I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale
Voci per un Dizionario del Pensiero Forte
di Oscar Sanguinetti
1.La Rivoluzione
La storia dell’Europa in Età Moderna — quel periodo che convenzionalmente segue al cosiddetto Medioevo e che alcuni distinguono in Età Moderna e in Età Contemporanea — si può legittimamente scandire in tre o quattro grandi plessi di eventi, fra loro cronologicamente successivi ma logicamente connessi, che coincidono ciascuno con un mutamento significativo che la cultura, le idee, gli assetti sociali subiscono sotto la spinta di varie e cospiranti forze. Un particolare angolo visuale di questi mutamenti è il loro rapporto con il mondo medievale, ossia la misura del loro ininterrotto scostamento dal modello di civiltà cristiana che fra il IX secolo, dall’incoronazione di Carlo Magno (742-814), grosso modo al secolo XV, domina fra i popoli del Vecchio Continente.
Questo distacco, questa traiettoria di graduale emancipazione dalla fede cristiana nella sua duplice dimensione di fede in un ordine naturale presieduto dal logos divino e di fede dal Logos di Dio rivelata, dallo storico non credente è letto con categorie «laiche». se non — a seconda delle ispirazioni — come fenomeno positivo. Mentre dallo storico credente non può non essere visto come un processo di apostasia collettivo e sanzionato attraverso l’erezione di istituzioni e ordinamenti giuridici diversi e nemici di quelli «cristiani».
Tale processo è stato analizzato specialmente dopo che esso dalle idee si è trasfuso in realtà politiche tangibili con la Rivoluzione «francese» del 1789 e spesso gli autori che vi si sono dedicati gli hanno associato il nome di «Rivoluzione» tout court, con la «r» maiuscola, per sottolinearne l’unitarietà e la dominanza. Un processo che la cui «cinetica» conosce tanto la forma ad alta velocità, «acuta», con strappi ovvero «rivoluzioni» in senso stretto, quanto la modalità lenta e «moderata», lineare, apparentemente pacifica.
Le sue origini si ritroverebbero nel primo sforzo di elaborazione di una cultura e di un mondo sociale diverso da quello medievale tentato, con successo, dagli umanisti secolaristi e dal Rinascimento naturalistico; la sua prima frattura, di ordine religioso, sarebbe la Riforma evangelica, con la conseguente lacerazione della cristianità, che ha come contraccolpo il declino del Sacro Romano Impero; il suo «salto» nella politica la Rivoluzione francese; la sua radicalizzazione in campo economico e sociale la Rivoluzione comunista del 1917.
Infine, il pensiero contro-rivoluzionario novecentesco ha aggiunto alle tre «classiche» una quarta fase, quella della rivoluzione non più attiva nelle macro-strutture, bensì che attacca in maniera osmotica e capillare le micro-strutture e colpisce l’interiorità dell’uomo e della donna, sovvertendo la retta gerarchia dell’intelletto e della volontà, un fenomeno che ha come evento emblematico i moti studenteschi del 1968.
A tale realtà processuale, di natura eminentemente e prioritariamente culturale, si può ricondurre, con un alto tasso di correlazione, anche il fenomeno, apparentemente neutro, della Grande Guerra.
2.Grande Guerra, «prodotto» della Rivoluzione
La Prima Guerra Mondiale scoppia a cento anni esatti dalla fine del ventennale ciclo di guerre «napoleoniche», che, a partire all’incirca dal 1795, ha devastato in maniera mai così grave, neppure al tempo della tremenda Guerra dei Trent’anni (1618-1648), il Vecchio Continente, dalla Spagna alla Russia, dal Baltico alle Calabrie. Al Congresso di Vienna, svoltosi nel 1814-1815, approda una Europa esausta e ferita dal sogno imperiale «laico» francese, una Europa profondamente «lavorata» e mutata dalle dinamiche socio-politiche messe in atto da governi dominati dalle idee del 1789 e in cerca di nuovi e stabili equilibri.
La Restaurazione arresta per oltre trent’anni la spinta rivoluzionaria che attacca le strutture politiche, ma non ne annulla il disegno e i conati volti a un ritorno agli assetti democratici o semplicemente «riformati» del periodo rivoluzionario e napoleonico.
