7 Agosto 2019
“Smettiamola di fingere, di difenderci e di giustificarci: ciò che noi vogliamo creare è precisamente un Superstato socialista europeo”, ha detto l’eurodeputato socialista David Martin vent’anni fa. Era lo stesso progetto coltivato anche da Mussolini (socialista mai pentito) fino ai suoi ultimi giorni di vita. Ed è una camicia di forza per le nazioni
di Saverio Agnoli
Molti anni fa un quotidiano segnalava ai suoi lettori una frase dei primi anni 2000 del deputato eurosocialista David Martin, una frase che merita di passare alla storia: “Smettiamola di fingere, di difenderci e di giustificarci: ciò che noi vogliamo creare è precisamente un Superstato socialista europeo”.
Nulla di realmente nuovo, in effetti: questa idea era già presente anche nell’orizzonte socialista, con venature mazziniane, dell’uomo di Predappio. Nel ’45, al termine della sua parabola, Mussolini aveva ripreso le fila di un ragionamento solo apparentemente interrotto, vagheggiando un nuovo ordine continentale: un’«Unione socialista di tutti gli Stati europei».
I suoi compagni – la stragrande maggioranza – non avevano mai inteso la scaltrezza camaleontica del direttore dell’Avanti, che nel 1914, espulso dal partito, li aveva ammoniti: non vi basterà stracciare la mia tessera, perché io resterò socialista. Ed in effetti il mito di un ritorno ad un’internazionale socialista era talmente radicato nell’orizzonte politico del Duce, da prendere corpo all’apogeo del fascismo – nel ‘33 – nel famoso film Camicia nera.
In quel lungometraggio uno degli attori, alludendo con enfasi messianica ad un futuro sovranazionale, fa chiaramente intendere che il socialismo non è morto e cita una vecchia frase dello stesso Mussolini: «noi socialisti» abbiamo fallito perché abbiamo ritenuto prematuramente di avere superato le Nazioni, l’Internazionale non le ha mai considerate; non è dunque ancora giunto il tempo di una nuova internazionale, ma (è implicito) verrà.
Non per nulla sin da giovanissimo Benito, a dispetto delle sue irrequietezze sovversive – così impellenti da spingerlo ad aggirarsi per le strade recitando l’Inno a Satana del Carducci – aveva interiorizzato la necessità di coltivare «la virtù dell’attesa». Se è vero – ammoniva infatti nel 1902 – che con una mina di dinamite si può far saltare in dieci minuti un conglomerato roccioso giacente da secoli, è anche vero che non è la stessa cosa far saltare un conglomerato di istituzioni secolari.
Avremo un’Europa unita – preconizzerà tre decenni dopo conversando con Emil Ludwig – ma è ancora presto: servono prima altre rivoluzioni, altre crisi. Il Duce aveva cioè compreso quello che nella sua foga totalitaria e maldestra l’internazionale massimalista non ha mai capito: la necessità di una rivoluzione graduale e condivisa. Condivisa, o almeno non rozzamente imposta.
Suo malgrado, infatti, non aveva potuto ignorare che si doveva trovare un modus vivendi con il mondo cattolico: si trattava di cedere solo in apparenza, ponendo Cristo sotto il giogo del fascismo. E si doveva individuare una ragionevole alleanza con il mondo liberale, nella consapevolezza – che Mussolini aveva – del fatto che la Rivoluzione borghese del 1789, illuminista e liberale, era stata la fase storicamente pregnante di un percorso che introduceva il socialismo. Un crocevia da cui si dipanano liberalismo e socialismo: dai lumi, sino al protocomunista Hebért.
La Chiesa, in particolare, ma a tratti anche membri di assoluto spicco del socialismo dell’epoca prefascista – uno Gnocchi Viani ad esempio – rammentavano infatti, su fronti contrapposti, l’esistenza di un rapporto di continuità fra il pensiero liberale e quello socialista. Certo, non è banale vagliare le simmetrie delle categorie del passato rispetto all’oggi, eppure non c’è dubbio che questi ideali-cardine dell’era moderna e contemporanea siano sopravvissuti nel tempo.
Non casualmente l’europeismo, ispirandosi al 1789, varerà circa due secoli dopo la Convenzione europea, incubatoio della Costituzione europea degli anni 2000: una scimmiottatura della Convenzione rivoluzionaria francese, presieduta da Giscard d’Estaing, di area liberalconservatrice, con a latere – vicepresidente forte – il socialista Giuliano Amato, in rappresentanza della frazione progressista. La Costituzione europea, bocciata alla metà del primo decennio del XXI secolo, verrà in buona parte fatta confluire forzosamente nel Trattato di Lisbona.
Giungiamo così al più prosaico presente. Al momento si può solo constatare che nell’ipertrofica, indecorosa Supercostituzione unionista sono contenuti principi devastanti, in parte ancora in sonno (Tue e Tfue, allegati, protocolli). I Trattati statuiscono che l’Ue crea uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Ebbene, questi pochi concetti riassumono la ragion d’essere stessa degli Stati. L’UE è invero un Superstato con competenze potenzialmente e progressivamente estese ad ogni settore del diritto: diritto dell’economia, diritto penale, civile, internazionale, amministrativo, diritto processuale, libera circolazione delle decisioni giudiziarie, procura europea…
Un Superstato che si sta fagocitando – in una mitologia inversa – i suoi genitori, così come Crono divorava i suoi figli. La stessa terminologia tipica del diritto regionale che definisce le competenze UE e quelle nazionali (competenze esclusive e concorrenti), comprova l’involuzione degli Stati in province di un impero. Esaminando il gioco delle connessioni ci si accorge poi che principi più tranquillizzanti, professati in una norma, acquistano ora un’efficacia devastante in un’altra disposizione unionista; ora vengono persino sovvertiti. C’è di tutto nei Trattati e nelle loro appendici essenziali: persino lo strutto e le frattaglie.
A cosa pensavano i nostri parlamentari quando hanno ratificato Lisbona? Interrogativo, questo, che vale per molto prima di Lisbona. Si sono accorti, i Nostri, che l’Unione parla di sussidiarietà mentre in effetti si espande a macchia d’olio in una prospettiva imperiale; che la democrazia unionista non è mai stata una democrazia parlamentare? Che è così simile all’URSS, come fra gli altri va predicando inascoltato da parecchi lustri l’ex dissidente sovietico Vladimir Bukovsky?
La rivoluzione laburista, come quella liberal-liberista d’altronde, si impone con forme specifiche di forza, di violenza: il consenso è tutt’al più una pezza di appoggio. Ed infatti ad oggi gli eurocrati possono fregarsi le zampe: i popoli chiusi fra le sbarre che discutono sterilmente sulla propria collocazione nella gabbia, o tutt’al più sull’ora d’aria, non hanno serie aspettative di libertà. Non c’è speranza di redenzione per l’Europa se si condivide implicitamente lo status quo, genesi di ogni eurocrazia.
«Le leve del potere», lo ha ricordato Stefano Feltri suscitando un nero sorriso di approvazione in Mario Monti, non sono più nelle mani degli Stati, ma si trovano «ormai inesorabilmente altrove». Ne consegue che la «provincia ribelle» Italia – definizione illuminante del sorosiano Federico Fubini – è sotto tiro. Sarà dunque questo il primo germe della libertà: acquisire un’autentica consapevolezza dell’immane capacità coercitiva della camicia di forza di Lisbona