Voci per un dizionario del pensiero forte
di Francesco Pappalardo
Da oltre un secolo la storia d’Europa è trattata come una storia di nazioni anziché di Stati, con il risultato di creare un’immagine fittizia del passato, in cui sarebbe stato dominante quanto in realtà è solamente un programma politico di tempi più recenti.
Si tratta di una vera e propria falsificazione, perché in Europa quasi mai la nazione ha rappresentato l’elemento primario rispetto allo Stato: più antico della nazione francese è lo Stato francese, fondato dalla monarchia e dall’episcopato, così come più antico della nazione spagnola è lo Stato spagnolo, affermatosi sui regni pirenaici medioevali in virtù di un’unità religiosa e non nazionale, che nasce dalla Reconquista contro i musulmani; analoghe considerazioni valgono per l’impero germanico, nelle sue radici sassoni, austriache e prussiane, germogliate da elementi dinastici e militari.
Una singolarità è costituita invece dall’Italia, che esiste da quasi un millennio come unità culturale e linguistica, pur nella diversità delle sue componenti, essendosi formata in seno alla Cristianità, nei secoli del Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un intricato mosaico di lingue e di stirpi.
L’idea che all’unità dell’Italia romana – compiuta nel secolo I a. C. – soggiacesse una realtà etnica e storica estremamente composita era chiara agli antichi, che hanno voluto tramandare ai posteri il ricordo dei diversi popoli italici. La stessa suddivisione amministrativa della penisola da parte dell’imperatore Cesare Augusto (63 a. C.-14 d. C.) in undici regioni recanti i nomi geografici ed etnici tradizionali – i cui confini sono ricalcati nelle grandi linee da quelli delle regioni odierne – non intendeva soltanto salvaguardare una memoria storica, ma era anche segno di una perdurante realtà.
L’eredità lasciata dai popoli italici ha resistito in qualche misura al processo di romanizzazione e si è trasmessa nel tempo, ponendo le basi di quel particolarismo che esprime una vocazione della nazione italiana e che si è manifestato in una straordinaria varietà di società storiche.
L’invasione longobarda del 568 rompe l’unità politica della penisola e apre la strada a una distinzione fra i territori del Regno italico – nei quali si svilupperanno le istituzioni feudali appunto di tipo longobardo e fioriranno poi in varia forma e misura le autonomie comunali – e i territori romano-bizantini, di cui una parte costituirà il Patrimonio di San Pietro, mentre l’intero Mezzogiorno e la Sicilia saranno unificati dalla monarchia normanno-sveva, che v’introdurrà fra l’altro il sistema feudale “franco”; uno sviluppo particolare avranno gli ordinamenti pubblici della Sardegna, divisa inizialmente in quattro giudicati o regni.
In questo modo viene confermato il pluralismo delle componenti storiche e istituzionali come “carattere originale” della nazione italiana, che è vissuta per oltre un millennio senza uno Stato unitario, in “[…] una pluristatalità – afferma Giuseppe Galasso –, che è ricca di implicazioni culturali e civili e in qualche modo è anche una plurinazionalità“, anche se gli italiani si sono sempre sentiti tali, avendo la percezione di essere parte di un’unica comunità, resa omogenea da una cultura unitaria, profondamente permeata di cristianesimo e di valori ispirati al diritto naturale.
La nazione italiana, in conformità con questo grande patrimonio di tradizioni storiche e con le sue ricchezze culturali, anche di cultura politica, si è organizzata nel tempo in più strutture statuali, tutte di bassa incidenza sulla società e non totalizzanti, che per secoli hanno tutelato robustamente la cultura italiana.
Queste forme statuali sono state caratterizzate da una mirabile varietà istituzionale – dallo Stato municipale al grande regno, dal principato regionale alla repubblica aristocratica -, che ha fatto dell’Italia un campionario di Stati e, nella misura in cui questi possono essere considerati gli “abiti” delle società storiche, destinati soprattutto a proteggerne il retaggio spirituale e culturale, un “guardaroba di abiti politici”, il guardaroba politico delle società storiche affermatesi nella penisola.
