Il pacifismo teoretico postula nell’Altro una sostanziale assenza di intenti aggressivi. l’Altro è in sé il luogo del valore. Ma si tratta di un erroneo traslato delle etiche della carità o della giustizia, necessariamente centrate sull’autoimputazione della coscienza morale. Trasferito in campo storico, nelle relazioni politiche e religiose, questo assunto finisce col caricare di tutta la responsabilità dei conflitti, moralisticamente, il soggetto che pensa e decide
di Pietro De Marco
Altra cosa è il “non più guerra” nelle sue formulazioni universalistiche alte e costanti, quelle del magistero romano, ove l’imperativo di pace è posto, prima e oltre la congiuntura, come orizzonte ineludibile per ogni decisione e condotta. Altra cosa è l’attuale diffusa invocazione di pace, chiusa di fatto nell’orizzonte del suo obiettivo materiale: la richiesta di non guerra all’Iraq, quando non la mobilitazione contro alcuni governi.
Ma questo slittamento dall’universale al congiunturale è self defeating, autodistruttivo, per l’argomentazione pacifista. La non guerra all’Iraq non è per se stessa garante di pace, né per l’immediato futuro di quell’area o di altre, tantomeno di una pace generale e perpetua. Il pathos del “non più guerra nel mondo” e del puro enunciato “pace”, che satura l’attuale mobilitazione, non ha corrispettivi nei fatti.
Nasconde piuttosto, a se stesso anzitutto, il potenziale di guerre prossime venture. È un clamoroso esempio di pura etica dei princìpi, rigorosamente irresponsabile. Neppure capace di accollarsi un coerente “Fiat pax, pereat mundus”: “purché sia la pace – questa pace, qui – perisca il mondo”.
Un secondo preliminare.
Non sorprende che questo avvenga nell’orizzonte delle pedagogie profonde dell’Occidente pacifico. “Qualunque potere diminuisce l’autostima”, dicono i programmi pilota degli educatori cui affidiamo le giovani generazioni; e anche: “trasformare il conflitto in occasioni di incontro”. È l’orizzonte inavvertito della “fine della storia” e della falsificazione del Regno di Dio. È il celebrato dovere di “volersi bene”, ovvero di voler bene a se stessi chiudendosi alla sofferenza del giudizio responsabile e della decisione conseguente.
Così la protesta dei cortei diviene gioco protetto, prosecuzione del giardino d’infanzia con altri mezzi. E non da oggi né dal di fuori – non dalle parole di un improbabile musulmano, ma ben da dentro la nostra cultura – l’ineccepibile corollario di tutto questo è la deprecazione del diseducativo “cadavere” che in luoghi pubblici pende dalla croce. Mentre interi capitoli, anzi libri, della Bibbia riempiono il cestino dei rifiuti dei cristiani “facitori di pace”.
Su grande scala, nel rapporto tra nazioni, questa deriva induce a privilegiare nelle agende internazionali la riparazione delle disarmonie tra amici, invece che l’efficace far fronte a un nemico, da parte di chi è capace di farlo
II. L’errore del “quieta non movere”
Una tesi insidiosa sottostà a quasi tutti gli argomenti ostili alla posizione americana sulla guerra: che cioè non vi siano né pericoli né nemici per l’Occidente, anzi per l’ordine mondiale. Tesi spesso implicata nel rifiuto non ragionato delle analisi di Samuel Huntington sullo “scontro delle civiltà”.
La stessa frequente controdeduzione che, se anche vi fossero potenti antagonismi antioccidentali, questi sarebbero ingigantiti da un intervento militare contro gli Stati canaglia suppone che “rebus sic stantibus” il pericolo per l’ordine mondiale sia minore o minimo o inesistente: con un’autoimputazione all’Occidente di ogni eventuale responsabilità di guerra.
