POLEMICHE CULTURALI
A partire dalla “Carta della carità”, un documento cisterciense che risale al XII secolo, si afferma una nuova visione dell’economia, cui è assegnato un legittimo spazio autonomo ma non disgiunto dall’etica e dalla pratica delle virtù.
Alessandro Ghisalberti (*)
Nell’alto Medioevo è il monachesimo a farsi carico di una concezione etica articolata anche nella prospettiva pratica, che la Regula Benedicti esprime con l’attribuzione all’abate del compito di amministrare le ricchezze dell’intero monastero, di guidare il rapporto dei monaci con le ricchezze nella gestione di beni che, dal momento che sono stati affidati ai monaci, sono consacrati a Dio. È cristianamente scorretto infatti confidare nelle ricchezze come nel bene decisivo della vita; l’invito di Gesù al giovane ricco, affinchè si liberi dalla schiavitù del desiderio e dalla passione per i beni materiali, vale come monito a convertire questi beni in mezzi per la salvezza.
Ostacolo alla sequela evangelica non è l’uso vigile delle ricchezze, quanto piuttosto la provenienza non da Dio della ricchezza stessa. Giovanni Crisostomo distingue tra una ricchezza frutto di rapine e di imbrogli, che non viene da Dio, dalla ricchezza che viene da Dio, che per un religioso è rappresentata ad esempio dalle donazioni, dai benefici e dalle elargizioni, categorie che presto confluiranno nel termine onnicomprensivo della carità. L’elargizione-dono del ricco al povero è paragonabile a una vendita, il cui guadagno è percepito dal ricco nell’aldilà.
Questi princìpi regolativi dovettero passare attraverso la prova del fuoco del feudalesimo, negli ultimi secoli del primo millennio, che comportò la nota sovrapposizione di investiture ecclesiastiche e investiture civili. Arriviamo così al secondo millennio: il rinnovamento verificatosi a tutti i livelli in Europa trova la Chiesa impegnata nella cosiddetta “lotta per le investiture”, ossia in un’azione decisa nella moralizzazione della gestione dei benefici ecclesiastici, separandola da quella dei benefici civili.
All’azione riformatrice che da papa Gregorio VII prese il nome di “Riforma gregoriana” ha fatto eco un vasto movimento riformatore all’interno dell’Ordine benedettino, con il sorgere di diverse comunità riformate, quella dei Certosini, quella dei Camaldolesi e quella dei Cisterciensi.
L’ordine cisterciense prese avvio nel 1098 a opera di un gruppo di monaci guidati da Roberto di Molesmes, a Cìteaux, nell’attuale Còte-d’or, a 25 chilometri a sud-est di Digione, allora denominata Cistercium o Novum Monasterium. Le vicende sono narrate in un testo degli anni 1119-1120, dal titolo Exordium parvum, relativo ai primi passi del nuovo monastero: la comunità nasceva dalla separazione da un monastero tradizionale, perché quel gruppo di monaci intendeva mettere in atto un’osservanza più rigorosa e coerente della Regula Benedicti, ripristinando l’obbedienza alla lettera oltre che allo spirito della stessa.
Nel 1112 ben trenta nobili di Borgogna entrano nel nuovo monastero, tra cui Bernardo e quattro suoi fratelli; il numero è così accresciuto, che consente l’apertura di monasteri affiliati. Nel 1115 Bernardo viene mandato con dodici monaci a fondare una nuova comunità cisterciense nella contea di Troyes, in una valle luminosa, Claravallis, in francese Clairvaux. Già due nuove filiazioni erano avvenute nel 1113-1114, quella di La Ferté e quella di Pontigny; sempre nel 1115 se ne aggiungerà una quarta, a Morimond. Queste diventano le quattro Abbazie comprimarie, che formano unitariamente l’Ordine di Cìteaux.
Le dotazioni di territori e case garantiscono l’autonomia di ciascuna fondazione, e così dovrà essere per ogni successiva gemmazione da ciascuna delle prime cinque. L’accumulo dei beni è, in questa fase, regolamentato dalle regole dell’espansione; l’etica cristiana continua a essere rispettata mediante la scelta del lavoro manuale da parte dei monaci e dei conversi. Vengono subito alla luce, tuttavia, importanti nodi problematici: dovevano esserci dei vincoli per le abbazie nell’accumulo dei terreni e dei benefici?
