Storia Libera n.2 anno 2015
di Giovanni Formicola
Abstract A differenza degli altri partiti – che si candidavano al governo dello Stato tentando di conseguire la maggioranza elettorale – il Partito Comunista Italiano si è proposto, sin dagli inizi, come parte di un più vasto movimento rivoluzionario internazionale con una finalità che potrebbe addirittura dirsi escatologica, sebbene sui generis, in quanto immanente alla storia.
Nella coscienza dei suoi dirigenti e quadri superiori, il PCI incarnava l’avanguardia di un’umanità nuova – finalmente redenta da ogni male storico – fondatrice di un mondo nuovo, salvato e perciò definitivamente felice. In questo studio si analizzano le modalità peculiari della Rivoluzione comunista in Italia – che ha avuto significativi successi – ispirate alla lezione del pensatore e uomo politico sardo Antonio Gramsci: piuttosto che all’assalto armato al potere, puntare alla mutazione radicale della mentalità e del senso comune degl’italiani, favorendo l’allontanamento dalla loro tradizione religiosa e nazionale.
Parole chiave: Gramsci, comunismo, Italia, rivoluzione, egemonia culturale.
Unlike the other Parties – proposing themselves to rule the State seeking to win a majority of the popular vote – the Italian Communist Party (PCI) presented itself since the beginning as part of a vaster international revolutionary movement with a quasi-eschatological end of its own kind, being immanent in history. In the eyes of Party leaders and cadres, the PCI incarnated the advance guard of a new humanity, finally redeemed from any historic evil – founder of a new, saved, and hence forever happy world.
In this paper we analyze the peculiar ways of the Communist Revolution in Italy that gained noteworthy successes, consistent with writings and the thought by Antonio StoriaLibera Anno I (2015) n. 2 12 Gramsci, Sardinian thinker and politician. Rather than planning an armed assault to overthrow the government, the PCI worked for a radical change of mentality and common sense of Italian people, furthering the neglect of their national and religious tradition.
Keywords: Gramsci, communism, Italy, revolution, cultural hegemony.
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L’autore Giovanni Formicola (1957). Avvocato penalista napoletano. Socio fondatore di Alleanza Cattolica. È stato componente del Comitato regionale campano per la bioetica. Ha collaborato in modo indipendente a varie testate cartacee e online, tra le quali Cristianità, Catolicismo, Il Secolo d’Italia, l’Indipendente, Il Roma, il Giornale del Sud, il Corriere del Sud, l’Occidentale e la rivista di studi conservatori Cultura & Identità.
Impegnato nell’ambito della formazione storico-politica, ha al suo attivo circa duemila tra riunioni e seminari di studio nonché oltre trecento conferenze pubbliche in Italia e all’estero su temi religiosi, storici, politici, giuridici, bioetici e più in generale di Dottrina Sociale della Chiesa.
Il presente testo è una versione ampliata del contributo apparso con il titolo Il PCI, Gramsci e la Rivoluzione culturale italiana nel volume A Maggior Gloria di Dio anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, a cura di Pier Luigi Zoccatelli, Cantagalli, Siena 2008, p. 85-99.
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StoriaLibera Anno I (2015) n. 2
Gramsci e la via italiana al comunismo
Giovanni Formicola
IL “PREGIUDIZIO FAVOREVOLE”, che certamente condiziona parte della storiografia sul Partito Comunista Italiano (PCI), si estende all’opinione diffusa, anche in alto loco, che lo riguarda. Il tema non è di suo indifferente. La questione riguarda uno dei protagonisti della vicenda nazionale – e non solo – del XX secolo, soprattutto della sua seconda metà, che ha lasciato tracce profonde nell’assetto istituzionale, politico, sociale, economico, normativo, culturale e di costume dell’Italia in cui viviamo.
Dunque, provare a capire “com’era” davvero il PCI, e “che cosa ha fatto”, quale sia cioè l’impronta che ha lasciato nella storia d’Italia e che corrisponde alla sua natura, sembra tutt’altro che inutile. Perché, come sosteneva il primo storico marxista russo, Mihail N. Pokrovskij (1886-1932), «la storia è politica rivolta al passato» (1), e come sostiene Giovanni Cantoni (1938- viv.), fondatore dell’associazione Alleanza Cattolica, «chi sbaglia storia, sbaglia politica».
Quindi, scrutare nel passato recente della nostra storia il ruolo che vi ha svolto un soggetto come il PCI può aiutare a comprendere meglio, da un lato, l’azione dei suoi “eredi” – che, per esempio, se hanno rinunciato a molto dal punto di vista dottrinale, non hanno rinunciato al relativismo ed alle sue conseguenze operative –, e dall’altro può essere utile per meglio decifrare il presente. È ovvio che scopi così ambiziosi non possono essere perseguiti, per non dire conseguiti, con un lavoro come il presente. Esso però vuole essere una indagine affinché l’attenzione al tema rimanga ben desta.
Per tali motivi, non può che essere una ricostruzione sintetica, che si avvale soprattutto di materiale fornito dalla parte “indagata”, sicché l’essenziale apparato critico è formato per lo più, ma non solo, da documenti e scritti provenienti e divulgati da parte comunista, e cioè da autori, come Pietro Di Loreto, Giuseppe Carlo Marino (1939-viv.) e Miriam Mafai (1926-2012), molto vicini al vecchio PCI ed oggi ai suoi “eredi”, pertanto al di sopra di ogni sospetto (2).
1. Nessun discorso sul PCI può prescindere dal fatto che esso è stato – fino all’ultimo – componente attivo e protagonista del movimento comunista internazionale. Il cui orizzonte strategico è stato ispirato dalla nota massima marxiana, un vero e proprio “principio”, secondo la quale «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo» (3). Trasformazione che, secondo uno dei principali protagonisti del “colpo di Stato” bolscevico e dell’instaurazione del regime dei soviet, consiste nel mutare «la correlazione di forze politiche e sociali […] mediante il soggiogamento o lo sterminio di alcune classi della società» (4).
Ma consiste, soprattutto e ultimamente, in un rifiuto della natura umana ed in un tentativo, espressione di una smisurata volontà di potenza, di modificarla radicalmente, in vista dell’uomo nuovo, “superuomo” che non abbia più bisogno di Dio, della patria, della famiglia, della proprietà: con l’Ottobre, «[…] l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura» (5).
Il PCI, che ha sempre presentato il regime sovietico come il laboratorio di un mondo nuovo e migliore, e come luogo iniziale di esso, non ha mai dato alla sua azione politica una prospettiva minore. Infatti, l’URSS, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è stata proposta come autentica metafora del paradiso in terra: «La parola “Stalin” e, l’altra, “URSS” – che ne definiva le realizzazioni storiche (la vittoria sul nazi-fascismo, l’edificazione in concreto del migliore dei mondi possibili) – ben al di là della bonaria immaginazione di un grand’uomo del popolo con i baffi alla quale si riferivano, valevano come una metafora laica del paradiso cattolico: esprimevano unitariamente l’ideale di una felicità assoluta, sintesi di moralità e benessere, in alternativa alle promesse inquietanti e corruttrici del capitalismo americanista» (6).
Se questo – sia pur sinteticamente descritto – è stato l’orizzonte del PCI, la “lunga marcia” da esso intrapresa per raggiungerlo ha conosciuto tappe che – oltre ogni partigianeria o disinformazione – non ne illustrano certamente la memoria. Tra le tante, la natura di questo scritto consente di elencarne, e rapidamente, solo alcune, quelle che sembrano davvero “indimenticabili”.
Non si può non iniziare con il famoso appello ai «fratelli in camicia nera» (Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano! [7]) all’epoca della proclamazione dell’Impero sui colli fatali di Roma. Cui si può far seguire la connivenza, quando non la complicità attiva, con l’epurazione violenta di esuli antifascisti e comunisti di ogni nazionalità, e quindi anche italiani, riparati o emigrati in URSS, la “patria dei lavoratori”, dove sono stati imprigionati, deportati e molti di loro uccisi o morti nei campi di concentramento (8).
E l’elenco prosegue. Sono stati i comunisti del PCI che hanno ritenuto la morte nei campi di concentramento sovietici di migliaia di prigionieri italiani «[…] espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia» (9), e che ancora alla fine degli anni Quaranta si sono opposti presso i sovietici al rimpatrio dei superstiti (10).
Gli stessi che hanno approfittato della Resistenza, tentando di trasformare la guerra civile in “guerra di classe”, per crescere organizzativamente, eliminare possibili avversari, ed affermarsi come forza egemone (11). E che, quando «[…] non pochi elementi partigiani […] diedero vita alla tragica catena delle uccisioni nei confronti di ex fascisti, […] di avversari politici, possidenti e soprattutto preti» (12), non hanno lesinato «appoggio e simpatia per questi […] gruppi armati»(13), fino a giustificarne pubblicamente l’operato, con riferimento al cosiddetto “Triangolo della morte”: «Sarebbero zone dove, sì, sono morti parecchi traditori della patria e ben sono morti, pagando con la vita i loro delitti ed il loro tradimento»(14).