Negli anni fra il 1815 e il 1847 le idee della Rivoluzione francese continuano a operare e fermentare, ma i circoli rivoluzionari aggiornano la loro strategia operativa. È un fatto che la sconfitta dell’imperialismo cosmopolitico e post-rivoluzionario di Napoleone Bonaparte (1769-1821) è dipesa dal tentativo di imporre un ordine nuovo all’Europa troppo «geometrico», troppo accelerato ed eccessivamente affidato alla fortuna delle armi: Napoleone non ha tenuto conto delle forze che l’antico regime, attraverso le potenze anti-francesi, era in grado di mettere in campo. Senza dimenticare che la vittoria ha assai irrobustito e galvanizzato queste forze.
La Rivoluzione non cessa di cercare la «Rivoluzione in un solo Paese», la Francia, che, in effetti, presenta più cospicui residui, anche materiali, del regime post-1789 e conta le più numerose e radicali centrali ideologiche. In Francia le ondate libertarie e ugualitarie saranno molteplici e multiformi, dal Luglio orleanista del 1830, al Quarantotto delle barricate repubblicane, al 1870-1871 socialista e anti-clericale della Comune parigina.
Altrove, per riprendere la sua marcia sceglie invece una via alternativa: attaccare l’ordine restaurato — ma restaurato solo al vertice, lasciando ancora l’amministrazione ispirata alle prassi e gli ordinamenti giuridici improntati ai codici napoleonici — dal basso, attraverso i popoli, usando come solvente e come leva la nazione, ideologizzandola nel nazionalismo.
L’idea di nazione scaturita dalla Rivoluzione del 1789 non è più quella antica, politicamente neutra, di popolo, ossia di insieme di famiglie con caratteri etnico-linguistici comuni e uno specifico territorio di stanziamento: una nozione che prescindeva più o meno ampiamente dall’aggregato politico di cui la nazione si trovava a far parte.
La nazione in senso moderno, la nazione rivoluzionaria, concepisce illuministicamente il popolo come una somma d’individui uguali, con i medesimi diritti, che si danno da soli ordinamenti politici liberi — o liberali —, forme di rappresentanza democratiche all’interno di un contenitore statuale in tesi a copertura «nazionale».
Se il generale vandeano François Athanase Charette de La Contrie (1763-1796) può affermare nel 1795 che per lui la patria è quella terra che ha sotto i piedi, la terra dove riposano le ossa dei suoi avi, per il rivoluzionario — dice sempre Charette — la patria è un concetto astratto, che sta nel «cervello»: non più una terra, ma una idea, ovviamente ritenuta giusta e santa, una fraternità che scaturisce dalla comune lotta per la libertà e per l’uguaglianza.
La Rivoluzione della prima metà dell’Ottocento, dove ve ne sono le condizioni, usa largamente di questo concetto distorto di nazione — temperato, ma anche reso più forte, dallo storicismo romantico — per far leva sul sentimento indipendentistico di diversi popoli europei, dagl’italiani del nord agli slavi e per contrapporli ai governi della Santa Alleanza, con lo scopo di rovesciarli e di dar vita a nuove realtà statuali indipendenti e unitarie sotto il profilo della nazionalità, dagli ordinamenti egualitari e liberali.
L’inganno dei vari Risorgimenti e Unità sta proprio qui: il fine è sempre il «risorgimento», ovvero l’adozione di forme politiche democratiche in senso ideologico, e non l’unificazione «nazionale» o l’indipendenza, che ne sono mere opportunità: se l’Austria fosse diventata repubblicana e democratica, forse per Giuseppe Mazzini (1805-1872) non sarebbe poi stata così prioritaria l’indipendenza…
La fase «1.0» di questa strategia si può vedere aperta dai moti italiani del 1831 — contraccolpo di quello francese del Luglio 1830 — e conclusa dal Congresso di Berlino del 1878, in cui l’«Europa delle nazioni» e dei «risorgimenti» vede la sua prima sanzione. Anche se la Francia ha però subito la «ferita» della perdita delle due regioni mistilingui poste al suo confine orientale, Francia e Spagna sono stabili nei confini di sempre. Invece dal drastico ridimensionamento dell’Austria sono sorte — e «risorte»… — tre potenze «regionali», che influenzeranno non poco il futuro d’Europa: Italia, Germania — che ha scelto forme politiche federali e un «involucro» imperiale — e Serbia-Montenegro.