In profondità prevale una lettura dell’Altro statica e aconflittuale. La visione del rapporto tra le grandi forze mondiali che ne consegue è tipica del pacifismo teoretico, che postula nell’Altro una sostanziale assenza di intenti aggressivi. In effetti, nelle subculture del dialogo, è l’Ego che produce il fantasma del proprio nemico; l’Altro è in sé il luogo del valore. Ma si tratta di un erroneo traslato delle etiche della carità o della giustizia, necessariamente centrate sull’autoimputazione della coscienza morale. Trasferito in campo storico, nelle relazioni politiche e religiose, questo assunto finisce col caricare di tutta la responsabilità dei conflitti, moralisticamente, il soggetto che pensa e decide.
Il grado ultimo del pensare inesistente qualsiasi progetto di attacco all’Occidente è rappresentato dal suo rovescio, o meglio dalla sua “catastrofe”: l’affermazione diffusa in molte estreme, pacifiste o di ultrasinistra, che tutto quanto accade, ad esempio di terroristico, contro l’Occidente è prodotto deliberatamente dall’Occidente stesso, Stati Uniti e alleati, per motivare una strategia imperiale di controllo repressivo del mondo.
Senza questo insieme di tesi soggiacenti non sarebbe possibile l’attuale mobilitazione emotiva contro “la” guerra (in realtà contro una guerra precisa) come indeterminato e generalizzato orizzonte di male. E neppure sarebbe comprensibile la favola della “guerra di petrolieri per il petrolio”, con la quale si vuol dire ai semplici che non abbiamo nemici se non tra noi (il petrolio è favola in questo, non nella sua razionale rilevanza).
Ogni riflessione che solo evocasse ragioni e limiti di un intervento militare finalizzato rappresenterebbe, infatti, una violazione della lettura statica e comunitaria del mondo; implicherebbe pensare l’Altro come possibile colpevole verso l’ordine internazionale. E questo confligge con la nostra attuale coazione (di occidentali prima ancora che di cristiani) non a imputare altri, ma a imputare noi di delitti, e a chiedere di essere perdonati dalla storia.
Che questa coazione trovi, oggi, anche senso e radici in una metamorfosi delle culture antagoniste degli anni Sessanta/Settanta, gnostico-rivoluzionarie, di sinistra e di destra, è altra questione, che esigerà una riflessione adeguata.
III. Sulla crisi degli organismi internazionali: Onu, Ue, Nato
Il ripetitivo sottolineare la crisi degli organismi internazionali, dall’Onu all’Unione europea alla Nato, l’allarme, cui non si è sottratta neppure la vigile intelligenza di Sergio Romano (“Corriere della Sera” dell’11 febbraio 2003), sembrano non tenere conto di un dato. Che mi pare il seguente.
Le organizzazioni internazionali menzionate sono o associazioni (universali, rappresentative) dell’intera comunità degli stati, espresse in un organo assembleare (Onu), o comunità transnazionali subcontinentali (Ue), o alleanze geostrategiche militari transcontinentali (Nato). Come tali, quindi, sono vincolate nella loro azione o dalla loro universalità formale, o dalla loro specificità funzionale o settoriale.
I rapporti internazionali, d’altra parte, in situazioni di conflittualità e di crisi, hanno bisogno di un potere di governance dello stato d’eccezione, capace di contenimento e controllo dei processi di destabilizzazione. Ovvero di un “arbitro”, o di un “rappresentante” (sono naturalmente profili diversi), dotati di effettivi poteri di sanzione su scala mondiale, capaci anche di coazione militare. Tali poteri non possono essere oppugnabili nell’esercizio della loro funzione. Ebbene, le tre istituzioni e organizzazioni citate, rispetto a questa funzione, si trovano in una posizione inidonea o secondaria o dipendente.
Inidonea attualmente è l’Onu, perché fungendo con difficoltà da arbitro in condizioni ordinarie, non può essere l’arbitro delle situazioni eccezionali di conflitto. L’arbitro di una competizione, infatti, non può essere costituito dall’assemblea dei giocatori; è altro ed è, secondo diritto, il più forte: decide della sanzione e la rende efficace. È vero che nella comunità degli stati anche il più forte è uno stato tra pari.