2. Una comunità di destini
Non è facile, vivendo l’esperienza dello Stato moderno, centralista e unitario, rendersi conto della vitalità e dell’autonomia della società civile, che per molti secoli è riuscita a salvaguardare la propria identità – nonostante continui mutamenti politici o dinastici, quindi continui cambiamenti di “abito” – grazie alla presenza di complesse e articolate reti di rapporti umani, familiari, di clientela e di patronato, che fungevano da canali reali di un potere politico esercitato in forme molto più diffuse e variegate di quelle oggi conosciute e che davano vita a una molteplicità di ordinamenti, di consuetudini e di privilegi.
Dal punto di vista istituzionale e sociale la struttura portante di queste realtà è stato per lunghissimo tempo il feudalesimo, che faceva della società medioevale una società gerarchica, grazie, da un lato, alla presenza al vertice, come punto di riferimento, del sovrano, e, dall’altro lato, alla catena delle gerarchie feudali.
Anche i Comuni, frutto della forte ripresa cittadina dopo il Mille, non nascono e non si svolgono in chiave antifeudale, nemmeno quando giungono a costituirsi in centri di minuscoli Stati, largamente autonomi, anche se inseriti giuridicamente nella struttura feudale del Sacro Romano Impero. La nascita stessa del Comune è un fenomeno aristocratico, incomprensibile senza la ricchezza di vita e la libertà d’azione che connotavano la società feudale. È significativo, del resto, che i rapporti fra i vari Stati, compresi i Comuni, così come i rapporti fra le città e i signori del territorio circostante, venissero definiti ricorrendo al diritto feudale.
Fra il 1300 e il 1500 si assiste al passaggio dal feudalesimo alla signoria – una realtà statuale in cui i ceti dirigenti non sono più rappresentanti della famiglia o del clan, bensì di una determinata categoria sociale – nonché a una concentrazione di sovranità nelle mani di principi, detentori di un forte potere politico e militare, che mirano alla sottomissione dell’aristocrazia feudale, gradualmente ridotta a nobiltà di corte, e alla limitazione sistematica delle antiche istituzioni di tipo rappresentativo.
Nello stesso tempo ha luogo una riorganizzazione dei diversi nuclei territoriali, che determina la creazione di più ampi organismi e poi dei cosiddetti “Stati regionali” che, giunti a maturazione intorno alla metà del Quattrocento, resteranno pressoché immutati fino all’età napoleonica.
In questo periodo si delinea una situazione di stabilità, poi sancita dalla pace di Lodi del 1454 – che pone fine alla guerra di successione per il Ducato di Milano -, con cui vengono definite le linee di fondo di quell’equilibrio politico che, nonostante il turbine delle guerre del primo Cinquecento, resterà pressoché immutato fino all’età napoleonica e che può essere considerato l’embrione di un assetto confederale.
All’atto diplomatico fa significativamente seguito la costituzione della Lega Italica, alla quale aderiscono i principali Stati della penisola: il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze, gli Stati della Chiesa e il Regno di Napoli. Da questa data le formazioni statali minori si trovano legate alle maggiori in un sistema dosato di vincoli politici e militari, in una struttura flessibile, suscettibile di lacerazioni e di squilibri, ma capace di comprendere in un unico sistema il composito mondo politico italiano, condotto ora al massimo di unificazione possibile, nella rafforzata consapevolezza di una comunità di destini della nazione.
3. Il “piccolo Stato”
Benché la svolta signorile, segnata soprattutto dallo sforzo di accentramento delle funzioni pubbliche, abbia chiaro significato assolutistico, gli ordinamenti che si creano allora e che dureranno per secoli, segno appunto della robustezza della costruzione cui si era pervenuti, hanno caratteri ben diversi da quelli dello Stato moderno, che non conosce le articolazioni politiche e le forme di aggregazione caratteristiche invece di quel lungo periodo, dalla fine del Medioevo alla Rivoluzione francese, che con felice scelta lessicale viene definito “antico regime” invece di “età moderna”.