I comunisti italiani, poi, agli inizi della “guerra fredda” hanno svolto con piena consapevolezza il ruolo di “quinta colonna” in Italia del potere sovietico (come ha accertato Victor Zaslavsky, 1937-2009) (15), compiendo vere e proprie azioni di spionaggio (16), cospirando affinché Trieste e l’intera Venezia Giulia fossero lasciate a Tito (Josip Broz, 1892-1980) (17), ovvero fornendo informazioni ai sovietici sulla forza militare e sull’economia nazionali, nonché sui nostri rappresentanti diplomatici nell’URSS e nei suoi Stati satellite (18), pure appartenenti ad un’alleanza politico-militare nemica.
Il PCI, inoltre, ha goduto di enormi ed occulti flussi di finanziamento – in misura di gran lunga maggiore di ogni altro partito “fratello” e tale da renderlo una potenza organizzativa e propagandistica unica nel panorama politico occidentale – da parte dell’“impero” socialcomunista sovietico, fino alla sua implosione, per il tramite dell’organizzazione del KGB (19). Ed ha quindi assistito alla edificazione del Muro ed alla sua esistenza senza fiatare, o addirittura esaltandone la funzione, continuando fino all’ultimo ad avere relazioni più che amichevoli con i suoi custodi e gestori, dalla presenza degli stand della DDR ai festival de «l’Unità», agli scambi politico-commerciali, al contributo del segretario generale del partito comunista tedesco- orientale e presidente della Repubblica Democratica Tedesca Erich Honecker (1912-1994) alla celebrazione di Enrico Berlinguer (1922-1984) in un volume a lui dedicato dopo la sua morte (20).
Il PCI naturalmente voleva l’Italia fuori della NATO ed esclusa dal Piano Marshall, e aveva fatto una bandiera di queste posizioni, in nome della pace e dell’indipendenza nazionale. Applaudì ai carri che invadevano Budapest, e a tutte le rivoluzioni comuniste e terzomondiste: applaudiva a cataclismi che avrebbero lasciato dietro di sé solo morte, disperazione, rovine e miseria.
Proponeva un’economia socializzata e statalizzata come soluzione ad ogni problema sociale: il tentativo di realizzarla è all’origine d’interventi (21) che hanno ingessato ed ingessano, sotto il nome di Stato sociale, la vita economica e l’intera società italiana impedendone la crescita. Senza il decisivo contributo del PCI, almeno dall’inizio degli anni Settanta, non sarebbero state possibili le politiche di bilancio che hanno generato il mostruoso debito pubblico che grava sulle presenti e sulle future generazioni italiane.
Insomma, tutto quello che proponeva o che ha realizzato si è rivelato tragicamente dannoso, e nessuna delle sue previsioni storiche e politiche si è realizzata.
2. Nella prospettiva di trasformare il mondo, il movimento comunista trova in Vladimir Il’ic Ul’janov “Lenin” (1870-1924) un organizzatore ed un teorico dell’azione formidabile. La sua forza è nell’essere assolutamente coerente con la dottrina: come questa dissolve nella dialettica ogni verità data, così l’agire comunista, secondo Lenin e da Lenin in poi, si concede la massima libertà immaginabile, concepisce le proprie mani come assolutamente libere, anche dalla dottrina stessa (22).
È precisamente nella libertà di essere incoerenti rispetto all’ideologia che consiste la coerenza con essa, dato il suo carattere dialettico, cioè integralmente relativista (23): “vero”, “giusto” non hanno senso se non come traduzioni, per un mondo e per degli uomini che ancora non possono rinunciare a tali parole, del concetto di “efficace”, con riferimento alla capacità dell’azione di essere “rivoluzionaria”, cioè di determinare cambiamenti effettivi nella storia (24). Ed il primo cambiamento, condizione di tutti gli altri, cioè della Rivoluzione, è la conquista del potere da parte del partito rivoluzionario, cioè del partito comunista.
Se la teoria dell’azione ponesse degli ostacoli a tale conquista del potere, non sarebbe rivoluzionaria: ed allora non solo la vecchia morale borghese, ma anche una pseudo morale rivoluzionaria vanno superate. Così “morale”, sempre per usare una parola “vecchia” ma per il momento non ancora sostituibile, è solo ciò che consente la conquista ed il mantenimento del potere da parte del partito rivoluzionario per fare la Rivoluzione. Quindi, in questa coerenza dialettica, che sussiste proprio nella continua contraddizione, si combinano – ciò che può apparire all’uomo normale del tutto assurdo – la fede nelle leggi ferree della storia, e cioè una sua concezione deterministica, e la fede nell’onnipotenza dell’azione rivoluzionaria, svincolata da ogni limite, quanto alla scelta dei mezzi e dei gesti da compiere, che non sia la valutazione delle probabilità di successo.
«[…] La fede nell’onnipotenza dell’azione e l’idea delle leggi della storia […]: al culto della volontà […] Lenin aggiunge le certezze della scienza tratte dal Capitale. La rivoluzione recupera nel suo arsenale ideologico quel surrogato di religione […]. E combinando, a disprezzo della logica questi due modernissimi elisir, prepara una pozione tanto forte da inebriare generazioni di militanti» (25).
«Con Lenin, il rivoluzionario si trasforma da levatrice della storia, da “personificazione” come il capitalista di categorie economiche oggettive, che gli dettano modi e tempi del suo agire, in una sorta di superuomo, che assume su di sé il compito di deviare il fiume della storia dal suo corso, di sottometterlo, costi quel che costi, alla propria demiurgica volontà di potenza» (26). Applicando questo criterio, Lenin trascura le «fasi naturali dello svolgimento storico», destinate a succedersi secondo leggi operanti «con bronzea necessità», non attende che «si siano sviluppate tutte le forze produttive, che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali» per il passaggio a «nuovi e superiori rapporti di produzione», cioè al socialismo. Egli non attende che alla struttura «feudale-contadina» succeda quella «capitalistico-borghese», come insegna il materialismo storico, e passa all’azione.
Sfruttando una storica opportunità, la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), sceglie la via “giusta” per fare la Rivoluzione in Russia, misurata sul panorama storico che ne costituisce l’orizzonte concreto. In un paese poco articolato socialmente, in cui la struttura del potere politico è rigida e fortemente accentrata, Lenin – che ha formato il partito come élite di rivoluzionari di professione, «[…] una grande azienda per la demolizione e l’edificazione sociale» (27) che si prepara all’insurrezione armata per conquistare il “Palazzo” – non appena se ne presenta l’occasione, lo assale e lo conquista.
Però, la via militare ed insurrezionale (sostanzialmente golpistica), rivelatasi efficace in Russia, presto mostra la sua inadeguatezza nell’Europa occidentale, dove vivono i «popoli dominanti», secondo l’espressione marxiana. Uno dopo l’altro falliscono o si esauriscono le insurrezioni armate, i golpe attuati o tentati sul modello di quello bolscevico, dalla Germania all’Ungheria. Episodio determinante, che costringe il mondo comunista a convincersi che, per la Rivoluzione in Occidente, errato non è il paradigma di Lenin – “mani libere” nell’azione, primato del volontarismo rivoluzionario e del costruttivismo sul rispetto formale delle leggi della storia –, ma la sua scelta concreta, la via “militare”, è il cosiddetto «”miracolo della Vistola” – la battaglia in cui, il 15 agosto 1920, l’esercito dello Stato polacco “risuscitato” sotto la guida del maresciallo Jòzef Piłsudski [1867-1935], fermò davanti a Varsavia l’Armata Rossa in marcia verso il cuore dell’Europa per sostenere manu militari i moti spartachisti tedeschi» (28).
Tale episodio, insieme con tutti gli altri fallimenti, sollecita una riflessione, avviata dallo stesso Lenin – e che trova nell’italiano Antonio Gramsci (1891-1937) uno dei suoi maggiori protagonisti, insieme con l’ungherese György Lukács (1885- 1971) (29) –, sulle «difficoltà della Rivoluzione nei paesi a grande articolazione sociale, cioè nei cosiddetti “punti alti” del capitalismo» (30), che porterà alla elaborazione di una strategia per la quale «l’egemonia culturale ha il primato su quella politica» (31): il “gramscismo”, o per dir meglio il “marxismo-leninismogramscismo”.
3. «[…] Chi afferrò subito il vero significato dell’Ottobre fu Antonio Gramsci, che salutò l’exploit di Lenin come “la rivoluzione contro il Capitale” di Carlo Marx [1818-1883]. E al giovane socialista rivoluzionario italiano si deve l’avere acutamente compreso perché quella falsificazione era in realtà anche un inveramento: bastava leggere […] la dottrina marxiana del crollo del capitalismo non quale scienza, come pretendeva di essere, bensì quale mito: “Giovan Battista Vico [1688-1744] ha detto prima di Marx che anche la credenza nella divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia, diventando stimolo dell’azione consapevole”: cosa impedisce che “anche la credenza nel ‘determinismo’ [possa] avere avuto la stessa efficacia in Russia per Lenin e altrove per altri?”.
