Pochi lo sanno, ma è accaduto. Un libro uscito negli Stati Uniti offre per la prima volta al grande pubblico i maggiori documenti sulla teoria e la pratica del jihad. Da Maometto a oggi
di Sandro Magister
Un esempio? Molti ricordano cosa avvenne a Roma, nella basilica di San Pietro, la notte di Natale dell’anno 800. Finita la messa, papa Leone III pose solennemente sul capo di Carlo Magno la corona del Sacro Romano Impero.
La basilica di San Pietro brillava quella notte di stupefacente fulgore. Pochi anni prima il predecessore di Leone III, papa Adriano I, aveva ricoperto l’intero pavimento del presbiterio con lastre d’argento, aveva rivestito le pareti con lastre d’oro e cinto il tutto con una balaustra d’oro del peso di 1.328 libbre. Aveva rifatto in argento i cancelli del presbiterio e appeso all’iconostasi sei immagini anch’esse d’argento raffiguranti Cristo, Maria, gli arcangeli Gabriele e Michele, i santi Andrea e Giovanni. Infine, perché tale splendore fosse pienamente visibile a tutti, aveva innalzato un candelabro in forma di grande croce su cui brillavano le luci di 1.365 candele.
Meno di mezzo secolo dopo, però, di tutto questo non restò più nulla. E su che cosa avvenne regna oggi un generale vuoto di memoria, tra i cristiani.
Avvenne che nell’aprile dell’anno 846 degli arabi musulmani, arrivati con una flotta alle foci del Tevere, raggiunsero Roma, la invasero, la saccheggiarono e portarono via dalla basilica di San Pietro tutto l’oro e l’argento che conteneva.
E non si trattava di un attacco occasionale. Dall’anno 827 gli arabi avevano conquistato la Sicilia, che mantennero sotto il loro dominio due secoli e mezzo. Roma era seriamente sotto minaccia ravvicinata. Nell’847, l’anno dopo l’assalto, il nuovo papa Leone IV iniziò la costruzione di mura attorno a tutta l’area vaticana, alte 12 metri e munite di 44 torri. Le completò in sei anni. Sono le mura “leonine” di cui restano ampi tratti. Ma pochissimi oggi sanno che esse furono erette per difendere la sede di Pietro dal jihad musulmano. E tra chi lo sa molti tacciono per pudore. “Non muri ma ponti”, è lo slogan che oggi è di moda.
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Il libro che alza il velo sulla guerra santa islamica ha per titolo “The Legacy of Jihad”, l’eredità del jihad, ed è curato da Andrew G. Bostom. È un libro essenzialmente fatto di documenti, molti dei quali per la prima volta tradotti in inglese dall’arabo o dal parsi, oppure ripresi da libri di orientalisti di difficile consultazione per il grande pubblico.
I documenti spaziano dal secolo di Maometto, il settimo, fino al ventesimo. E comprendono sia testi classici sul tema del jihad di teologi e giuristi musulmani, sia resoconti di guerra di testimoni antichi e moderni, musulmani e non, sia analisi del jihad ad opera di studiosi di vario orientamento.
Corredano il libro miniature che raffigurano momenti di jihad nella storia, e mappe geografiche che documentano l’espansione militare dell’islam secolo dopo secolo, dal settimo all’undicesimo. Ogni mappa è corredata da un sommario che elenca gli atti di guerra in ciascuna regione.
Ad esempio, in quel nono secolo in cui Roma fu presa d’assalto e la Sicilia conquistata, le armate musulmane occuparono in Italia Bari e Brindisi per trent’anni, Taranto per quaranta, Benevento per dieci; attaccarono più volte Napoli, Capua, la Calabria, la Sardegna; misero a ferro e fuoco l’abbazia di Montecassino; fecero scorrerie anche nell’Italia del Nord, arrivando dalla Spagna e valicando le Alpi.
Dall’imponente documentazione raccolta da Bostom un dato emerge con chiarezza: il jihad non è una delle forme in cui si attuò, in particolari luoghi e momenti, l’espansione dell’islam, ma è un’istituzione connaturata al sistema musulmano stesso, è una sua obbligazione religiosa permanente.
Una cosa che stupisce è che a pubblicare in Occidente questa documentazione sia un non specialista. Bostom è medico epidemiologo e vive a Providence nel Rhode Island. Ma forse proprio questa sua non appartenza all’accademia degli orientalisti e islamologi lo rende più libero dai tabù che imbavagliano molti di questi.
Contro il proislamismo di larga parte della cultura occidentale hanno scritto pagine graffianti, tra altri, Jacques Ellul, Oriana Fallaci e Bat Ye’or, quest’ultima grande specialista della condizione subordinata imposta sistematicamente dall’islam ai sudditi non musulmani dei paesi conquistati, nonché autrice nel 2005 di un saggio dal titolo eloquente: “Eurabia. The Euro-Arab Axis”.
Una tesi centrale dei tre autori citati è che l’islam sia un tutto coerente e irreformabile nei suoi elementi essenziali, e che la libertà e i diritti della persona non vi possano appartenere. Ma anche un autore che non condivide tale tesi ed è anzi uno dei più decisi assertori della compatibilità tra islam e democrazia – Bernard Lewis, uno dei più autorevoli islamologi viventi, professore a Princeton – ha criticato severamente le tendenze pro-islamiche in voga tra intellettuali e politici occidentali, persino ebrei.
In un saggio dal titolo “The Pro-Islamic Jews”, Lewis ha riscostruito come l’idea di un’antica Spagna musulmana tollerante con cristiani ed ebrei – oggi evocata da molti come un’età dell’oro – sia un mito romantico del diciannovesimo secolo, creato proprio da ebrei in polemica con i cristiani.
Anche l’adesione della moderna Turchia al campo occidentale e il suo sostegno allo stato d’Israele hanno indotto una diffusa reticenza sui massacri da essa compiuti nel secolo scorso dei cristiani armeni.
E ancora, a incoraggiare il generale silenzio sulle guerre sante di ieri e di oggi – come anche sulla schiavitù tuttora praticata dai musulmani in talune regioni, sugli assalti a chiese e sulle uccisioni di cristiani – ci sono la ricerca di un buon vicinato con la crescente immigrazione musulmana in Europa, la paura di attacchi terroristici, la volontà di mostrarsi estranei allo schema dello “scontro di civiltà”.
Ma di queste reticenze e silenzi dell’Occidente sono vittime, tra i musulmani, proprio coloro che coraggiosamente si battono per riformare la fede islamica e conciliarla con la democrazia e la modernità.
Meno male che, a non lasciarli soli, arrivano libri come questo di Andrew G. Bostom.
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Il libro:
”The Legacy of Jihad. Islamic Holy War and the Fate of Non-Muslims”, edited by Andrew G. Bostom, foreword by Ibn Warraq, Prometheus Books, New York, 2005, pp. 762.