La carta del Vecchio Continente uscita da Berlino sarà la stessa per circa quarant’anni, ma l’Europa che sarà tutt’altro che stabile e quieta. Il dèmone del nazionalismo, evocato per debilitare l’Austria — il vero nemico della Rivoluzione sul Vecchio Continente — attraverso le crisi del Quarantotto, del Cinquantanove-Sessanta, del Sessantasei e del Settanta, nonostante, o forse in omaggio, alla dottrina dei «confini naturali», ha creato Stati indipendenti e nazionali che in realtà sono dei mini-imperi pluri-nazionali e i vari irredentismi che sorgono al loro interno altrettante mine dell’ordine europeo.
Non solo: il nazionalismo non più del tipo «nazione contro impero» — il nazionalismo «di sinistra», di marca mazziniana e sociale — ma «nazione contro nazione» — un nazionalismo in tesi «di destra», di orientamento conservatore dell’ordine post-rivoluzionario — è ancora più radicale e virulento di quello antico. Lo sviluppo della rivoluzione nelle idee vena il primo di anarchismo e di socialismo e lo spinge sempre più verso il terrorismo, mentre fa sì che il secondo ceda sempre maggior spazio a teorie «suprematistiche» e positivistiche, intrise di biologismo e di arcaismi razzisti.
Al primo corrispondono i vari «pan-» che cominciano a diffondersi nella letteratura politica e nelle cronache: panslavismo, pangermanesimo, panrussismo, panturanismo — quello turco —, e così via. Al secondo, l’irrigidimento autoritario dei governi e la competizione sfrenata fra gli Stati, che non si ferma ai confini europei ma assume forme imperialistiche e tracima nei teatri oltremare. La seconda metà dell’Ottocento vede la gara non di rado conflittuale fra i Paesi europei nell’accaparramento delle risorse mondiali e nell’assoggettamento coloniale dei popoli africani e asiatici.
Processi «silenziosi», ulteriori rispetto al nazionalismo «avanzato» tardo-ottocentesco, come l’avanzata fase della Rivoluzione industriale e la crisi della cultura umanistica europea che, con Sigmund Freud (1856-1939), Friedrich Nietzsche (1844-1900) e l’esistenzialismo, scivola verso paradigmi decadenti e «post-moderni», alimentano tensioni sempre più forti.
Tutte queste tensioni che si addensano nella fase «1.0» devono fatalmente sfociare in una fase «2.0».
La Grande Guerra — di cui l’aggressivo nazionalismo del neonato Stato serbo è l’innesco — è l’evento, tragico che segnerà questa svolta. Un evento che si racchiude in un sostantivo e due aggettivi, ma in realtà un «lungo». interminabile evento, se si pensa che il ciclo bellico che si può rubricare sotto la dicitura «prima guerra mondiale» si apre nell’estate del 1914 al confine serbo e si esaurisce all’incirca nel 1921 nel Baltico e al confine russo-polacco.
Nel 1914 le potenze europee e i vari nazionalismi decideranno di procedere a un «regolamento di conti» a lungo rimandato, ma il dramma sarà che tutte queste forze impazzite attueranno questa resa dei conti non come nel secolo precedente, ossia con un conflitto limitato e soggetto a regole quanto meno di cavalleria, bensì in un modo nuovo e barbaramente moderno — ergo più devastante —, usando tutta la stupefacente potenza materiale che il secolo del Ballo Excelsior, del mito del progresso tecnico, metteva a loro disposizione per fare la guerra.
3.Grande Guerra, come «produttrice» di Rivoluzione
3.1 Le conseguenze sociali
Un primo «prodotto» rivoluzionario della guerra 1914-1918 sono le persone che vi trovano la morte o ne subiscono danni irreparabili.
Le vittime
Il bilancio delle vittime del primo conflitto mondiale — limitandosi al periodo agosto 1914-novembre 1918 —, una guerra combattuta con armi di distruzione di massa mai viste prima: nuovi e più potenti esplosivi, mitragliatrici, gas asfissianti, lanciafiamme, carri armati, aerei da caccia e da bombardamento, siluri sottomarini, e con tattiche di combattimento che si traducevano in spaventose e inutili carneficine, è assimilabile a un tragico crescendo rossiniano: dal milione a metà del 1915 a diversi milioni nel 1917-1918.
Alla fine mancheranno all’appello circa 10 milioni di soldati e 7 milioni di civili, cui andranno aggiunti più di 21 milioni di feriti e di mutilati, più un numero incalcolabile di individui che tornano affetti da malattie croniche e menomate psicologicamente. Già questo pauroso deficit demografico, soprattutto maschile, avrà ripercussioni sociali fortissime, se si pensa anche ai milioni di lutti da elaborare e da affrontare materialmente da parte delle famiglie.