Detto altrimenti: cosa impedisce che la credenza di avere dalla propria parte le leggi bronzee dell’economia, anche se ciò non è vero, abbia sui rivoluzionari – purché fortemente convinti, e, soprattutto, purché riescano ad infondere quella fede fanatica nei loro seguaci – la stessa forza di spingerli a tutto osare, che ha avuto sui cristiani la credenza nella Divina Provvidenza, indipendentemente dall’esistenza o inesistenza di Dio?
E, si badi, […] Gramsci – che intendeva riferirsi in particolare all’Italia e in generale ai Paesi occidentali – chiariva come la scorciatoia del volontarismo e del mito, il primato della coscienza sull’essere, della politica sull’economia, del potere sulle leggi spontanee di sviluppo della società, della fede sulla scienza […] si rendeva indispensabile» (32). E sin qui siamo ancora nell’ambito “volontarista” del paradigma leniniano. In più, rispetto ad una concezione positivista del materialismo – si direbbe “engelsiana” –, nell’italiano Gramsci prevale quella dialettica, per la quale le basi materiali dell’esistenza (“l’essere”) sono condizionate, se non determinate, dalle idee, dal pensiero, dalla cultura (“la coscienza”) (33).
Perciò, secondo il suo pensiero, nei paesi sviluppati e civilizzati, la “via militare”, golpistica, non è quella giusta, o almeno non basta, e si pone l’esigenza di conquistare l’anima della società prima ancora del suo corpo. In mondi ricchi di storia e di cultura, di articolazione e stratificazione sociali, dunque, la conquista del potere politico non basta, e men che meno è possibile mirarvi attraverso tecniche golpistiche e/o insurrezionali: la società ha una sua soggettività che la rende capace di reazione e resistenza, tali da poter infliggere alla Rivoluzione una storica sconfitta.
Occorre allora pazientemente conquistarla dal di dentro: se in Russia la Rivoluzione “dall’alto” – dal Palazzo alla società civile – era stata possibile, anzi era l’unica possibile, altrove deve procedere “dal basso”, anche accettando una lunga «guerra di posizione» (34). Gramsci, riecheggiando tematiche tipiche di un certo pensiero che potremmo definire reazionario (35), distingue tra “società politica” (“paese legale”, il Palazzo, i luoghi – «casematte» nel gergo gramsciano – del potere politico-burocratico-amministrativo), e “società civile” (“paese reale”, corpi sociali intermedi, i luoghi dell’autorità e delle gerarchie spontanee o naturali).
E ritiene che si debba prima conquistare l’egemonia culturale su quest’ultima per essere in condizione poi di cogliere finalmente il potere politico come un frutto maturo, senza dover poi temere alcun sussulto reattivo (36): ed intanto, altro vantaggio di questa strategia, la Rivoluzione (intesa come sovversione delle idee e dei costumi) è già in corso nel profondo della società, e la successiva conquista anche del potere politico serve a proteggerne le realizzazioni, a consolidarle e ad accelerarne l’ulteriore processo.
La scelta insurrezionale, dunque, per il PCI, diventa una subordinata eventuale, e non per ragioni di principio o etiche (37) – bandite per definizione – ma perché giudicata inadeguata alla realtà italiana (38) e cioè perdente. E se qualcuno se ne dimentica o non lo comprende, lo stesso Stalin («che temeva in particolare una rivoluzione prematura» [39]) provvede a ricordarglielo: «Il 26 marzo [1948] Molotov [Vjaceslav Michailovič Skriabin (1890- 1986)] telegrafò a Kostylev la risposta del Comitato Centrale sovietico per Togliatti: […] “per quanto riguarda la presa del potere attraverso una insurrezione armata consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo”» (40).
La cosiddetta “svolta di Salerno”– cioè la decisione di collaborare con la monarchia e di far parte del governo di Pietro Badoglio (1871- 1956) – ordinata da Togliatti allorché rientra in Italia, dopo quasi vent’anni di assenza, nel marzo ’44, con la quale spegne ogni velleità insurrezionale, è decisa da Stalin stesso, e imposta ad un Togliatti, che ancora pensava all’insurrezione, nel corso di un colloquio al quale è presente Georgi Dimitrov (1882-1949), il potente segretario del Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, che lo attesta nei suoi diari: «L’interpretazione della svolta come un atto di indipendenza da parte di Togliatti nei confronti della […] linea politica di Stalin si dimostra soltanto un mito politico» (41). Tuttavia, il Partito conserva quell’apparato clandestino illegale ed armato (42) la cui esistenza ed organizzazione era condizione di adesione alla Terza Internazionale (43).
In occasione della riunione costitutiva del Cominform a Szklarska Poreba, in Polonia, il 22-27 settembre 1947, «Longo [Luigi (1900-1980)] con dignità e una certa fierezza, “Vi assicuro” dice fra l’altro “che il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento”» (44). E tutto questo è reso possibile anche da una certa benevolenza complice della polizia, che, come Togliatti riferisce nel 1946 all’ambasciatore sovietico a Roma, «lascia in pace le forze di sinistra e nello stesso tempo dimostra il suo attivismo nel perseguire e liquidare l’attività dei fascisti e dei monarchici. Se la polizia di Roma avesse voluto in questi giorni dare un’occhiata a cosa succede in certe sezioni dei partiti di sinistra avrebbe scoperto alcuni seri mezzi di difesa» (45).
Non è da escludere che «l’apparato», come i comunisti denominavano la loro organizzazione armata clandestina (46), “inabissatosi”, sia poi riemerso all’epoca del terrorismo prima gruppuscolare e poi professionalmente organizzato (47). Rimane il fatto che la prospettiva insurrezionale e l’azione violenta rimangono una subordinata, utile comunque la seconda, e quindi da agitare periodicamente, per intimorire il «nemico di classe». Intanto, però, la scelta legalitaria e democratica consente al PCI di “firmare” la Costituzione repubblicana, attuando ante litteram l’intenzione che sarà enunciata trent’anni dopo dall’allora segretario del partito, Enrico Berlinguer: «introdurre […] alcuni elementi, fini, valori, criteri propri dell’ideale socialista» (48).
L’egemonia di cui parla Gramsci non si caratterizza come direzione esplicita ovvero come infiltrazione: la sua essenza è l’influenza (49), la penetrazione “radioattiva” nella società per orientarne la mentalità, il costume, la cultura. Ma è anche modalità di condizionamento dei centri di decisione e delle polarità di potere attraverso la sapiente creazione di un clima ostile, ovvero favorevole, a determinati orientamenti: il partito, «moderno principe» (50) che organizza i suoi intellettuali organici, cioè coloro che preparano la giustificazione ai suoi gesti e danno esecuzione alle sue direttive “culturali”, si trasforma in gigantesco agente d’influenza, senza tuttavia trascurare il compito di conquistare, là dove è possibile, le «casematte del potere borghese» (51).
Esemplare, da questo punto di vista, è il coordinamento tra l’opera di infiltrazione (di facile attuazione perché vi si accede per concorso e quindi non è necessario conquistarsi un consenso) e la conquista dell’egemonia sul potere giudiziario: ordine senza vertice gerarchico e quindi luogo ideale di sperimentazione di un potere di fatto, di orientamento piuttosto che di direzione, a prescindere da qualsiasi titolarità formale ed istituzionale di un posto di comando. Senza che sia necessaria una qualsivoglia disposizione espressa, e spesso seguendo l’esempio di “avanguardie” costituite da veri e propri infiltrati, parte significativa della magistratura italiana si allinea periodicamente a determinati orientamenti: lassista, fino all’ipergarantismo, quando si tratta di “spezzare l’apparato repressivo dello Stato” o di proteggere i “socialmente e politicamente vicini”; dura e giustizialista, quando si tratta di colpire i “nemici dell’ordine e della legalità democratiche” ed i “fascisti”, ovvero quando si tratta di attaccare “legalmente” un potere costituito avversato (52).
Altrettanto esemplare, se non di più, è il processo di conquista dell’egemonia sui centri di elaborazione e diffusione dell’istruzione, dell’educazione, dell’informazione e della cultura popolare: dall’asilo all’Università, dai mass media ad ogni forma di spettacolo, massime quello cinematografico, mentre i sedicenti anticomunisti governano, da titolari dei ministeri competenti, il PCI orienta sempre di più e sempre meglio questi pedagoghi di massa.
Né vengono trascurati, dallo sforzo di egemonizzarli, i poteri economici e sindacali, e nemmeno quello ecclesiastico, cioè quello della Chiesa-soggetto sociale, opinionmaker. Trascuro qui di esaminare il ruolo “tribunizio” (53) del partito, che comunque sembra avere soprattutto un fine “promozionale”.
