L’intervento profetico di Pio XII nel contesto europeo alla vigilia della guerra mondiale
di Roberto Pertici
Fino ad allora Hitler — sia pure con una spregiudicatezza e un’ostentazione di forza assolutamente inedite — non si era in fondo distaccato da una politica «revisionistica» del trattato di Versailles, alla quale praticamente tutta l’opinione pubblica tedesca si era mostrata favorevole fin dagli anni Venti.
Gli stessi partiti che avevano appoggiato la repubblica di Weimar avevano giudicato quel trattato un diktat ingiusto e punitivo: fra l’altro, esso aveva distaccato dalla madrepatria un gran numero di tedeschi, che ora si ritrovavano nella non invidiabile posizione di «minoranze etniche» nei paesi confinanti.
La classe dirigente della repubblica — si pensi all’azione internazionale del ministro degli Esteri Gustav Stresemann — aveva cercato di precostituire un terreno favorevole alla revisione del trattato attraverso il ritorno della Germania nel club delle grandi potenze europee, il suo ingresso nella Società delle Nazioni, una politica di accordo con la Francia, addirittura col vagheggiamento di una futura federazione europea: insomma con una politica estera «democratica» e «societaria».
Dopo la sua Machtergreifung («presa del potere») all’inizio del 1933, Hitler ne aveva adottata una ben diversa (uno dei suoi primi atti era stato proprio l’abbandono della Società delle Nazioni), basata sul riarmo, sulla minaccia della guerra, sul ricorso alle vie di fatto: si deve riconoscere che essa gli aveva procurato un successo dopo l’altro (riannessione plebiscitaria della Saar, rimilitarizzazione della Renania, Anschluss dell’Austria), ingigantendone l’immagine nell’opinione pubblica tedesca, ma anche al di fuori della Germania.
Questa serie di successi era stata resa possibile anche dalla risposta delle potenze ocidentali: mentre gli Stati Uniti rstavano fedeli alle scelte isolazionistiche dell’immediato dopoguerra, Francia e Gran Bretagna condussero una politica rimasta nota col nome di appeasement, che era mossa — come la mmigliore storiografia ormai riconosce — da ragioni non tutte spregevoli, ma che certo diede a Hitler l’impressione di potere continuamente e impunemente giocare al rialzo.
Tale politica culminò nella conferenza di Monaco, alla fine di settembre del 1938, dove Chamberlain e Daladier sacrificarono l’integrità territoriale della repubblica cecoslovacca, loro tradizionale alleata, per esaudire le richieste tedesche sui Sudeti (ma della disgregazione della Cecoslovacchia avrebbero approfittato anche la Polonia e l’Ungheria).
Ora, con l’invasione del 15 marzo 1939 e la proclamazione di un protettorato tedesco sulla Boemia e la Moravia, la Germania nazista andava decisamente oltre ogni rivendicazione «revisionistica» e — si potrebbe dire — gettava la maschera: mostrava cioè il carattere assolutamente espansionistico della sua politica internazionale.
Il successivo 21 marzo, il governo di Berlino rinnovava alla Polonia le richieste già presentate altre tre volte, a partire dal 24 ottobre dell’anno precedente: la restituzione della città libera di Danzica, abitata da una maggioranza tedesca, e il consenso alla costruzione di una autostrada e di una ferrovia extraterritoriali tra la Germania e la Prussica Orientale, che il trattato di Versailles aveva resa un’enclave tedesca in terra polacca con la creazione del cosiddetto «corridoio di Danzica».
La risposta franco-inglese non si fece attendere: alla fine di marzo, i governi di Londra e di Parigi annunciarono che avrebbero garantito l’indipendenza e l’integrità territoriale della Polonia contro eventuali aggressori, facendo così intendere che la politica di appeasement era finita e che un attacco a Varsavia avrebbe comportato una guerra generale in Europa.
Si è molto discusso sulle possibilità concrete — praticamente nulle — che gli alleati occidentali avevano di portare aiuto a una Polonia aggredita e sui motivi per cui analoghe garanzie non fossero offerte all’Unione Sovietica, visto che solo una grande alleanza tra Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Polonia avrebbe potuto rallentare l’escalation hitleriana: Stalin vi scorse una conferma del proposito da lui attribuito alle potenze occidentali di dirottare verso l’Unione Sovietica l’aggressività germanica, proposito che nei fatti non esisteva, ma che il dittatore georgiano dava per scontato.