I ruoli sociali
Vi è poi da considerare come lo stato di guerra, con la necessità sempre più ingente e incalzante di produrre armi e con l’assenza degli uomini dalle fabbriche, dai campi, dai trasporti, ha imposto un impiego sempre più massiccio di personale femminile, sconvolgendo così equilibri nei ruoli sociali e nei comportamenti a impatto demografico talora secolari.
La guerra di massa
L’essere stata poi una guerra di masse, condotta con un cinismo e uno sprezzo sconcertanti delle vite umane — pochi uomini denunceranno il tragico degrado dei rapporti umani nella guerra: due cattolici, Papa Benedetto XV (1914-1922) e l’imperatore di Austria-Ungheria Carlo I (1887-1922), futuro beato —, avrà effetti morali e psicologici sui sopravvissuti e darà un tratto nuovo alle lotte politiche e sociali del dopoguerra.
Nei lunghi anni di guerra ci si è abituati alla violenza come mezzo per risolvere le questioni, nonché al fatto che uomini, spesso anonimi, possano decidere della vita e della morte di altri uomini; molti dalle trincee sono usciti abbrutiti e pronti allo scontro materiale; s’insinua nelle mentalità che solo organizzazioni in grado di muovere delle masse possano determinare le politiche degli Stati e il bene comune dei popoli: tutti questi fenomeni si sono impressi su milioni di combattenti e di uomini e donne coinvolti, in qualunque modo, dal conflitto. Nulla dopo il 1918 sarà uguale a prima.
3.2 Le conseguenze politiche
Versailles
In più, nonostante il crollo e la morte e lo smembramento voluti o riconosciuti a Versailles di ben quattro imperi sovra-nazionali — austro-ungarico, tedesco, ottomano e russo —, il nazionalismo è ben vivo e vegeto, anzi esce da un conflitto «chiuso» diplomaticamente con una serie enorme di ingiustizie e di creature politiche posticce, rinvigorito e acuito e continua a tessere le sue trame maligne che porteranno al nuovo conflitto mondiale venti anni più tardi.
Se si placa lo sciovinismo francese per l’Alsazia e la Lorena, si accende sempre più forte il revanscismo tedesco per le terribili sanzioni imposte al popolo germanico dai vincitori, un revanscismo talmente potente da accettare, poco dopo, di essere «cavalcato» da un personaggio come Adolf Hitler (1889-1945).
Se nasce il Regno degli Slavi del Sud, o Iugoslavia, le nazionalità che lo compongono sono ben lungi dall’accettare l’egemonia serba. Se l’Italia conquista finalmente Trento e Trieste — ma anche, cinicamente, Bolzano —, si scontra immediatamente con il nazionalismo del nuovo regno slavo nel teatro adriatico e dalmatico. Il caso più emblematico, che sarà poi l’esca del nuovo conflitto mondiale, sarà il cosiddetto «corridoio di Danzica». la lingua di territorio creata artificialmente a Versailles per offrire alla Polonia restaurata uno sbocco al Mar Baltico, che taglierà in due la nuova Germania, lasciando fuori proprio gran parte della culla del Primo Reich — l’equivalente del Regno di Sardegna per l’Italia —, ossia la Prussia orientale.
«Finis Europae»
Paradossalmente, il conflitto europeo, combattuto sanguinosamente per l’egemonia sul Continente, si chiuderà con un tramonto sempre più rapido dell’influenza degli Stati europei, anche di quelli vittoriosi, nel mondo. Il vitale sostegno dato dagli Stati Uniti d’America agli Alleati sarà una cambiale presto in riscossione in termini di peso nella politica globale, un percorso che culminerà nel veto americano all’intervento anglo-francese nel Canale di Suez del 1956. Dal 1918 gli Stati Uniti entreranno nel consesso delle potenze mondiali, seguiti poco dopo da un’altra potenza multi-nazionale e tendenzialmente — per allora — globale: l’Unione Sovietica.
La condizione politica e religiosa del dopoguerra
Chi farà ritorno a casa sarà animato da un sentimento di rivalsa verso le alte sfere della società e, non a caso, i movimenti politici antagonisti e rivoluzionari come quello socialista, fioriranno e cercheranno la soluzione di forza — come in Austria, in Ungheria, in Baviera nel 1918-1919 — oppure conosceranno un forte incremento di consensi elettorali dopo il 1918.