Si può dire che mentre Lenin, nella sua realtà sociale, si poteva accontentare di instaurare un potere sui corpi, pretendendo, ed ottenendo con i più atroci mezzi terroristici, l’obbedienza esteriore, tale obiettivo non è consigliabile, perché difficilmente conseguibile, in società altamente sviluppate ed articolate, tanto dal punto di vista culturale che da quello socioeconomico, con una pluralità di soggetti sociali attivi, radicati e corporativamente coesi, oltre che culturalmente coscienti della propria identità. Pertanto, per ottenere l’obbedienza esteriore occorre passare per quella interiore e dirigere le coscienze.
Se a Lenin, almeno inizialmente, basta che «si faccia quel che lui vuole», per Gramsci è indispensabile che «si pensi come lui vuole»: questo è il significato di quel «tutto è politica» (54), che elimina ogni ambito neutro e sottratto al pubblico controllo, prefigurando un totalitarismo tanto più insopportabile e tremendo, quanto più sottile, “democratico” ed esteriormente inavvertito. Il soggetto non reagisce non perché imprigionato, ma perché persuaso a rimanere immobile; non viene ucciso, ma si uccide; non viene censurato, ma si auto-censura.
4. Ma poiché nemo dat quod non habet, se il partito vuole conquistare l’egemonia sulla società, esso deve innanzitutto “egemonizzare” se stesso, cioè ottenere al proprio interno il controllo del modo di pensare e di essere dei militanti: «Il PCI […] è l’avanguardia organizzata e cosciente della classe operaia […] comprende i migliori elementi della classe dotati di vasta esperienza, di spirito di sacrificio e di devozione illimitata […]. Il partito deve essere il cervello pensante che sa dove, come e quando muoversi e in quale direzione, senza tuttavia perdere mai il collegamento con le masse, senza essere cioè troppo innanzi ad esse» (55). Ma questo è un obiettivo, piuttosto che un fatto, allorché il partito passa dalle poche migliaia di iscritti (circa tremila) degli anni Trenta, ai due milioni del 1948.
La modalità organizzativa non rinuncia al paradigma leninista: la coorte di ferro, ben disciplinata e gerarchicamente costituita, sebbene adattata ai tempi (non v’è più la clandestinità che favorisce una struttura rigida), ed ai luoghi (l’Italia, ça va sans dire, non è la Russia). La formazione del militante, la sua fedeltà alla linea, la sua capacità di essere un rivoluzionario di professione, ancorché alla ricerca dell’egemonia piuttosto che dell’insurrezione armata, sono esigenze irrinunciabili da soddisfare inderogabilmente.
Si distingue, però, di fronte al carattere di massa assunto dal partito, tra “dirigenti” – i veri rivoluzionari di professione – e compagni di base, dai quali si pretende di meno. In ogni caso, sempre tantissimo a fronte di quanto si è preteso – ed ottenuto – dai militanti di base degli altri partiti.
La formazione degli uni e degli altri viene curata, con modalità evidentemente diverse, ma, ciascuna nel suo genere, ugualmente rigorose, allo scopo di «[…] assicurare a tutti almeno quel tanto di marxismoleninismo di cui non si poteva fare a meno per comprendere la linea del partito […]. C’erano almeno due ordini di problemi da risolvere: quello dell’omogeneità del sapere da trasmettere […] e l’altro della maggiore semplificazione possibile dei processi di divulgazione […]. Chiunque avesse già posseduto una preparazione culturale […] sarebbe stato inviato a Mosca o, almeno, all’“università” italiana del Partito, la Scuola centrale quadri A. Zdanov di Roma. Ma per la massa […] era necessario organizzare un lavoro didattico-ideologico più diretto, rapido, capillare, essenziale ed efficace. […] La strumentazione della didattica fu affidata a una rete […] di “scuole” provinciali e regionali […] che organizzavano […] corsi e seminari di formazione politica ed ideologica. […] le scuole di partito […] perseguivano [il fine] di una vera e propria ristrutturazione della personalità umana e intellettuale degli allievi. Questi, distribuiti in “brigate di studio” […] erano chiamati tra l’altro a compiere un fondamentale atto di verifica della loro conseguita maturità marxista-leninista: l’autocritica, ovvero la pubblica confessione dei loro limiti personali e degli errori ideologici o politici commessi in tempi più o meno vicini. […] L’avvenuta nascita dell’uomo nuovo, pronto alla professione rivoluzionaria, era testimoniata dall’autobiografia nella quale venivano appuntati anche gli elementi essenziali dell’autocritica» (56).
«[…] “si realizza collettivamente quell’inventario, quel conosci te stesso di cui parla Gramsci”» (57). Complessivamente, nel periodo 1945-50 si organizzano 2.946 corsi per 52.713 allievi; in quello 1951-54, i corsi sono 13.479, per 254.072 iscritti (58). Uno sforzo enorme per l’auto-egemonia, in modo che la linea del partito, elaborata ed imposta secondo i criteri del «centralismo democratico» (59), venisse effettivamente seguita ed attuata nel lavoro rivoluzionario quotidiano.
5. In questo sforzo, il partito oltre a dover affrontare la complessità dell’articolazione della società italiana, deve fare i conti con la sua identità nazionale, con la sua cultura profonda, con il suo senso comune (60), tutti inequivocabilmente cattolici. L’ambasciatore sovietico in Italia, Kostylev, scrivendo a Molotov, ministro degli Esteri dell’URSS e quindi suo diretto superiore, sostiene che «la reazione italiana è capeggiata dal Vaticano» (61) , unica «istituzione che ha il coraggio e la sfrontatezza di […] ignorare i nostri interessi e permettersi dichiarazioni antisovietiche in forma così aperta» (62). E Togliatti definisce il Vaticano «l’avversario più irriconciliabile e organizzato di una maggiore trasformazione democratica dell’Italia» (63).
Ma se il Vaticano è il nemico, come combatterlo? L’esperienza della guerra civile spagnola (1936-1939), di attacco frontale e violento, era stata fallimentare, ancora una volta e semplicemente in quanto perdente (64). La via non può essere, dunque, quella di un anticlericalismo – ma sarebbe più esatto dire “anti-ecclesialismo”, anticristianesimo – “borghese”, ottocentesco, provocatorio (65). Occorre “dialogare”, al fine di coesistere in vista di uno svuotamento del cattolicesimo italiano dei suoi contenuti culturali e di una modifica del senso comune nazionale in direzione secolaristica: “ristrutturazione” dell’identità sociale analoga a quella dell’identità personale richiesta ai quadri e ai militanti.
Ma “dialogare” con chi? Togliatti distingue subito «tra la posizione della DC e di De Gasperi [Alcide (1881-1954)] e quella del Vaticano, ma anche all’interno della DC tra la posizione di De Gasperi e quella degli altri dirigenti» (66), facendo propria la lezione gramsciana sulle capacità disgregatrici dell’identità e della presenza cattoliche da parte del popolarismo, di cui coglie tutta la vena progressista (67), conformemente alla sua natura di espressione politico-sociale del modernismo teologico (68): «Il cattolicismo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama ordina, vivifica e si suicida. […] Perciò non fa paura ai socialisti l’avanzata impetuosa dei popolari […]. I popolari stanno ai socialisti come Kerensky [Alexander (1881-1970)] a Lenin» (69).
Egli sa che per la DC la questione della “messa fuori legge” del PCI non esiste (70). Sa, ancora con Gramsci, che il senso comune delle masse cattoliche è “arretrato”, conservatore, quando non “reazionario”. E perciò sa, finalmente, che rompere con la DC non gli conviene, perché se essa perde il legame con il PCI può essere risucchiata a destra; ma che non conviene nemmeno trascinarla troppo a sinistra, perché allora potrebbe perdere il suo legame con la base cattolica.
Egli perciò accetta sia l’estromissione dal governo del 1947 – per prevenire la seconda dannosa ipotesi –, sia la sconfitta elettorale del 1948 (71), frenando ogni estremismo, sempre ritenuto leninisticamente una «malattia infantile del comunismo» (72) – per prevenire la prima –: non scende dal “cavallo di Troia” eletto (73). E attraverso il dialogo permanente con la DC, anche negli anni in cui l’opposizione appare più dura, il PCI lavora per l’egemonia, cioè contro il “senso comune” nazionale: «La posizione della filosofia della praxis (74) è antitetica a quella cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune» (75).
«Una filosofia della praxis non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quindi innanzitutto come critica del “senso comune”» (76). È il tema, come è facile capire, di una «rivoluzione culturale» (77), che ha bisogno, per essere svolto, di un sostanziale accordo con i rappresentanti politici del mondo cattolico, che ne smorzino la reattività e provvedano ad emanciparlo, almeno sul piano della cultura politica e cioè della dottrina sociale, dal magistero della Chiesa e dalle gerarchie ecclesiastiche.
