano il giovane senegalese Abdoulaye Mobodj come fosse il primo giorno di scuola, al suo nuovo lavoro. Il mitico caffè ha deciso di assumere un africano e così i fotografi possono immortalare i due vip che si fanno servire dall’ex vu’ cumprà, ora in livrea bianca con bottoncini dorati.

L’avvenimento, immortalato pure dalla Tv di Stato, attira anche le ironie. C’è chi la commenta così: «Sembrava un rito da Foro Boario, dove il nuovo acquisto si fa vedere ai padroni e agli amici del fattore». Solo La Repubblica titola trionfale: «Firenze volta pagina. Il caffè dei vip assume cameriere nero».

Ma è il 9 agosto che Cioni spara la cartuccia che, nelle sue intenzioni, dovrebbe smorzare ogni polemica: «Una piazza per gli africani». La Dc commenta: «Se il problema non fosse serio, ci sarebbe solo da ridere» E il Psi invita a non prendere decisioni affrettate.

Commenta oggi al Sabato il socialista Gianni Bonini: «Siamo sempre stati contro l’ideologizzazione cattocomunista del razzismo. Vogliamo invece che la struttura pubblica operi sul territorio per appoggiare e sostenere il volontariato». L’invito alla calma del Psi, però, non serve.

Come non serve la sberla ricevuta dalla comunità senegalese di Livorno: «I metodi di Cioni» scrivono «ci sembrano demagogici e paternalistici. Una piazza per gli africani, una specie di zoo dove confinare tutti i vu’ cumprà da proporre ai turisti. E’ il razzismo alla rovescia». Nonostante tutto Cioni e Cariglia continuano la crociata. Anche perché l’11 agosto ricevono in inaspettato quanto gradito dono.

Il cardinale Silvano Piovanelli, nella tradizionale omelia della festa di San Lorenzo, definisce le proposte del Comune «segnali positivi, passi nella direzione giusta». Cioni è raggiante. Il giorno dopo fa stampare 700 volantini con il discorso di Piovanelli e li distribuisce ai vigili urbani: «Rispondo con le sue parole alle polemiche».

E la sera, in compagnia di Cariglia e di un gruppetto di senegalesi, si ritrova nel ristorantino della casa del Popolo. Fra una portata di pollo e una di pesce, sorridono e commentano: «Questa cena è benedetta nientemeno che dal cardinale. A lui brindiamo stasera».

Il giorno dopo l’Unità titola: «Cardinale e Pci dalla parte degli immigrati». Per Cioni è una vera boccata d’ossigeno. Il problema evidentemente è anche politico. La giunta deve decidere, ma il Psi chiede tempo.

Il vicesindaco Eugenio Giani spara: «Il Pci pensa ai senegalesi come potenziale massa di voti in vista di elezioni amministrative». Gli ultimi giorni di agosto passano veloci, ma al rientro delle ferie la polemica riesplode. Il primo ad intervenire è il democristiano Raffaele Tiscar, consigliere in Comune: «Non serve a nulla dare una piazza ai senegalesi e dibattersi su questioni che non hanno nulla a che fare con la soluzione dei gravi problemi degli immigrati. In questo modo si rischia di creare un ghetto e di esacerbare gli animi».

Ma sono soprattutto le altre comunità africane a sentirsi vittime di uno strano gioco di razzismo alla rovescia. Oggi Deres Araià e Osman Gaal, a nome delle altre comunità di immigrati extracomunitari – eritrei somali, capoverdiani, egiziani, togolesi, nigeriani – stanno preparando un documento.

«Vogliamo gridare che l’Africa non è solo il Senegal. Ci siamo anche noi a Firenze: 14mila africani che nessuno ha mai interpellato quali destinatari di una piazza. Noi non la vogliamo perché è in ghetto. E’ razzismo, magari mascherato. E poi bisogna essere concreti. Chi ora vende merce contraffatta, accetterà di vendere prodotti artigianali? No, perché gli elefantini d’avorio non vanno a ruba come le Lacost. Così invece l’identificazione dell’africano come vu’ cumprà non morirà mai. La piazza serve solo a chi vuole dimostrare a tutti i costi di lavorare per gli africani, ai commercianti, che si libereranno di “pericolosi” concorrenti, e alla camorra, che finalmente vedrà operare un suo mercato di smercio, sotto l’ala protettrice della legalità».