Questo era l’inquietante panorama internazionale che il nuovo Pontefice si trovò davanti: lo affrontò con uno staff di collaboratori di prim’ordine, come il segretario di Stato cardinale Maglione, che proveniva da una lunga carriera diplomatica culminata nella nunziatura di Francia, il sostituto monsignor Montini e il segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, monsignor Tardini. Tre uomini assai diversi fra loro per personalità e stile, che lavoravano spesso con una notevole penuria di mezzi e di informazioni, ma a cui gli osservatori contemporanei erano concordi nell’attribuire un intuito straordinario sugli uomini e sulle cose.
Si è molto scritto, anche di recente, sul diverso atteggiamento che Pio XII avrebbe mostrato rispetto al suo predecessore e si è tornato a rimproverargli l’approccio diplomatico e pragmatico alla crisi del 1939, rispetto a quello «profetico» dell’ultimo Pio XI. Ma tutte queste osservazioni non tengono alcun conto, appunto, del turning point costituito dall’invasione tedesca di Praga.
Con grande acutezza e assoluto realismo lo notava già negli anni Ottanta Owen Chadwick, confrontandosi coi diari e la corrispondenza diplomatica del ministro britannico presso la Santa Sede, Osborne: «La politica vaticana — annotava lo storico inglese — cambiò dall’oggi al domani. In parte era una questione di priorità. Pio XI aveva denunciato il maltrattamento delle Chiese da parte dei nazisti, o si era opposto alle misure antisemitiche di Mussolini, e in generale aveva difeso la giustizia e la libertà.
Tutti questi obiettivi validi furono ritenuti improvvisamente secondari rispetto a uno scopo supremo, quello di aiutare le potenze europee a non distruggersi reciprocamente. Per il Vaticano, quindi, in quel momento non serviva un Papa che imitasse Pio XI nel denunciare il razzismo, l’antisemitismo e l’idolatria dello Stato. Le denunce aumentano la tensione. Questa era la convinzione del Papa e dei suoi stretti collaboratori. Era anche l’opinione del ministro britannico presso la Santa Sede».
La vertenza fra Germania e Polonia era certamente la più gravida di pericoli, ma non era la sola: dalla fine del 1938, l’Italia fascista aveva aperto un contenzioso con la Francia riguardante una serie di rivendicazioni irredentistiche su Tunisi, la Corsica, Gibuti, e così via. Con l’offensiva di pace del 3 maggio 1939, la Santa Sede cercò di far fronte a entrambi i problemi: propose una conferenza a cinque — Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Polonia — che cercasse di «comporre pacificamente le questioni che tengono in disaccordo la Germania e la Polonia, la Francia e l’Italia e le altre che da queste dipendono».
Come si vede, anche l’iniziativa vaticana evitava di coinvolgere l’Unione Sovietica, con cui d’altronde la Santa Sede non aveva rapporti diplomatici. La via dell’iniziativa diplomatica, che veniva allora intrapresa, presentava certo numerosi rischi e sembrò non priva di ambiguità ad alcuni degli interlocutori europei: un primo pericolo era quello di operare una riedizione della conferenza di Monaco, questa volta a spese della Polonia.
Inoltre essa finiva per riconoscere una qualche centralità all’Italia di Mussolini, che si sperava potesse giocare il ruolo del moderatore delle richieste tedesche, come si diceva che avesse fatto a Monaco. Così il Vaticano evitò di commentare l’invasione italiana dell’Albania nell’aprile del 1939 e chiese preventivamente, attraverso il padre Tacchi Venturi, l’assenso del Duce al proprio progetto.
Mussolini si disse d’accordo: nei confronti della Germania, egli inaugurava quell’atteggiamento dell’«alleato che si smarca», che portò avanti con non poche doppiezze e ambiguità fino al giugno del 1940. In ossequio a una tradizione di lunga data della politica estera italiana, riteneva che si trattasse di una posizione da cui l’Italia poteva trarre vantaggio.
Le proposte vaticane non ebbero successo: il possibilismo inglese fu neutralizzato dalla dura opposizione francese perché la Francia non voleva discutere del proprio contenzioso con l’Italia in una qualche conferenza internazionale; Hitler fece parlare brevemente il nunzio Orsenigo e poi iniziò uno dei suoi sproloqui, assicurandogli che la situazione internazionale stava migliorando; il 22 maggio Mussolini strinse il Patto d’acciaio con la Germania nazista.
Ciò nonostante, anche nei mesi successivi, fino alla fine d’agosto la diplomazia vaticana fu all’opera per cercare di fermare la corsa verso la guerra: l’estremo tentativo fu il messaggio di Maglione al presidente polacco del 30 agosto 1939, in cui si proponeva che la Polonia non si opponesse alla restituzione di Danzica alla Germania e che aprisse con essa una trattativa su tutti gli altri problemi. Quel messaggio ricalcava ad litteram un testo suggerito da Mussolini a Tacchi Venturi: in questo momento anche il dittatore italiano voleva evitare di essere trascinato in una guerra europea e infatti, poi, scelse la non belligeranza.