Misura di tanto è l’osservazione secondo la quale «i privilegi riconosciuti dalle legislazioni scolastiche e dai concordati all’insegnamento religioso sono diventati in effetti privilegi concessi ad un insegnamento privato che si deconfessionalizza nella misura in cui la Chiesa non è più capace di formare un personale insegnante ecclesiastico», in tal modo perdendo ogni controllo, dopo averlo perso per opera dei democristiani sulle «branche cattoliche degli apparati sindacale e politico, […] su altri apparati ideologici [come quello] scolastico» (78).
In altre parole, il cattolicesimo “cattolico” tende a perdere ogni influenza sulla società italiana, che si allontana così dalla propria identità, mentre i cattolici “emancipati” (o “adulti”) rimangono esposti alla tentazione, quando non all’influenza, di dottrine e filosofie laiche, materialistiche, se non addirittura marxiste, in una parola secolarizzanti (79). Questa Rivoluzione culturale che si compie, fa sì che il “nuovo senso comune” preconizzato da Gramsci influisca su tutte le polarità di potere esistenti in una struttura sociale ricca, articolata e stratificata qual è quella italiana, e che l’egemonia comunista diventi una realtà.
6. Conformemente alla sua “vocazione”, «[…] il partito di Togliatti, con le sue estese e variegate ramificazioni sociali, riusciva a funzionare davvero, oltre che come un grande coro di slogan, come un vero e proprio “cervello collettivo”» (80). Esso esercita una formidabile influenza, sempre crescente, sui mezzi di produzione e di divulgazione del pensiero, dell’arte, dello spettacolo, dell’istruzione e dell’educazione, e sui mezzi di produzione dell’informazione – prima forma di confisca, che “gramscianamente” deve precedere quella dei mezzi di produzione dei beni materiali e del potere politico.
Non tutti gl’intellettuali sono progressisti (81) – ed è difficile che tutti lo diventino –, ma attraverso tale influenza si tende ad escludere dal discorso pubblico ciò che non è riconosciuto “progressivo”, per cui editoria ed informazione radicalmente anticomuniste, ma anche di una sinistra non allineata, sono sempre più ridotte ad una sorta di semi-clandestinità e comunque destinate ad un’eco sociale ridotta. È il partito stesso – gigantesco ed occulto editore, impresario d’arte e spettacolo, oltre che produttore cinematografico – a decidere a chi dare la “patente” di progressista (82).
Accade così che – soprattutto dalla fine degli anni Sessanta – si divulghi, promuova, pubblichi e pubblicizzi in misura nettamente prevalente ciò che viene ritenuto, sotto l’influenza del partito, conforme alla sua cultura politica e, di più, alla sua politica culturale (83), mentre l’informazione viene influenzata almeno “negativamente”, spesso in forma di auto-censura, nel senso di attenuare o mettere la sordina su tutto quanto non sia gradito al moderno “principe” d’Italia. Questo “cervello collettivo” si propone «il “vero” cambiamento, ossia una ristrutturazione della società così radicale da dover essere realizzata solo dopo la conquista del potere» (84).
Ma non dopo la conquista del potere politico, bensì dopo la conquista del potere nella società civile, per “ristrutturarla dal basso”, e prepararla ad accettare il successivo ed inevitabile lavoro di “ristrutturazione dall’alto” che segue la conquista del potere anche sulla società. Ben sapendo che non può chiederle esplicitamente se vuole il comunismo, perché, come riconosce Gian Carlo Pajetta (1911-1990), di fronte alla domanda «[…] volete il comunismo o no? […] noi non potremmo mai avere una maggioranza legale» (85).
La partecipazione ai governi di unità nazionale, anche dopo il 1947, non viene dunque concepita come il fine ultimo dell’azione rivoluzionaria, allo stesso modo in cui la democrazia formale viene vista fin dall’inizio come «un mezzo per avviare la prima fase di transizione ad un sistema di tipo sovietico, anche se i tempi di questo passaggio non erano definiti» (86).
Lungo il percorso non viene trascurata l’esigenza di agire per la “ristrutturazione” della personalità e del modo di pensare dei militanti – figli anch’essi della “vecchia Italia” cattolica, e quindi impregnati dello stesso senso comune, che bisogna rimuovere sostituendolo con quello rivoluzionario (87) – non solo con attività di formazione teorica, ma anche con iniziative pratiche. Si tratta cioè di fare ai militanti quel che si vuol fare all’intera Italia: de-cattolicizzare la loro cultura, la loro mentalità, il loro costume. «Inizia così la battaglia contro le debolezze mostrate in materia di religione. […] Prendono corpo addirittura le controiniziative mattutine domenicali nelle campagne, in concomitanza e come alternativa alle funzioni religiose del giorno festivo […]. Così alla Messa si sostituisce l’assemblea nell’aia o nel granaio, all’officiante il capocellula, al Vangelo le “Questioni del Leninismo” o il “Breve corso di Storia del PC (b) dell’URSS» (88).
E se non è possibile sradicare la Fede, almeno bisogna separarla dalla mentalità, cioè dalla cultura intesa come modo di vivere e di giudicare. Questo lavorio produce i suoi effetti all’interno del PCI e nella società italiana, che subisce negli ultimi decenni del XX secolo una profonda, sebbene non totale, trasformazione del suo ethos e del suo modo di pensare.
La Rivoluzione culturale modernizzatrice proclamata da Gramsci contro il senso comune nazionale raggiunge il suo acme. L’egemonia è una realtà, gran parte dell’Italia perde la sua anima. Seppure non si perfeziona la socializzazione dell’economia, sebbene lo Stato non diventa totalitario more sovietico, se anche il PCI non lo conquista del tutto, tuttavia il socialismo diventa reale sul piano delle idee e del costume, nonché dell’influenza diffusa su tutte le polarità di potere esistenti.
«Quell’Italia […] era allora una ben povera Italia, ben distante dalla matura modernità industriale degli anni sessanta. […] resisteva […] un rapporto profondo con idee e valori di tradizione contadina […]. In quel contesto il PCI fu qualcosa di simile ad un grande laboratorio per la modernizzazione delle masse»89. Esso «fu […] un’immensa centrale di educazione collettiva» (90).
«[…] a partire dalla sua battaglia per le riforme di struttura, esercitò su tutti i processi della modernizzazione […] una spinta costante, conquistando un’egemonia che sarebbe fazioso disconoscere» (91). «Senza la complessa dialettica di fede vigorosa e di prudente e abile arte politica […] probabilmente non sarebbe stato possibile attuare quella grande e molecolare mediazione tra il marxismo e la tradizione cattolica […] i cui effetti sarebbero venuti pienamente alla luce dal ’68 agli anni settanta, quando poi la società italiana, dinanzi alle consultazioni referendarie sul divorzio e sull’aborto, avrebbe scoperto di essere […] più democratica, più responsabile, più tollerante, più laica» (92).
Questo bilancio di decenni di elaborazione e applicazione all’Italia della Rivoluzione culturale gramsciana, descrive la realizzazione forse più piena del marxismo, o “filosofia della prassi”, che si possa ipotizzare. Infatti, la critica dell’esistente, cioè un giudizio di condanna nei confronti del reale storico sottoposto a processo dai filosofi – ciò in cui consiste l’ideologia comunista (93) –, muove dalla critica della religione nella prospettiva della radicale “mondanizzazione” del mondo: Marx è più qui di quanto non sia in qualsivoglia programma di riforma socioeconomica (94).
La Rivoluzione culturale gramsciana, forse non da sola, ma certamente con un ruolo da protagonista se non dominante, ha portato ad una progressiva secolarizzazione (95) della società italiana, e in questo esito essa invera il marxismo nella sua essenza più autentica (96).
Note
1) Cit. in MIHAIL GELLER, ALEKSANDR NEKRIČ, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, Bompiani, Milano 1997, p. 5.
2) Si sono utilizzati soprattutto gli elementi documentalmente riscontrabili, onde evitare il sospetto di aver proceduto ad estrapolazioni tali da alterare il senso di ciò che viene riportato, ovvero di strumentalizzazione di scritti o dichiarazioni dal senso o dalla finalità diversi da quelli risultanti dalla citazione. Utilissime, però, per penetrare a fondo la psicologia dei protagonisti della storia del PCI e dello stesso partito, le opere dal tratto memorialistico di Massimo Caprara (1922-2009), particolarmente attendibili perché l’autore fu vicino al “Migliore”, cioè al segretario generale del PCI, Palmiro Togliatti (1893-1964), quanto nessun altro tra i dirigenti di partito, quale collaboratore e fiduciario personale. Cfr. MASSIMO CAPRARA, L’inchiostro verde di Togliatti, Simonelli, Milano 1996; IDEM, Quando le botteghe erano oscure. 1944-1969 uomini e storie del comunismo italiano, il Saggiatore, Milano 1997; IDEM, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, Milano 1999.