Ma nello “stato d’eccezione” quell’arbitro sarà necessario, e potrà essere rappresentato solo dal soggetto nazionale durevolmente affermatosi come capace, di fatto, di conservare quello stesso ordine per cui l’Onu esiste e di esercitare, seppure non da solo, forza coattiva sopra ogni altro soggetto in gioco. Questa sua doppia capacità fa del soggetto democratico più forte colui che decide dello stato d’eccezione, cioè colui che è temporaneamente il “sovrano”.
Questo è sempre vero e operante “de facto”. E meglio sarebbe se si desse dello stato d’eccezione, e dell’arbitro (ovvero della figura rappresentativa) che esso individua, un razionale profilo “de iure”. L’Onu conosce dei mandati esecutivi, finalizzati alla repressione armata di un delitto, attribuiti a una data coalizione di forze.
Ma il problema critico è la decisione, prima ancora dell’esecuzione. Il caso attuale è esemplare: l’Onu ha difficoltà a conferire un mandato proprio perché, sia come assemblea che come consiglio di sicurezza, offre costitutivamente uno spazio a ragioni, a interessi e a coalizioni che intendono sottrarre qualcosa al ruolo del paese dominante.
Nel caso d’un grave pericolo per l’ordine internazionale in corso o potenziale dovrebbe invece essere attribuito allo stato democratico dominante un ruolo di arbitro che sanzioni i giocatori, dai quali non può e non deve dipendere finché la partita è in corso: ovvero il ruolo di rappresentante temporaneo dell’intera comunità degli stati con pieno mandato.
Quanto all’Unione europea, essa è in subordine, nello stato d’eccezione internazionale, poiché non è in grado di esercitare efficace capacità sanzionatoria, neppure sul proprio territorio, come s’è visto con le guerre balcaniche. Esemplare, ora, per l’Iraq, è il caso del piano franco-tedesco. Se respinto da Baghdad esso non ha alcuna possibilità di essere eseguito se non dopo un intervento armato, che l’Europa non può sostenere e che dovrebbe alla fine essere compiuto proprio dagli Stati Uniti.
Quanto alla Nato, essa esiste dalla fondazione come sostegno e corresponsabilità verso l’esercizio ordinario di controllo e contenimento dei conflitti esercitato dagli Stati Uniti sulla frontiera centroeuropea ed euroasiatica. Fa altresì da coordinamento tra le culture politiche occidentali al di qua e al di là dell’Atlantico.
Una Nato per definizione attiva in sinergia transatlantica non può che operare su obiettivi, in Europa e nel vicino Oriente, pertinenti la stabilità mondiale. Separata o in conflitto, in alcune sue componenti, con gli Stati Uniti, la Nato non ha ragione di esistere, né geopoliticamente né militarmente.
L’attuale – e sopravvalutata – “crisi” di questi tre organismi non è tanto crisi di dialogo ma “da” dialogo. Non ogni decisione può essere affidata al dialogo tra le parti. Nella procedura più conforme a giustizia che la civiltà mondiale conosca, il processo giudiziario moderno, le parti che offrono materia e argomenti al giudice sono tra loro in dialettica, non in dialogo. Il dialogo può essere generatore di amicizia; non è necessariamente luogo di verità, né di giustizia.
La crisi attuale di Onu, Ue e Nato è prodotta dall’intrusione di piccoli conflitti di potenza nel loro dialogo interno. L’Unione europea, in particolare, si aggrappa a progetti irrealistici e si mostra capace solo di mobilitare opinione pubblica. Ma irrealismo, effervescenza di piazza e concorrenza interna sono esattamente quello che non serve nello stato d’eccezione.
Esaminiamo con freddezza le cose anche dal nostro punto di vista di partner europei.
La conflittualità con gli Stati Uniti non ci rafforza in identità e autonomia, se non emozionale e rivendicativa. Ha l’effetto di confermare gli Usa nella solitudine del decisore, aggravata sul piano istituzionale dal mancato riconoscimento della necessità e conseguente legittimità di questo loro ruolo.