Più in generale, l’assenza di un fondo autenticamente sacrale, se non quello spurio e profano della «religione della Patria» — che sostituisce la Stella a cinque punte della massoneria, per il momento non ancora quella rossa, alla Croce —, che sostanziasse la richiesta di spendere la propria vita per il proprio Paese, alimenterà uno scetticismo di fondo e diffonderà nelle masse uno spirito «laico», che il nazionalismo e il socialcomunismo sapranno sfruttare appieno.
L’Europa che nasce dalla svolta bellica sarà così un’Europa ancora cattolica e solidale, ma non più in maniera omogenea: il processo di laicizzazione delle élite attuatosi fra Sette- e Ottocento dilagherà nelle masse, sì che ci saranno ancora masse «bianche», ma la consistenza delle masse «rosse» e degli europei agnostici s’ingigantirà. La Chiesa cattolica, con Papa Pio XI (1922-1939), dovrà così adeguare — e irrigidire — non poco le sue forme di apostolato di massa al nuovo e più arduo contesto.
3.3 La Russia bolscevica, prodotto storico della Grande Guerra
Non è un caso che la Rivoluzione comunista — la terza fase di quel processo descritto in esordio — nasca dalla Grande Guerra.
Ne scaturisce in primis per l’errore commesso dagl’Imperi centrali nel cercare di rovesciare il potere zarista infiltrando in Russia l’élite del bolscevismo esule in Svizzera. La pace siglata quasi subito dopo la conquista dello Stato imperiale da Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) frutterà certo alla Triplice Alleanza la possibilità di spostare sul fronte occidentale milioni di soldati schierati prima contro i russi e così tentare di sfondare le linee franco-inglesi-italiane. Ma solo pochi mesi dopo i tedeschi sconfitti si troveranno la rivoluzione bolscevica in casa e l’Armata Rossa a poche centinaia di chilometri da Berlino, in Estonia e in Polonia.
Ma anche perché la sconfitta militare contro gl’Imperi centrali — con le sue ecatombi di ufficiali e di soldati — ha eroso e indebolito oltre misura il nerbo della classe dirigente zarista, che, quando Lenin attua il suo classico golpe, è priva di consenso e si dissolve come neve al sole — salvo poi reagire e di nuovo perdere nella guerra civile — in tutto lo sconfinato e multietnico territorio dell’impero.
Sembra paradossale che da un conflitto scatenato dal nazionalismo borghese sia nata la centrale dell’internazionalismo proletario, la casa-madre della Rivoluzione socialista: ma la storia ci ha abituato a queste «eterogenesi dei fini».
L’Unione Sovietica si manterrà e crescerà di territorio e di potenza grazie anche al nuovo contesto politico-diplomatico uscito dalla guerra. Non solo Wall Street e figure e ambienti della finanza e dell’industria globali, quali, per esempio, il finanziere cosmopolita Izrail’ Lazarevič Gel’fand «Parvus» (1867-1924) e il petroliere Armand Hammer (1898-1990), sosterranno per simpatia ideologica il decollo sovietico, ma lo farà — lo sappiamo grazie agli studi pionieristici di quel grande esperto dei dessous storici che fu il politologo francese Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008) — anche la sempre potente Repubblica di Weimar. I governi occidentali esiteranno a lungo prima di prendere coscienza del sanguinoso totalitarismo — nei confronti della società e dei popoli dell’Unione Sovietica — messo in piedi da Lenin e da Stalin. E solo il secondo dopoguerra farà loro veramente capire quale pericolo globale rappresentava lo Stato sovietico vincitore di Adolf Hitler.
4.Conclusione
La guerra mondiale 1914-1918 s’inscrive dunque a pieno titolo nel processo rivoluzionario occidentale — e non solo, se si pensa alle conseguenze del crollo dell’Impero ottomano, dal revival musulmano alla nascita dello Stato d’Israele — come evento-svolta, punto di arrivo di sotto-processi pluri-decennali e punto di partenza di altri processi storici dello stesso segno, che approfondiranno ideologicamente e politicamente le tendenze nate dalla Rivoluzione del 1789 e aggraveranno la condizione di salute dell’habitat civile e interiore dell’uomo europeo e occidentale.
Per approfondire:
Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it., presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
Anne-Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, trad. it., il Mulino, Bologna 2001.
Andrea Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa. 1905-1956, il Mulino, Bologna 2001.
Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità: la grande guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2014.
Piero Melograni, Storia politica della Grande Guerra. 1915-1918, Mondadori, Milano 2014