Articolo pubblicato su Jesus ottobre 2001
Realistiche e libere considerazioni “politicamente scorrette”
di Vittorio Messori
Leggo, in una dichiarazione pubblica di un autorevole prelato cattolico: “Occorre essere consapevoli che la guerra, ogni guerra, porta sempre e solo con sé la miseria”. Affermazione very politically correct , molto in linea -cioè- con la cultura oggi prevalente e, dunque, socialmente accettata. Ma sia permessa qualche realistica osservazione anche a un laico, usufruendo di quella libertà cui il Concilio ci esorta, quando non si tatti di verità di fede dogmaticamente garantite.Diciamo, allora, che bisognerebbe guardarsi da affermazioni drastiche (“sempre”, “solo”) che non riflettono la complessità del reale.
La storia, e l’uomo che ne è il protagonista, è sempre in bianco e in nero: ovunque constatiamo duplicità, positivo e negativo tenacemente avvinti, aspetti contrastanti se non contraddittori. La sapienza del cristiano sta proprio nel rispettare questa complessità e farle posto nella sua lettura del mondo. Avvertenza che, se applicata alla guerra, ci porta a constatare che essa è fonte, certo, di miseria, ma anche di prosperità; di barbarie ma anche di progresso.
Affermazioni che sembrano scandalose a quel pacifismo radicale che, in quanto “ismo”, è un’ideologia, uno schema refrattario all’esperienza. E che, dunque, nulla ha a che fare col realismo, col pragmatismo cristiani.Non occorre essere storico o sociologo per rendersi conto che, sospingendo i popoli davanti al bivio tragico della sopravvivenza o della distruzione, la guerra costringe a uno sforzo supremo che è stato fonte indubbia di progresso tecnologico. E non solo a favore dei generali, ma di tutta intera la società. Per stare alle guerre moderne che, in quanto “totali”, più hanno mobilitato le energie, si è calcolato che un anno di guerra corrisponda ad almeno cinque, se non più, quanto a innovazione tecnica.
I quattro anni, tra il 1914 e il 1918, di quella che è stata chiamata, significativamente , la “Grande Guerra” per antonomasia provocarono milioni di morti ma diedero al mondo uno dei maggiori colpi di volano. Quando, dopo Sarajevo, tuonarono i cannoni, gli eserciti scesero in campo con i cavalli da tiro, le mongolfiere, i piccioni viaggiatori, le penne e i calamai. Alla fine, avevano camion e trattori, aeroplani, radio, macchine da scrivere e calcolatrici. Sviluppi cui erano stati costretti per non soccombere nella terribile lotta, certo; ma che cambiarono poi il mondo, anche nella pace.
Del resto, pure lo sviluppo delle ferrovie era stato potentemente accelerato, prima delle ostilità, sotto la pressione degli stati maggiori, per ragioni strategiche. Locomotive e vagoni servirono, purtroppo, anche per portare grandi masse al massacro. Ma senza quelle infrastrutture neanche l’economia di pace avrebbe potuto espandersi. Tra le ragioni della “miracolosa” ripresa della Germania distrutta, ci fu la fitta rete di autostrade costruite dai nazisti in vista del conflitto.
La tensione bellica porta frutti straordinari anche quando si tratti di “guerra fredda”: quella, soprattutto, tra il 1945 e il 1989, tra Nato e Patto di Varsavia. E’ certo che le imprese spaziali non ci sarebbero state, visti i costi astronomici (com’è davvero il caso di dire) o sarebbero state assai rallentate senza la competizione tra Usa e Urss che, nel cielo, vedevano soprattutto uno spazio militare o uno strumento di propaganda.
Ebbene, è stato constatato che il fall-out, la ricaduta tecnologica, sulla vita quotidiana, di questa corsa allo spazio è stata probabilmente la più alta della storia. Un’accelerata prodigiosa che ha coinvolto, beneficamente, tutti. Del resto, anche i computer, che rivoluzioneranno il mondo, nascono dalla necessità di americani e di inglesi di gestire l’amministrazione dei loro sterminati eserciti nella fase finale della seconda guerra mondiale. Ma proprio quest’ultima guerra ci permette di avere conferma che gli eventi bellici non sono solo causa di miseria.
Certo: l’Europa del ’45 era una immensa rovina. Ma proprio questa catastrofe stimolò una ricostruzione e una ripresa che assicurarono al Continente il maggior sviluppo economico e la maggiore prosperità della sua storia. Tanto che -paradossalmente- nella straordinaria corsa al benessere, gli sfavoriti furono i pochi Paesi restati neutrali che, non avendo subito distruzioni, non si videro nella necessità di ricostruire tutto nuovo. Il rapido declino industriale della Gran Bretagna, pur vittoriosa, lo si deva anche al fatto che buona parte delle sue officine, a parte poche zone più accessibili dalla Luftwaffe, non era stata bombardata.
Quando, verso il 1950, l’economia americana diede segni di crisi (a causa proprio della smobilitazione dell’industria di guerra) il conflitto in Corea rimise in moto potentemente la macchina economica. Con beneficio, si badi, anche della parte di quella penisola asiatica restata nell’orbita occidentale: è proprio dalle devastazioni, che parte l’imprevisto boom che fa della Corea del Sud una delle “tigri” dei mercati mondiali. Insomma: che non si prenda (Dio scampi!), per guerrafondai, per apologeti dello scontro bellico. Come annunciavamo, una cosa ci interessava confermare: che la realtà, cioè, è sempre così complessa, così contraddittoria, da non tollerare semplificazioni.