3) KARL MARX, Tesi su Feuerbach, in KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Materialismo dialettico e materialismo storico, La Scuola, Brescia, p. 84.
4) Così si esprimeva Feliks Edmundovic Dzerzinskij (1877-1926), primo capo e organizzatore della CEKA (Crezvycajnaja Kommissija po bor’be s kontrrevoljuciej i sabotazem, Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio), la polizia politica, istituita con decreto del SOVNARKOM (acronimo del Consiglio dei Commissari del Popolo, il governo sovietico) il 7 dicembre 1917, con lo specifico compito di reprimere con il terrore – anche preventivo – ogni possibile opposizione al potere bolscevico. Cit. in WILLIAM BRUCE LINCOLN, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, Mondadori, Milano 1994, p. 119.
5) VLADIMIR MAKSIMOV, Uno sguardo nell’abisso, Spirali/Vel, Milano 1992, p. 27.
6) GIUSEPPE CARLO MARINO, Autoritratto del PCI staliniano. 1946-1953, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 12. Ancora nel 1977, il segretario del PCI, on. Enrico Berlinguer (1922-1984), in un discorso all’assemblea degli operai comunisti lombardi (Milano, 30 gennaio 1977), rispondeva «no», «a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione di ottobre […], il ruolo che esercitano l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti […]; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei paesi» (ENRICO BERLINGUER, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 59).
7) Cfr. RUGGERO ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione cresciuta all’ombra dei fasci, 1, Garzanti, Milano 1971, p. 90-91; CAPRARA, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., p. 44-45.134; e lo storico comunista ALDO AGOSTI, Palmiro Togliatti, UTET, Torino 1996, p. 205-208.
8) Cfr. MIRIAM MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 144; CAPRARA, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., p. 11-19; AGOSTI, Palmiro Togliatti, cit., p. 214- 223; DANTE CORNELI, Il redivivo tiburtino. Un operaio nei lager di Stalin, Liberal Libri, Firenze 2000; GIANCARLO LEHNER, FRANCESCO BIGAZZI, La tragedia dei comunisti italiani, Mondadori, Milano 2000 e IDEM, Carnefici e vittime. I crimini del PCI in Unione Sovietica, Mondadori, Milano 2007; e, in forma romanzata ma sulla base di una rigorosa documentazione, DARIO FERTILIO, La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo, Marsilio, Venezia 2004.
9) Lettera del 15 febbraio 1943 di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco, cit. in VICTOR ZASLAVSKY, ELENA AGA ROSSI, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998, p. 165.
10) Ivi, p. 157-176.
11) «[…] Togliatti confidò […] che il PCI era “chiamato a diventare il ‘commissario politico collettivo’ dell’Italia combattente per ripulire la resistenza dalle persone non fidate e puntare sull’insurrezione socialista” perché molti reparti erano “inquinati, con la gente arrivata lì per caso, militari fuggiti dal fronte ed elementi anarchici”». «Fin dall’inizio obiettivo prioritario era stato l’egemonia sul movimento partigiano per assumerne la guida politica» (Ivi, p. 88-89). Cfr. anche RENZO DE FELICE, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 69-71.
12) PIETRO DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia e insurrezione (1944-1949), il Mulino, Bologna 1991, p. 73. Cfr. anche, per quel che concerne l’assassinio di numerosi esponenti del clero cattolico, ROBERTO BERETTA, Storie dei preti uccisi dai partigiani, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005.
13) MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata, cit., p. 47.
14) PALMIRO TOGLIATTI, Togliatti chiama a difendere le libertà costituzionali calpestate dal governo del privilegio e dell’imperialismo straniero, in L’Unità, 13 ottobre 1948.
15) «Uno dei miti più persistenti […] è stato quello che interpreta la storia del PCI come una costante evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca […]. Tale approccio ha portato a sottovalutare la caratteristica fondamentale di questo partito, l’appartenenza dei suoi dirigenti ad una élite rivoluzionaria guidata dall’Unione Sovietica» (ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 20), circostanza documentata dai resoconti, custoditi negli archivi di Stato e di partito a Mosca, delle centinaia di colloqui tra i dirigenti del PCI e l’ambasciatore dell’URSS a Roma, Mikhail Alekseevič Kostylev (1900-1974) dal quale gli italiani si recano quotidianamente “a rapporto” per la difficoltà di incontrare direttamente la leadership sovietica. «I dirigenti del PCI si sentivano in primo luogo e soprattutto rappresentanti degli interessi sovietici, anche quando rivestivano posizioni ufficiali nel governo italiano» (Ivi, p. 257).
16) «Durante gli anni della partecipazione delle sinistre al governo […] il contenuto delle sedute […], i problemi discussi e le decisioni prese erano spesso comunicati lo stesso giorno all’ambasciatore Kostylev da Togliatti o da altri rappresentanti comunisti del governo» (Ivi, p. 131). In una prospettiva globale, cfr. VASILIJ MITROKHIN, Dossier KGB «Rapporto Mitrokhin». Tutti i documenti dello spionaggio in Italia, Sapere 2000 Edizioni Multimediali, Roma 1999; ANDREI CHRISTOPHER, VASILIJ MITROKHIN, L’archivio Mitrokhin. Le attività segrete del KGB in Occidente, Rizzoli, Milano 2007; e, per una chiave di lettura del “dossier Mitrokhin”, MAURO RONCO, Ottobre 1999: a margine del «dossier» Mitrokhin, in «Cristianità», 27 (1999), n. 294 (ottobre), p. 3-6.
17) Cfr. ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 149; ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 56 passim.
18) Cfr. ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 131-132.
19) Cfr. VLADIMIR KOSTANTINOVIČ BUKOVSKIJ, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano 1999, p. 20-26; VALERIO RIVA, FRANCESCO BIGAZZI, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’URSS. Con 240 documenti inediti degli archivi moscoviti, Mondatori, Milano 1999; e l’opera del dirigente comunista GIANNI CERVETTI, L’oro di Mosca. La verità sui finanziamenti sovietici al PCI raccontata dal diretto protagonista, Baldini & Castoldi, Milano 1999.
20) Cfr. ERICH HONECKER, Un uomo di pace, così voglio ricordarlo, in Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, Roma 1985, p. 252-254.
21) «Il PCI, a partire dalla sua battaglia per le riforme di struttura, esercitò su tutti i processi della modernizzazione una spinta costante, conquistandosi un’egemonia che sarebbe fazioso disconoscere. Non era stato, infatti, il PCI, anche se non l’unico, certo un fondamentale motore della dinamica sviluppatasi nella formazione e nella crescita dello “Stato sociale”? Come sarebbe stato possibile, altrimenti, arrivare […] all’avvio di più coraggiosi indirizzi neocapitalistici e alle affermazioni del settore dell’economia pubblica […], alla nazionalizzazione delle fonti di energia, […] e allo “Statuto dei lavoratori”?» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 203).
22) «Per Kamenev [pseudonimo di Lev Borisovič Rosenfeld, (1883- 1936)], Stalin [pseudonimo di Josif Vissarionovič Džugašvili (1879-1953)] e altri bolscevichi il marxismo rappresentava una dottrina da cui non ci si poteva discostare, mentre per Lenin non esistevano verità dottrinali. Era preso da un’unica idea: l’idea del potere. […] L’aprile del 1917 può considerarsi la data di nascita dell’ideologia sovietica. Per la prima volta […] tale ideologia manifesta un carattere fondamentale […]: la sua duttilità; l’assenza di qualsiasi vincolo, la sua capacità di adottare istantaneamente ciò che ieri era stato condannato e viceversa» (GELLER, NEKRIC, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, cit., p. 26-27).
23) Nessuna descrizione migliore del carattere dissolutore di ogni verità e radicalmente relativista della filosofia hegeliana, “anima” di quella marxista, cui dà il fondamentale contributo della dialettica, possiamo trovare oltre la potente sintesi di Friedrich Engels (1820-1895): «Per questa filosofia non vi è nulla di definito, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascendere senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante. Essa ha però anche un lato conservatore: essa giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e per le loro circostanze, ma non va più in là. Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto – il solo assoluto che essa ammetta» (FRIEDRICH ENGELS, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 13 e s., cit. in FAUSTO CODINO, Introduzione a FRIEDRICH ENGELS, KARL MARX, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 12).
24) «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» (Ivi, p. 58).
25) FRANÇOIS FURET, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano 1995, p. 77.
26) DOMENICO SETTEMBRINI, Il fascino perverso del Diciassette, in «Ideazione. I percorsi del cambiamento», 4 (1997), settembre ottobre, n. 5, p. 71.
27) VICTOR SERGE (pseudonimo di Viktor Kibal’čič [1890-1947]), L’Anno primo della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1991, p. 42.
28) GIOVANNI CANTONI, Le grandi linee politiche in Italia nel quindicennio dal 1979 al 1994 in una prospettiva contro-rivoluzionaria con qualche orientamento operativo, 6 maggio 1994, inedito, p. 3.