Non attribuire, nel caso d’eccezione, un mandato pieno agli Stati Uniti indebolisce proprio gli istituti e gli stati che glielo negano e che, con questo, mettono in gioco la loro stessa autorità sul piano internazionale. Infatti, facendo apparire gli Stati Uniti come gli attori di una guerra privata, queste istituzioni e questi stati, per mostrarsi innocenti al mondo musulmano e in genere al Terzo e Quarto mondo, si presentano, e si dichiarano, inermi di fronte all’emergenza. E se anche la “guerra degli Usa” non fosse attuata, ne uscirà ovunque rafforzata la certezza che non vi è effettiva capacità di coazione su scala mondiale se non da parte americana, e che anch’essa può essere neutralizzata senza eccessivi costi per i potenziali trasgressori, poiché a neutralizzarla provvede l’Occidente stesso.
La temibile crisi di Onu, Ue e Nato non è dunque quella che oggi è sotto i nostri occhi; potrà nascere dal mancato riconoscimento “costituzionale” della eventualità di stati d’eccezione nel mondo, e della conseguente legittimità degli Stati Uniti, soli titolari di un inedito “imperium” liberale (G. John Ikenberry), a decretare lo stato d’eccezione stesso e prendere – non soli – le misure conseguenti.
Aggiungo che anche la Chiesa cattolica, cui vitalmente e culturalmente appartengo e che amo, potrebbe uscire indebolita da una delegittimazione della funzione sanzionatoria degli Stati Uniti. Indebolita almeno nella sua potestà di indirizzo sui fedeli. Quest’ultima, infatti, come mostra la sua storia sotto le autocrazie totalitarie del XX secolo, può essere esercitata solo dove la Chiesa stessa sia esente da costrizione e da ricatto sistematici: evenienze anche oggi ben presenti in tutte le aree non democratiche del mondo.
Ma, intrinsecamente immune da quell’eresia cristiana che è lo smarrimento del principio di realtà, la riflessione e azione della Chiesa, teologica e politica, sarà condizione di uscita dal nostro disorientamento di civiltà, mascherato da emozioni troppo sicure di sé.
IV. Regìe di crisi mondiali
Solo una esplicitazione, a chiusura di queste note, per procedere oltre.
Appare, a chi scrive, razionale e responsabile porre l’esistenza attuale di più regìe di crisi su scala mondiale. Anche senza la grande quantità di evidenze, si dovrebbe postulare che un impero liberaldemocratico centrato sugli Stati Uniti, per il solo fatto di esistere in quanto impero e in quanto attore di democratizzazione modernizzante, debba generare attorno a sé potenti reazioni antagonistiche, altra cosa ancora dalla emulazione universalistica tra civiltà di cui ragiona Huntington
Regìe di crisi, dunque, di obbligata natura terroristica e finalità destabilizzatrice; visibilmente attive anche se forse non coordinate tra loro se non occasionalmente, in virtù della disomogeneità dei diversi protagonisti in Oriente o nell’Eurasia occidentale. Ad esempio, l’organizzazione di un Osama bin Laden non sarà necessariamente coordinata con una regìa di crisi come quella nordcoreana, ma seguirà una sua più elementare strategia di accensione di fuochi ora in questa ora in quella area geopolitica.
Lo stesso vale per le regìe che accendono di tempo in tempo il conflitto tra India e Pakistan oppure guerriglia e attentati nell’arcipelago indonesiano. Per non parlare di chi pensi di incrementare l’immane potenzialità destabilizzante dell’Africa contemporanea.
In questa prospettiva il conflitto israelo-palestinese appare quasi in secondo piano. È utilizzato in altri paesi arabi solo come simbolo mobilitante: non secondariamente perché la resistenza israeliana l’ha condotto, regionalmente, a uno stallo. Ma le regìe di crisi mediorientali contano sulla equivocità e relativa indecifrabilità di quanto viene messo in opera. L’iniziativa irachena, a partire dalla tentata occupazione del Kuwait, conferisce nuovo pericoloso dinamismo a quest’area su un asse materialmente molto più rilevante del territorio palestinese, quello delle riserve petrolifere del mondo arabo.
In tale quadro, regionale e mondiale, non appare quindi sensato lasciare risorse e operatività a queste regìe, né lasciare gioco a un grande destabilizzatore di area quale appunto è – e si vuole, diversamente da altri capi di stato arabi – Saddam Hussein.