Lo Stato regionale è un intreccio di giurisdizioni particolari e di autonomie locali, che costituiscono i nuclei più vitali di coagulo e di organizzazione politica della società, e che richiedono nuove e più articolate formulazioni giuridiche per definire i rapporti fra i numerosi poteri. Si tratti del Ducato di Milano, a larga base feudale, dei piccoli principati emiliani, della composita Repubblica di Venezia o di uno Stato di origine cittadina come la Repubblica di Firenze, gli ordinamenti pubblici si caratterizzano per il loro carattere pattizio e si fondano su una divisione del potere fra il governo centrale e una serie di “centri” disciplinati ma vitali, non più indipendenti ma gelosi delle proprie libertà.
La forma politica più diffusa nella penisola diventa quella del “piccolo Stato” – la cui fioritura si è protratta per secoli con una ricchezza di cui generalmente non si è consapevoli in modo sufficiente soprattutto dal punto di vista storico e politico -, caratterizzato dalla presenza di numerose autonomie locali, di giurisdizioni particolari, laboriosamente coordinate, e di intermediazioni personali, così che le formazioni statali a ogni loro passo dovevano fare i conti con la solida presenza, più che con la sopravvivenza, di gruppi e di istituti saldamente radicati nel territorio.
Questi Stati costituiscono particolari modelli di vita e di cultura con le loro corti, i loro condottieri e i loro principi, definiti “piccoli” per le dimensioni dei loro Stati, ma tutti uguali ai “grandi” in quanto titolari di una sovranità che faceva di essi soggetti a pieno titolo, nel battere moneta come nel legiferare, nell’amministrare la giustizia, nell’intraprendere guerre, nel concludere trattati di pace e alleanze matrimoniali.
Essi si inseriscono, in un articolato rapporto di gerarchie e di dipendenze, nel sistema degli Stati italiani, dove la relazione fra il grande e il piccolo era mediata da un sistema religioso a carattere universale, la Chiesa cattolica, e da un sistema politico a carattere universalistico, il Sacro Romano Impero.
Questa cultura politica, fondata sul particolarismo dei corpi intermedi, che tutelavano la soggettività della nazione, rimane predominante fino al Settecento, quando si affermano il nuovo spirito assolutistico e l’esprit de géometrie degli illuministi, che con la loro azione prevaricatrice e livellatrice impongono un sistema di governo centralistico e spersonalizzato, soffocando l’autonomia dei corpi territoriali e le libertà e i privilegi degli ordini o ceti.
Dopo la fine coatta del Sacro Romano Impero nel 1806, su pressione napoleonica, la politica diventa puro equilibrio di forze e la competizione fra i vari Stati mette in pericolo la sopravvivenza delle piccole realtà statuali della penisola. Alla sfida rappresentata dai mutamenti intervenuti nel contesto internazionale avrebbe costituito risposta adeguata una struttura confederale, una federazione di Stati, cioè un abito ritagliato su misura, che fosse adeguato alla mutata situazione e assicurasse il rispetto dell’antica personalità dei popoli d’Italia.
Tuttavia, la maturazione politica di questo esito non ebbe il tempo necessario e si giunse all’unificazione forzata – compiuta nel 1860 e ufficializzata l’anno seguente con la proclamazione del Regno d’Italia -, ossia all’imposizione di un abito inadeguato, causando al corpo sociale italiano i gravi disagi di cui soffre tuttora.
Per approfondire: vedi Giuseppe Galasso, L’Italia come problema storiografico, Introduzione alla Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, Utet, Torino 1979; Idem, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750), in G. Galasso e Luigi Mascilli Migliorini, L’Italia moderna e l’unità nazionale, vol. XIX della citata Storia d’Italia, Utet, Torino 1998, pp. 3-492; AA. VV., Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di Giorgio Chittolini, Anthony Molho e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1994; e Werner Kaegi (1901-1979), Il piccolo Stato nel pensiero europeo, in Idem, Meditazioni storiche, Laterza, Bari 1960, pp. 33-90.