La coltivazione agricola delle terre di un’abbazia poteva garantire un’autarchia totale, o non era il caso di pensare ad attivare un’economia di scambio tra i prodotti di un’abbazia con prodotti di altre abbazie, o con tipologie di prodotti non ottenibili col semplice lavoro agricolo? Come dovevano comportarsi le abbazie madri nei confronti delle loro filiazioni? Era ammissibile il controllo economico delle abbazie affiliate, sino al punto (attestato in età feudale) di ricavare da queste ultime il sostentamento alle prime?
La massima della carità: non guadagnare dalla povertà altrui!
La risposta a questi interrogativi va ricercata nei passaggi più significativi della Carta caritatis, un documento fondamentale del monachesimo cistercense del secolo XII, che proietta la sua influenza positiva su tutto il secondo millennio della cristianità europea, e che si offre ancora oggi come il paradigma dello sforzo che coinvolge ogni cristiano nel contemperare il possesso dei beni con il precetto evangelico di praticare la povertà in spirito, di vivere il distacco interiore dalla ricchezza, di resistere alle seduzioni derivanti dalla passione dell’avarizia, accontentandosi del necessario.
Della Carta di carità ci sono giunte due redazioni: la prima antichissima, databile intorno al 1114, e la seconda, che contiene poche aggiunte ed esibisce l’approvazione pontificia, risale nella forma definitiva al 1165. Scopo primario del documento era quello di progettare e garantire l’unità dell’Ordine, nella stabilità di legami spirituali fra tutte le fondazioni; l’altra grande preoccupazione era connessa alla volontà di gestire evangelicamente i legami tra l’abbazia madre e le sue affiliate.
I modelli sociali della gestione dei benefici civili, ancora molto legati a forme di diritto feudale, potevano suggerire modalità contrarie allo spirito del nuovo monastero; veniva perciò solennemente sottolineato il primato inderogabile della carità, la quale sorreggeva sia il percorso spirituale del monaco, concentrato sull’economia della salvezza della propria anima, sia il criterio dell’acquisizione dei beni, dei territori e dei benefici, che stava alla base della liceità dell’economia materiale dei monasteri.
Non era ammesso alcuno sfruttamento delle fondazioni affiliate; nessun monaco valido poteva pensare di essere esonerato dal lavoro manuale, affidandolo ad altri monaci più giovani. Ogni abbazia godeva di totale autonomia, senza alcun vincolo di sudditanza materiale. L’enunciazione centrale della Carta di carità può essere presa come logo di ogni aggregazione economica che anche oggi intenda rispettare i valori evangelici: non costruire la propria abbondanza ricavandola dall’impoverimento degli altri; non desiderare di essere in un’abbondanza che deriva dalla povertà altrui.
La Regola assegnava al discernimento dell’abate tutta la responsabilità della formazione dei monaci nell’ambito dell’economia, sia dell’economia spirituale, sia di quella dei beni del monastero. Siccome la fragilità umana non permette sempre la fedeltà all’illuminazione di Dio, la Carta di carità prevedeva un correttivo importante alla discrezionalità riservata all’abate: anche il primo degli abati, quello dell’abbazia madre (Cìteaux), non può disporre dei beni di nessuna abbazia dell’Ordine se non autorizzato dall’abate della stessa, con il consenso dei monaci di quella comunità.
La carità consente solo di donare alle abbazie che avessero la sventura di versare in stato di povertà o di miseria economica, per cause indipendenti dalla loro fedeltà alla Regola, determinate da calamità naturali, avversità climatiche, carestie, epidemie. Queste situazioni devono infiammare gli animi alla più ardente carità!
Nel corso dei decenni gli statuti dell’Ordine ribadirono, anche in contesti meno carichi di valori ideali, le scelte di fedeltà alla Regola, proclamando la volontà di inscrivere totalmente le modalità dell’economia terrena nel superiore livello normativo, quello dell’economia della salvezza, secondo il Vangelo.
Si può pertanto asserire “che nella tradizione monastica, la quale va tenuta distinta dai movimenti pauperistici e dalle istanze di povertà radicale che saranno avanzate nel secolo XIII dagli ordini mendicanti (Francescani, Domenicani, Agostiniani, Carmelitani), è fuori discussione il riconoscimento del valore positivo dei beni terreni, identificabili nel possesso di terre, nella produzione di ricchezze materiali attraverso il lavoro agricolo, nel possesso e nell’allevamento di animali, nella possibilità di ricavare degli utili economici mediante lo scambio o la vendita dei prodotti.