29) Per un ritratto umano ed intellettuale del filosofo marxista ungherese cfr. FURET, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit., pp. 143-151.
30) CANTONI, Le grandi linee politiche in Italia…, cit., p. 3.
31) Ibid.
32) SETTEMBRINI, Il fascino perverso del Diciassette, cit., p. 71-72.
33) «[…] Gramsci condivide totalmente il punto di vista di Lenin per il quale prevale la coscienza, la direzione ideologica. […] Il partito non rappresenta più soltanto la direzione politica, ma è anche e soprattutto la direzione culturale delle masse» (HUGUES PORTELLI, Gramsci e la questione religiosa, trad. it. Mazzotta, Milano 1977, p. 213-214).
34) «In pratica […] si trattava di attuare temporaneamente, senza ridurre l’intensità della lotta di classe e senza rinunziare benché minimamente alle mete finali, quel passaggio, già previsto e consigliato da Gramsci, dalla guerra manovrata alla guerra di posizione» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 209, a proposito dell’azione politica del PCI).
35) Sul tema, con particolare riferimento al pensiero di Charles Maurras (1868-1952), cfr. JEAN PLUMYÈNE, Le Nazioni romantiche. Storia del nazionalismo nel XIX secolo, Sansoni Editore, Firenze 1982, p. 328-336 (334).
36) «Traendo le conseguenze del fallimento della rivoluzione in Italia, Gramsci distingue le “guerre di movimento” e le “guerre di posizione”. La rivoluzione russa del 1917 è un esempio di guerra di movimento: lo Stato zarista era essenzialmente un “apparato di Stato” burocratico e militare che non si appoggiava su una potente società civile, vale a dire su un importante complesso ideologico e culturale. L’essenziale era quindi il rovesciamento dell’apparato di Stato. Al contrario, in Occidente, in cui la forza della classe dirigente risiede soprattutto nella sua egemonia culturale, con l’intermediazione di potenti apparati ideologici, lo Stato è “solo una trincea avanzata, dietro cui sta[va] una robusta catena di fortezze e di casematte [la società civile]”» (PORTELLI, Gramsci e la questione religiosa, cit., p. 59).
37) «Esiste oggi una prospettiva immediata di insurrezione? Io ritengo che non sia giusto porre così la questione ma, certamente, un comunista non può escluderla in eterno…» (PALMIRO TOGLIATTI, intervento alla Direzione del PCI, seduta del 10 ottobre 1947, cit. in DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia e insurrezione (1944-1949), cit., p. 211). Cfr. anche, sulla “disponibilità” al ricorso a metodi diversi da quelli non violenti, la relazione e la successiva replica dello stesso segretario del partito al Comitato Centrale dell’1-4 luglio 1947: «Noi dobbiamo far capire al partito che, pur essendo oggi per uno sviluppo legale della lotta per la quale ci battiamo sul terreno della democrazia, noi non escludiamo però di essere costretti ad uscire da questo terreno della democrazia, noi non escludiamo di essere costretti ad uscire da questo terreno della legalità per cercare di conquistare la democrazia». «Da alcuni interventi mi è parso che dei compagni pensano che parlare di sviluppo di obbiettivi strategici, di lotta per una democrazia progressiva, voglia dire escludere dei conflitti e cioè escludere che la lotta politica delle classi bloccanti in un largo fronte democratico debba mai arrivare a degli urti violenti ed anche armati» (cit. in PIERO CRAVERI, Introduzione a GIANNI DONNO, La Gladio rossa del PCI (1946-1967), Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001, p. 35).
38) «La “via italiana al socialismo” che Gramsci propone nei Quaderni è dunque la conseguenza della struttura particolare della società civile in Italia» (Ivi, p. 228).
39) ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 68.
40) Ivi, p. 234.
41) Ivi, p. 58.
42) «Secondo dati del ministero degli Interni tra il 1946 e il 1953 erano stati scoperti 173 cannoni, 719 mortai, 35.000 fucili mitragliatori, 37.000 pistole e rivoltelle, 250.000 bombe a mano, 309 radiotrasmittenti» (MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, cit., p. 128), «27.123 fucili e moschetti da guerra, 995 mitragliatrici, 5,746 quintali di esplosivo, 5.480.879 munizioni» (DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 320). Cfr., G. DONNO, La Gladio rossa del PCI, cit.. Per una chiave di lettura, che prende spunto da un inopinato decreto d’archiviazione dell’inchiesta penale sull’“apparato” del PCI, cfr. MAURO RONCO, Gladio rossa, l’«inchiesta impossibile», in Il Secolo d’Italia. Quotidiano del MSI-DN, 30 ottobre 1994
43) Cfr. GELLER, NEKRIC, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, cit., p. 139.
44) MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata, cit., p. 53.
45) Colloquio verbalizzato tra l’ambasciatore Kostylev e Togliatti, del 24 maggio 1946, cit. in ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 242.
46) Cfr. DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 64.
47) Cfr. GIOVANNI CANTONI, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980, p. 107.
48) ENRICO BERLINGUER, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 25 e 54.
49) Cfr. RONCO, Ottobre 1999: a margine del «dossier» Mitrokhin, art. cit.
50) ANTONIO GRAMSCI, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1561.
51) PORTELLI, Gramsci e la questione religiosa, cit., p. 59.
52) Cfr. CARLO BONINI, FRANCESCO MISIANI, La toga rossa. Storia di un giudice, Marco Tropea Editore, Milano 1998; ROMANO CANOSA, Storia della magistratura in Italia. Da piazza Fontana a Mani Pulite, Baldini & Castoldi, Milano 1996; e, dal punto di vista di un magistrato non progressista, ROMANO RICCIOTTI, Giudici e impegno politico, in «Critica Giudiziaria», 5 (1981), n. 5-6 (settembre-dicembre), p. 17-45 (con appendice di documenti), e p. 175-180.
53) Cfr. GEORGES LAVAU, Il Pcf, lo stato e la rivoluzione. Un’analisi delle politiche, delle comunicazioni e della cultura popolare del partito, cit. in PIETRO IGNAZI, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna 1992, p. 11.
54) GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 886.
55) Breve corso di cultura marxista, disp. IV, p. 3-4, cit. in MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 15.
56) Ivi, p. 65-70.
57) MARIO SPINELLA, La Scuola Centrale del Partito, in «Rinascita», 5 (1948), n. 8 (agosto), cit. in MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 228 (le sottolineature sono di quest’ultimo).
58) Cfr. IGNAZI, Dal PCI al PDS, cit., p. 38.
59) «[La maggioranza] depurata da influenze personali, assoluta e oggettiva – volontà generale e non volontà di tutti – identificava quella che correntemente veniva indicata come la “linea politica” del partito, un ideale concreto che richiamava un alcunché di trascendente e di mistico, un comando autorevole dall’alto, sostanziato di democratico consenso, ineffabile per chiunque non fosse un militante ideologicamente maturo. […] Formalmente la linea politica […] veniva “elaborata, discussa, stabilita, adottata dal congresso nazionale costituito dai delegati eletti […] in pratica […] nessuno avrebbe potuto essere eletto se non fosse stato preliminarmente riconosciuto in linea col partito”» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 26-27).
60) Sul “senso comune”, come compendio di verità di immediata evidenza, che non hanno bisogno di particolare dimostrazione e che sono il principio e fondamento di ogni discorso, cfr. ANTONIO LIVI, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede, Ares, Milano 1990; e GIOVANNI. CANTONI, Elogio del senso comune, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, 17 ottobre 1997.
61) Lettera del 6 gennaio 1945, in ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 118, nota 8.
62) Lettera del 3 marzo 1945, Ivi, p. 78.
63) Togliatti all’ambasciatore sovietico a Roma, Kostylev. Colloquio dell’11 marzo 1945, verbalizzato. Cit. ivi, p. 79.
64) Cfr., da ultimo, CAPRARA, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., specialmente p. 73-104.
65) «[…] pur con tutto quell’impegno di secolarizzazione e, potenzialmente, di laicizzazione integrale […] mai i comunisti avrebbero sollevato direttamente questioni come quelle del divorzio e dell’aborto» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 101). È in questa stessa prospettiva che va considerato l’assenso dei comunisti all’art. 7 della Costituzione, che recepiva il Concordato dello Stato italiano con la Chiesa cattolica, “costituzionalizzando” i Patti lateranensi dell’11 febbraio 1929.
66) ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 115.
