Le drammatiche notizie che giungono dalla Grecia, sullo stato disastroso dell’economia sono un campanello d’allarme anche per l’Italia. E poco importa se, come sostengono in tanti, i nostri conti sono migliori di quelli ellenici e di quelli degli altri paesi dell’area pigs (maiali), come spregiativamente sono definite le nazioni dell’Europa mediterranea.
A farci riflettere è il fatto che il disastro economico, che rischia di frantumare la stessa unione monetaria, deriva dall’enorme debito pubblico generato da un apparato statale sproporzionato, con cui demagogicamente i sostenitori dello statalismo hanno inteso risolvere, o non affrontare, i nodi sociali ed economici del Paese. Un po’ come da anni cerca di fare in Italia la sinistra (ex Ulivo compreso).
Questa sinistra infatti da una parte reclama un welfare sempre più esteso e maggiori diritti per tutti; dall’altra blocca le riforme necessarie a rivitalizzare il tessuto produttivo, dal quale dovrebbero provenire le risorse che mantengono a galla lo Stato e lo stesso welfare.
Un giro mentale che contamina anche vasti settori della cosiddetta “destra”. E’ di poche settimane fa ad esempio l’intervento in campagna elettorale della candidata governatrice del Lazio Renata Polverini, che intendeva “risolvere” il problema dei precari in Regione con massicce assunzioni. Così come da mesi vanno chiedendo i sindacati per la scuola.
La morale che possiamo desumere dall’attuale situazione greca è semplice: non è possibile consumare più di quello che si produce. Un benessere generalizzato e duraturo non può che derivare da una forte capacità produttiva. Capacità che soltanto una massiccia presenza nel mercato del lavoro di giovani ben formati può garantire.
Nessuna deroga è concessa e il ricorso massiccio all’immigrazione o l’aumento della pressione fiscale e contributiva non possono fare altro che rimandare il momento della resa dei conti, negando alla fine il futuro a tutti. Del resto in Italia vige da troppo tempo un regime quasi da socialismo reale, con un fisco e una previdenza che espropriano i lavoratori di oltre il 60 per cento della paga mensile e dove per aprire una qualsiasi impresa occorre far fronte a più di cinquanta adempimenti burocratici.
Quello che segue è un articolo tratto da Avvenire che spiega molto bene le cause remote e le conseguenze dell’attuale rischio di banacarotta dello stato greco.
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I sogni in fumo, e la Grecia lotta contro il tempo
di Giorgio Ferrari
«Màke ton kròno», titola Kathimerini, il più influente giornale ateniese, ovvero: «Lotta contro il tempo». E mai come oggi è il vecchio Cronos, divinità preolimpica, a scandire la sorte della Grecia in quella che il premier Papandreou ha definito «la corsa ad evitare che l’incendio si propaghi».
Una corsa affannosa, in attesa che il Fondo monetario aumenti la posta degli aiuti di altri 10 miliardi di euro, che Angela Merkel apra definitivamente i ruvidi cordoni della borsa germanica, che il governo si accordi sul piano di austerità e di rientro del debito, del deficit, del disastro delle casse elleniche, il tutto prima di metà maggio, prima che scadano implacabili i rimborsi dovuti dalla Grecia, ma soprattutto prima che la speculazione, il cupio dissolvi della finanza, la sventatezza dei soccorritori con le loro lungaggini e i loro calcoli politici portino – come ha ammonito il direttore del Fmi Strauss-Kahn – a 120 miliardi (da 45 che erano) il monte dei aiuti necessari perché il falò della Grecia non diventi l’incendio dell’Europa e la fine dell’euro.
Il disastro greco ha accenti calamitosi. «Un deficit al 14% del Pil, evasione ed elusione fiscale generalizzata – dice Thanaxios Kharidis, analista di Bank of Cyprus – una mano pubblica che assorbe 1 milione e centomila addetti, il 40% della forza lavoro, ma che non ha neppure un censimento vero e proprio di tutti i propri dipendenti: in Grecia si dice “avere uno zio a Koroni”, un modo per alludere a un parente o un amico che ti fa entrare nel settore pubblico. Il che vuol dire il posto garantito a vita, uno stipendio base decente (dagli 800 euro in su) e gratifiche e indennizi che vanno dai 150 euro mensili per il fatto di adoperare il computer ai 100 euro perché non c’è l’ascensore, agli 80 per chi lavora oltre le cinque della sera. Senza contare gli straordinari».