Dunque, non è il possesso o l’accumulo delle proprietà possedute a costituire problema per il monaco; l’istanza alla base del monachesimo riformato esige la conciliazione tra il possesso dei beni e il precetto evangelico di moderazione o di povertà nello spirito. I vincoli esplicitati dalla Regola suonano come altrettanti precetti etici, poiché sono vincoli pensati al fine di combattere l’avarizia e la lussuria, oltre che per radicare nella giusta prospettiva il possesso dei beni materiali. Stabilità la liceità del possesso, il carico etico si riversa tutto sul modo, sulla misura giusta, su un uso che non ammette abuso, sulla distinzione fondamentale tra caritas e cupidas: la carità è Dio, la cupidigia è il mondo del peccato.
Nei testi dell’abate Aelredo di Rievaulx viene focalizzato un problema, esplicitato ripetutamente anche da san Bernardo: come è possibile restare nell’equilibrio ora menzionato, volendo nel contempo fare fruttificare i beni? Come si possono far crescere le ricchezze senza peccare di avarizia? Per dare una risposta a questo interrogativo è fondamentale la distinzione fra chi “ama le ricchezze”, con l’animo attaccato a esse sino a piangerne la più piccola perdita, e chi “ha o possiede le ricchezze” e vede nella ricchezza un semplice strumento attraverso cui ottenere un bene di maggiore valore, elargito da Dio.
Il credente dall’animo distaccato fa circolare la ricchezza e rende il prossimo meno fortunato partecipe dei propri beni ; questo comportamento economico gli consente di operare strumentalmente per la propria salvezza e contemporaneamente favorisce la circolazione della ricchezza, la quale, anche in termini meramente economici, necessita di una movimentazione bidirezionale, mentre rimane danneggiata dalla scorretta detenzione che ne fa l’avaro al solo scopo del profitto individuale.
Beneficenza ed etica cristiana tra ieri e oggi
Nel vocabolario dell’economia monastica compare anche un termine rimasto ancora oggi nel linguaggio del mondo economico e bancario, quello di beneficientia. La beneficenza ha un profilo elevato, che la differenzia dall'”elemosina”: in essa si concentra il bisogno di coniugare la carità con l’amore del prossimo e in questo contesto sono decisivi il modo e la discrezione. Il bisogno del prossimo va valutato con intelligenza; l’elargizione deve essere nel giusto, e la giustizia da preservare è quella di non creare ostacoli alla salvezza sia del benefattore, sia del beneficato.
I padri cisterciensi sono concordi nell’ammettere che la beneficenza indiscriminata, invece di risultare un rimedio all’avarizia/cupidigia, può diventare una forma di prodigalità condizionata. Occorre molto discernimento: anzitutto è richiesta la giustizia nella scelta dei destinatari, poiché è impossibile dare egualmente a tutti i bisognosi. Si devono vagliare le condizioni di necessità in cui versa il bisognoso e contemporaneamente si deve evitare che la prodigalità nuoccia sia al soggetto che la riceve, sia a chi ne resta escluso.
Inoltre nelle richieste di beneficenza possono essere esposti dei “bisogni” che, se ben analizzati, risultano essere in contrasto con il Vangelo: il sostegno ad attività connesse con un ministero può celare la ricerca di gloria personale; può essere mal riposta la fiducia concessa a funzionari o ad amministratori, che operano in un’ottica di sperperi o di sprechi e avanzano continue richieste di sostegno; l’amicizia personale non deve costituire motivo di precedenza rispetto all’ordine dei bisogni.
Si noti la grande finezza e attualità dello sguardo dei monaci sulle situazioni antropologiche che si stabiliscono intorno alla beneficenza; ma attuale è anche l’istanza economica che viene esplicitata: la beneficenza deve sopperire giustamente alle necessità del prossimo, ferma restando la convinzione di principio, che la ricchezza tesaurizzata rimane sterile. Occorre, tuttavia, impedire che la beneficenza diventi prodigalità che produce il superfluo; ciò indurrebbe una personalizzazione che preclude il manifestarsi dell’aspetto spirituale dei beni economici e altera la natura specifica della beneficenza. Si finirebbe col presumere di tramutare in ricchezza materiale un’elargizione che all’origine è stata fatta sulla base del principio dell’universale carità.