Tranne i senegalesi, tutti contro il Pci. Adesso Cioni dovrà rispondere alle accuse degli altri africani, mentre la sua proposta è bloccata in giunta. Lo stravagante assessore non demorde, ma, per ora, non può fare altro che cercare conforto con un aperitivo al caffè Paszkosky.

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Casa Santa Lucia Ma il Comune a noi non dà niente

Mentre in città continua ad infuriare la polemica contro il Pci, alla casa d’accoglienza Santa Lucia è un andirivieni continuo di donne eritree, somale, filippine. «Il Comune non ci ha mai dato una lira. Semplicemente paga l’affitto di queste stanze. Un affitto che pagava già e che avrebbe dovuto continuare a pagare lo stesso. Con la prospettiva, il prossimo anno, dello sfratto».

In questa casa si accolgono quasi esclusivamente ragazze madri e qualche anziana. Bussano di giorno e di notte con i loro bambini in braccio, sapendo bene che, a Firenze, solo lì e dalle suore di Madre Teresa c’è la possibilità di essere accolte. Mentre se si rivolgessero alla struttura pubblica, dovrebbero attendere settimane per una risposta.

Dalla casa Santa Lucia in quest’ultimo anno sono passate 198 donne e 32 bambini. Gran parte di loro ha trovato un lavoro e quindi ha potuto sistemarsi anche in una casa propria. «Il Pci si è fatto pubblicità perché ha trovato un posto come cameriere» spiega Irene Lampicella.

«E’ questo che non riusciamo a capire. Per noi incontrare questa gente vuol dire compromettersi completamente con la loro vita, senza scegliere con chi stare e con chi no. Per il Pci non è così; la piazza agli africani è solo il primo passo verso l’urna di voto. Sanno perfettamente di poter giocare sui senegalesi perché è gente che non ha nulla da perdere».

Il rapporto fra associazioni di volontariato come la casa Santa Lucia e il Comune è sempre stato nullo, nonostante rappresentino l’unica realtà che risponde radicalmente ai bisogni degli immigrati extracomunitari. Chi arriva in questa casa può fermarsi per un tempo limitato, quanto basta per ambientarsi e per trovare un lavoro.

Spesso hanno il problema di sistemare i figli, quasi sempre in tenera età. E’ per questo che la casa Santa Lucia ha aperto anche un asilo dove si prende cura dei bambini degli immigrati.

«Anche qui sta la differenza tra noi e il Pci» continua Irene. «Le donne per usufruire dell’asilo versano una somma simbolica. Questo perché chi lavora è giusto che paghino anche se una somma minima. E’ un modo per costruirsi una responsabilità. L’assistenzialismo, come quello del Pci, per cui agli stranieri tutto è dovuto, è razzismo. Se i comunisti pensano che noi siamo delle brave donnine che fanno del bene, si sbagliano. Noi affrontiamo radicalmente il problema: dal vitto all’alloggio, al lavoro, alle medicine. Di più non possiamo fare perché nessuno ci sostiene. Na se qualcuno vuole metterci a disposizione una struttura siamo anche disposte a fare una mensa».

E per fare un esempio dell’indifferenza del Pci rispetto alle iniziative del volontariato, Irene cita un episodio: «Abbiamo chiesto dei locali nuovi per l’asilo, perché le richieste sono cresciute enormemente. Ci sono state proposte due stanze con la promessa che entro l’estate le avrebbero messe a disposizione. Oggi ci fanno sapere che tutto è rimandato a gennaio. E giorno dopo giorno, alle difficoltà si sommano altre difficoltà»