67) «All’inizio si rivendicavano trasformazioni sociali analoghe a quelle che rivendicavamo noi, per cui era inevitabile che considerassimo possibile e persino necessaria una collaborazione di governo con questo partito» (PALMIRO TOGLIATTI, Rapporto al VI Congresso del PCI, 4 gennaio 1948, cit. in DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 232). Leopoldo Elia (1925- 2008), noto ed autorevole esponente democristiano, più volte parlamentare, ministro ed anche Presidente della Corte Costituzionale, dirà che «De Gasperi avvertiva il pericolo che fare dell’anticomunismo la ragione dominante della propria fortuna politica poteva alimentare tendenze reazionarie» (LEOPOLDO ELIA, Dossetti, Lazzati e il patriottismo costituzionale, in A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), il Mulino, Bologna 2003, p. 137-155 [p. 147]). Sulla DC e sul “progressismo cattolico”, laico ed ecclesiastico, cfr. CANTONI, La «lezione italiana», cit., in particolare i capitoli Sulla «questione democristiana» (p. 33- 54) e Sul «compromesso culturale» (p. 165-219).
68) «Il modernismo non ha creato “ordini religiosi” ma un partito politico, la democrazia cristiana» (GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 1384), cioè, «modernismo significa politicamente democrazia cristiana» (Ivi, p. 1305). Sul modernismo cfr. SAN PIO X, Pascendi Dominici gregis. Sugli errori del modernismo, Cantagalli, Siena 2007. 69 ANTONIO GRAMSCI, I popolari, in «L’Ordine Nuovo», 1 (1919), n. 24 (1 novembre 1919), in ID., L’Ordine Nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1954, p. 286. Commento a questo giudizio di Gramsci è in un’intervista rilasciata dall’on. Ciriaco De Mita al Corriere della Sera del 23 agosto 1999, nella quale l’autorevole esponente democristiano, facendo eco quasi letterale, non so quanto consapevolmente, alla tesi di un vecchio democristiano francese, Georges Bidault (1899-1983), dichiara che «quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda spiegheranno che il grande merito della DC è stato quello di avere educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La DC prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra». Qualche anno dopo, un noto intellettuale cattolico-democratico, il professor Pietro Scoppola (1926-2007), in un intervento a margine della trascrizione e pubblicazione del colloquio che aveva avuto nel 1984, insieme con l’esponente democristiano Leopoldo Elia, con Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Giuseppe Lazzati (1909-1986), avrebbe ulteriormente – ed autorevolmente – confermato questa tesi sull’azione e l’identità politica autentiche della DC: «In sostanza, la DC ha sempre raccolto un elettorato prevalentemente moderato, che è stato tuttavia coinvolto in una politica prevalentemente diretta (tranne alcune parentesi) ad un ampliamento verso sinistra delle basi di consenso alla democrazia e alla funzione di governo» (PIETRO SCOPPOLA, Dossetti dalla crisi della Democrazia cristiana alla riforma religiosa, in A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., p. 132 [p. 115-135]).
70) «In Italia […] non fu mai all’ordine del giorno una messa fuori-legge del Partito Comunista: e questo va a merito non solo di De Gasperi, ma anche, e più, di Togliatti» (LUCIANO CANFORA, Togliatti e i dilemmi della politica, Laterza, Bari 1989, p. 109, cit. in DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 240).
71) Sul 1948, cfr. 18 aprile 1948. L’«anomalia» italiana, a cura di Marco Invernizzi, Ares, Milano 2007.
72) VLADIMIR IL’IC ULIANOV LENIN, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, con una prefazione di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1974.
73) «Togliatti rilevava nel nostro paese […] la presenza di una consistente massa contadina orientata verso la DC […] che lo induceva a considerare questo partito l’alleato determinante […] nonché ad insistere […] sull’urgenza di un accordo con esso, concepito quasi come un presupposto per l’azione comunista» (DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 101).
74) È il nome che Gramsci dà al materialismo dialettico-storico, in una versione che accoglie coscientemente l’eredità de «la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita» (GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., vol. III, p. 1860).
75) Ivi, p. 1384.
76) Ivi, p. 1383.
77) «Per Gramsci il marxismo non è unicamente una rivoluzione sociale e politica, esso è anche (e soprattutto) una rivoluzione culturale che riuscirà là dove il cristianesimo è fallito: formare una nuova umanità» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 199).
78) PORTELLI, Gramsci e la questione religiosa, cit., p 222.
79) Sulla “tentazione” laicista per i cattolici, cfr. Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al clero, del 25 marzo 1960, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, vol. I, 1954-1972, Edizioni Dehoniane, Bologna 1985, p. 76-95, ed il commento di FRANCESCO PAPPALARDO, «Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al clero» del 25 marzo 1960, in «Cristianità», 35 (2007), n. 340 (marzo-aprile), p. 13-18.
80) MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 72.
81) Assai istruttiva, sebbene limitata al periodo d’“incubazione”, la ricostruzione di NELLO AJELLO, Intellettuali e PCI. 1944/1958, Laterza, RomaBari, 1979.
82) «Il partito che dirige l’opera grandiosa di costruzione di una società nuova, di una società socialista, è responsabile, in quanto organizza la parte migliore della società, anche degli indirizzi culturali e artistici» (RODERIGO DI CASTIGLIA, pseudonimo di Palmiro Togliatti, Orientamento dell’arte, in «Rinascita», 6 (1949), n. 10 (ottobre), cit. in MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 169).
83) «Il partito di Togliatti era […] diventato l’incontestato principe dei produttori di cultura» (MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 144); «[…] nonostante la scarsità di contributi della cultura marxista negli anni sessanta, nel decennio successivo essa ottiene la sua massima diffusione: la vulgata marxista permea ogni strato del ceto intellettuale e ne diviene la koiné [Bobbio denunciava così il clima culturale dominante: “nelle università sta dilagando un conformismo marxista di pessima lega, un vero e proprio caso di aristotelismo” (Quale socialismo, Torino, Einaudi, 1976, p. 88)]» (IGNAZI, Dal PCI al PDS, cit., p. 35 e nota p. 76). Dopo due decenni Manlio Cancogni gli avrebbe fatto eco così: «[…] l’egemonia della sinistra fu totale e intossicante. Si iniettò un vero veleno, un ideologismo a tutto campo; ne nacquero conformismo, paura. […] La cultura italiana […] si lasciò invadere da un miscuglio di marxismo (ingrediente base), evoluzionismo, psicoanalisi, relativismo con un tocco finale di Nietzsche e nichilismo heideggeriano. […] Chi non s’adeguava era escluso» (L’egemonia culturale è stata come un’ubriacatura cupa e priva di gioia, intervista a Il Foglio Quotidiano, 7 giugno 1996).
84) ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p. 84.
85) GIAN CARLO PAJETTA, intervento alla Direzione del PCI, seduta del 26 aprile 1948, cit. in DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 260.
86) ZASLAVSKY, AGA ROSSI, Togliatti e Stalin, cit., p 182. «Ciò che Togliatti definiva “una democrazia di tipo nuovo” […] costituiva una chiara prospettiva di avanzamento verso il socialismo nelle forme leniniste della “rivoluzione ininterrotta per tappe”» (DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 26).
87) «Creare un nuovo “senso comune” significa per Gramsci creare “una nuova cultura e […] una nuova filosofia che si radichino nella coscienza popolare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali”» (PORTELLI, Gramsci e la questione religiosa, cit., p. 217).
88) DI LORETO, Togliatti e la «doppiezza», cit., p. 340-342.
89) MARINO, Autoritratto del PCI staliniano, cit., p. 11.
90) Ivi, p. 202.
91) Ivi, p. 203.
92) Ivi, p. 212.
93) Cfr. nota 3.
94) «Marx si pose sin dall’inizio in un atteggiamento di critica radicale di fronte a tutto ciò che si presentasse come “stabilito”: il suo intento era di fare “una critica spietata di tutto l’ordine esistente”» (FERNANDO OCARIZ, Il marxismo ideologia della Rivoluzione, Ares, Milano 1977, p. 73), nella cui prospettiva, «La critica della religione è il presupposto di ogni critica» (KARL MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in IDEM, La questione ebraica e altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 91).
95) «[…] cioè [l’]estromissione della motivazione e della finalità religiosa da ogni atto della vita umana» (GIOVANNI PAOLO II [1978-2005], Discorso ai Vescovi dell’Emilia Romagna in visita ad limina Apostolorum, del 1 marzo 1991).
96) «Un’influente derivazione del marxismo […] ha la sua ispirazione principale […] da parte dell’italiano Antonio Gramsci […], ed è uno storicismo relativista […]. Althusser […] non esita a qualificare il marxismo gramsciano “relativismo borghese” […]. Questa versione marxista è quella maggiormente operante politicamente in Occidente […]. E la copertura speculativa di questo materialismo borghese, ateo, occidentale, è una “filosofia postmarxista”, che potrebbe riassumersi nel titolo di relativismo assoluto, il quale è […] la negazione completa della tradizione, intesa come consegna di verità meta-storiche. […] Ne risulta così il triste panorama attuale, quasi un circolo vizioso, in cui lo spirito borghese e lo spirito rivoluzionario si alimentano a vicenda, dando origine ad una decomposizione brutale dei livelli superiori dell’uomo e della società: religione, morale, filosofia, ideali…» (OCARIZ, Il marxismo ideologia della Rivoluzione, cit., p. 226-227)