Merita infine di essere richiamato un dato significativo circa la visione della storia, propria della tradizione teologica altomedievale e di quella monastica, sino a tutto il secolo XII: l’attenzione era concentrata sull’attesa della fine del mondo, con la ricerca nei testi della letteratura apocalittica degli ambigui segnali della venuta dell’Anticristo, accompagnata dalla grande tribolazione finale, cui seguiranno il ritorno di Cristo e la fine della storia.
Entro una siffatta concezione della storia mancava uno spazio disteso per un futuro diverso da quello escatologico: la storia presente non si proietta su un futuro terreno rilevante, dunque non è avvertita l’urgenza di una progettualità forte che spinga alla ricerca di basi consistenti per l’economia terrena. Per i Cisterciensi il futuro dei beni accumulati detiene una garanzia di bontà indefettibile, perché le proprietà dei monaci sono totalmente “salve”.
Al suo ritorno il Cristo troverà i beni del creato che sono stati affidati ai monaci nella condizione migliore loro possibile, ossia li troverà riconsegnati a Dio, poiché, come abbiamo visto, Chiesa e monasteri gestivano secondo un’ottica unitaria l’economia materiale e l’economia spirituale (l’economia della salvezza o oeconomia salutis).
Quei beni risulteranno nella condizione ottimale per ogni bene creato da Dio, perché nella condizione di fruttificare sempre anche per Dio: danno sostentamento a chi si impegna in una regola di vita evangelica, consentendo a un numero sempre maggiore di credenti di abbracciare la vita nei chiostri, garantendo così una via privilegiata di accesso alla patria celeste.
Facendo sempre attenzione alla concezione della storia ora ricordata, si deve sottolineare un ulteriore aspetto connesso con il possesso dei beni: se il tragitto della storia terrena è segnato da una scadenza imminente, non assume carattere problematico la questione dell’accumulo dei beni posseduti dai monaci o dalle comunità ecclesia-stiche.
Si è visto, infatti, che tali beni contraggono una corretta destinazione e sono nella condizione di poter essere ripresi da Dio, che ne è il legittimo proprietario. L’istanza etica verte allora precipuamente sull’uso o, come noi oggi diremmo, sul consumo: si deve evitare un uso eccessivo o un consumo superfluo, si deve cioè evitare l’assecondamento dei vizi (avarizia, lussuria, gola), incentivando la virtù, il rispetto dei precetti circa la sobrietà nel cibo, la penitenza corporale per l’espiazione dei peccati, la sottomissione dei desideri della carne a quelli dello spirito.
La lezione che viene dall’economia monastica, a uno sguardo complessivo, appare come una linea etica che ha mantenuto la capacità di orientare la cristianità di tutto il secondo millennio, ogni volta che si è affacciata la necessità di individuare le coordinate per un corretto rapporto del cristiano con il denaro; essa mantiene una sua validità ancora oggi, sia come mai superata interpretazione delle istanze etiche nella prassi economica, sia come rispettosa del dettato evangelico nel difficile compito di coniugare il binomio di ricchezza e povertà.
L’economia monastica ha avuto la lungimiranza di aprirsi all’economia come spazio autonomo del soggetto nei confronti della produzione dei beni materiali, e insieme non ha rinnegato alcun precetto o consiglio evangelico volto a orientare la salvezza del cristiano. Essa ha mostrato l’accoglienza piena della carità verso Dio e verso il prossimo, carità che esige la condivisione dei beni tra cristiani e tra fratelli, incentiva il rispetto della giusta misura tra il necessario e il superfluo, e inoltre richiede di non considerare mai il valore delle persone sulla base dei beni posseduti.
Una proposta forte, che invita a fare chiarezza sulle modalità di articolare la scala dei valori tenendo conto della dimensione individuale e di quella universale, in un mondo come il nostro, in cui il denaro è il nervo scoperto della globalizzazione.
(*)Alessandro Ghisalberti, ordinario di Storia della filosofia medievale, è direttore del dipartimento di Filosofìa dell’Università Cattolica e della «Rivista di filosofìa neo-scolastica». Le sue ricerche sono rivolte all’approfondimento de||e opere dei maestri del Medioevo, con particolare attenzione ai rapporti tra razionalità filosofia e rivelazione cristiana,