Si è detto dei rischi: la Santa Sede veniva a trovarsi in una situazione che altre volte avrebbe sperimentata nel secolo XX, quella di avere di fronte uno «Stato canaglia» — in questo caso la Germania nazista — che minacciava evidentemente la pace internazionale. Che fare? L’ambasciatore francese in Vaticano, Charles-Roux, un buon cattolico che tuttavia faceva strenuamente (né poteva essere altrimenti) gl’interessi del suo paese, avrebbe preferito una politica tutta diversa: un papato che cercasse di essere la guida morale delle nazioni e prendesse posizione in base al diritto di natura, giungendo a condannare solennemente l’aggressione e la violazione dei trattati.
Gli rispondeva già allora il collega Osborne — e lo storico di oggi non può non trovare ragionevoli le sue argomentazioni — che i pastori di una Chiesa universale non potevano seguire una politica che avrebbe reso le Chiese cattoliche della Germania e dell’Austria ancora più odiate dal loro governo semipersecutore, senza esser sicuri di conseguire un qualche risultato. E per il momento c’era una causa morale più alta: impedire una guerra mondiale.
Certo — bisogna aggiungere — questo imponeva una serie di consapevoli rischi: quello di trovarsi in compagnie poco piacevoli (come quella di Mussolini), di sembrare scarsamente sensibili alla causa di una nazione profondamente cattolica come quella polacca, di dare credito (almeno pubblicamente) alle intenzioni di pace di Hitler. Ma una cosa balza agli occhi leggendo le note e gli appunti di Maglione e dei suoi collaboratori: la certezza che quei rischi fosse doveroso correrli, la necessità insomma di «farsi tutto a tutti» per evitare lo scoppio di una guerra, in cui fra l’altro la Polonia — non era difficile prevederlo — si sarebbe trovata comunque in solitudine di fronte ai carri armati tedeschi.
Eppure il culmine di quella complessa vicenda fu proprio un momento «profetico». Il 22 agosto circolò per le cancellerie europee la notizia di un imminente patto fra Hitler e Stalin: sarebbe stato in effetti concluso a Mosca il giorno seguente, dando alla Germania il via libera per l’attacco alla Polonia. Il ministro degli Esteri inglese, lord Halifax, telefonò a Osborne affinché pregasse il Pontefice di lanciare un «ultimo appello alla ragione, con tutto il peso e l’influenza di cui dispone».
Osborne incontrò Tardini, cercando perfino di suggerirgli alcuni temi per l’eventuale appello papale: il prelato romano e Montini, prepararono quattro bozze e Pio XII scelse quella più «pastorale», elaborata in gran parte proprio dal Sostituto.
Nel suo radiomessaggio del 24 agosto, il Papa cercò e trovò allora le vie della ragione e quelle del cuore: «Noi li [i potenti d’Europa] supplichiamo per il sangue di Cristo, la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella morte. E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di cuore; tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia — tutti quelli che soffrono già, per i mali della vita, ogni dolore.
Abbiamo con Noi il cuore delle madri, che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro famiglie; gli umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la tremenda minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali. Ed è con Noi l’anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio cristiano. Con Noi l’umanità intera, che aspetta giustizia, pane, libertà, non ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell’amore fraterno ha fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della sua Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni».
E aggiunse: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo».
Il Pontefice non addossava a questo o quel governo la responsabilità della crisi: ciò avrebbe comportato la fine di ogni canale diplomatico con lo «Stato canaglia». Ma anche a Charles-Roux non sfuggì il significato antitedesco di alcuni passi del messaggio pontificio: «È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl’imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono».
Resta poi evidente — ed è ancora un’osservazione di Owen Chadwick — che un appello mondiale per la pace, per le più alte ragioni morali, avrebbe fatto apparire iniquo l’aggressore al momento dell’attacco. Quella sera lord Halifax, che era un uomo profondamente cristiano, citò commosso il discorso pontificio nel suo messaggio radiofonico al popolo inglese.
Il 31 agosto, un secondo messaggio papale veniva consegnato agli ambasciatori di Italia, Germania, Francia, Polonia e Gran Bretagna perché lo inoltrassero ai rispettivi governi. Il giorno dopo, 1 settembre 1939, alle 4.45 del mattino, la Wehrmacht forzava i confini polacchi.