Eccolo qui il modesto, tignoso finché si vuole ma rassicurante sogno greco, parente povero di quello americano, che tuttavia per trentacinque anni ha tenuto saldo il consenso popolare, fosse il sempiterno Pasok a governare o la novità di centrodestra di Costas Karamanlis: un posto pubblico non lo si negava praticamente a nessuno.
Finché il governo è stato costretto a suonare la fine della ricreazione, a dire che i conti erano truccati, che la quattordicesima, la tredicesima, le tante indennità andavano tagliate del 30% e che in compenso di dovevano aumentare le aliquote fiscali su Iva, benzina, energia elettrica. Con il risultato inevitabile di far scendere in piazza portuali e insegnanti, addetti ai cimiteri e operai delle ferrovie, autisti di mezzi pubblici e perfino i vigili davanti alle scuole elementari. Dice Varvara Knossides, portavoce degli insegnati di Atene ieri in piazza a protestare: se restiamo con il solo stipendio base sarà forse la recessione, come dicono gli economisti, ma io dico che per noi sarà la fame».
Sulla grande piazza Syntagma rimbalzano gli slogan dei giovani laureati assiepati davanti al ministero delle Finanze: parlano di axiokratìa, cioè di merito, divorato e ostaggio (homerìa) della politica e della corruzione; hanno appena appreso che pur avendo vinto un concorso lo Stato non potrà assumerli, ma neppure le imprese private, perché li considerano nel limbo di chi attende prima o poi la nomina. Risultato, disoccupati di rango e beffati dal destino. Forse anche sotto la pressione di un malcontento diffuso ieri il governo greco ha fatto sapere che non intende tagliare i salari come richiesto dalla Commissione europea e dal Fmi: «Ci hanno chiesto un taglio che non possiamo accettare», ha detto il ministro del Lavoro Andreas Loverdos.
In una Atene accarezzata dal vento di primavera che spira da Oriente la crisi parrebbe poco più che un impalpabile disagio. Niente disordini, niente episodi di violenza, solo piccoli cortei di rappresentanze sindacali che sfilano in attesa della grande manifestazione che avverrà oggi. Ma sottotraccia si muovono le diverse anime della Grecia, che la crisi ha suddiviso grossomodo in tre grandi tribù. La prima è quella che ostenta indifferenza e che mette la testa sotto la sabbia, invadendo le agenzie di viaggio e prenotando vacanze a Tenerife, a Parigi, alle Maldive.
È quella middle class ellenica che allinea piccoli imprenditori e artigiani, lavoratori autonomi e professionisti che al momento non risentono direttamente del dissesto pubblico e dei suoi effetti e che preferisce non sapere cosa accadrà domani. La seconda – di gran lunga meno numerosa – la si può intravedere in coda davanti agli sportelli di Paribas, di Barclays Bank, di Bank of Cyprus: sono piccoli e grandi risparmiatori che stanno cercando di spostare il conto corrente in euro dalle banche greche a quelle straniere.
Inutile far domande, sono loro per primi a dare spiegazioni: «Non mi fido del governo, ho paura che blocchino i conti e che si rimanga senza risorse. Così ne sposto una parte in un’altra banca, per sicurezza…». Alcuni di loro sono già corsi all’estero ad acquistare case e beni per mettere al riparo la propria fortuna dalla scure fiscale di cui già avvertono sibilare il filo della lama.
Poi c’è la terza grande tribù, quella forse più vera. Quella dei greci addolorati e pessimisti (un sondaggio dice che il 90% non ha fiducia nella manovra che il governo si appresta a varare) che tuttavia dissimulano in una forzata normalità questa intrinseca vergogna di sentirsi i peggiori d’Europa, i pigs, ovvero i porci, come con crudele iattanza li ha battezzati gli inglesi, dalle iniziali di quel quartetto di nazioni poco virtuose nelle politiche di bilancio – Portogallo, Spagna, Grecia e Irlanda (qualcuno disse anche Italia, ma loro negarono) – che ora costringono i virtuosi del nord ad aprire la borsa degli aiuti.
Per loro, per questa maggioranza più ammutolita che silenziosa, è tempo di conti della spesa. Si tira la cinghia, si limano gli sprechi, si fa fronte a un prevedibile taglio dello stipendio. Più mesti invece, i giovani eredi di questa palude di ex grandi elettori del sogno greco: per loro, per questi figli, comincia quello che in America chiamano window shopping, ovvero guardare le vetrine senza azzardarsi a comprare nulla. «Dalla prospettiva di guadagnare 700 euro come precari stanno passando a quella di non guadagnare proprio niente», dice Thanaxios. In altre parole di non avere alcun futuro.