L’Occidentale 2 Luglio 2017
Dal cibo ai cosmetici
di Lorenza Formicola
Mentre in Italia tra Verona e Pontedera, nelle mense scolastiche e nei centri sportivi, viene bandito l’aceto (perché contiene dosi infinitesimali di alcol, proibito dal Corano) e pane e mortadella (carne di maiale non gradita dalle mamme dei ragazzini islamici), in Europa i divieti islamici sulla macellazione sono al centro della battaglia politica, e per chi ha qualcosa ha obiettare scatta la solita accusa di islamofobia, è toccato all’UKIP in Gran Bretagna lo scorso mese, mentre in Vallonia, regione del Belgio, la macellazione halal è stata vietata con un referendum, suscitando l’ira dei musulmani che hanno levato il loro grido di preoccupazione.
Negli Stati Uniti, invece, scattano le denunce: qualche settimana fa un musulmano ha chiesto un risarcimento di 100 milioni di dollari ad una catena di ristorazione perché gli era stata servita una pizza con peperoni e carne di maiale. Siccome la pizza venduta in un sobborgo di Detroit era etichettata “halal” l’equivoco non si sarebbe proprio dovuto verificare. E, intanto, il legale dell’uomo che chiede il suo risarcimento danni psicologico dice che la querela ha anche lo scopo di scoraggiare altri nell’ordinare carne di maiale al ristorante.
Non si tratta semplicemente di avvisaglie di un Occidente genuflesso all’islam, ma di una cultura che ha educato gli islamici in trasferta a trovare un mondo a loro misura. E questo pretendono di trovare a portata di mano. Halal – in arabo, lecito – è tutto ciò che è permesso secondo l’islam, in contrasto con “harām”, proibito, e nell’Ovest del mondo, è un affare.
Un’industria che va ben al di là dei precetti islamici sulla macellazione della carne e che incorpora tutto, dai farmaci ai cosmetici, dai rossetti allo shampoo. I fast food che garantiscono l’assenza di carne di maiale, e poi le pizze, le linee di abbigliamento e i profumi. Il tutto per un giro d’affari che negli ultimi anni è stato in costante crescita. Un’oasi felice dell’economia mondiale che non si identifica con un Paese o con un settore, ma con una religione: quella islamica.
Un rapporto Thomson Reuters e DinarStandard ha stimato che il mercato halal nel 2014 è stato pari a 1.37 trilioni di dollari, il 18% del mercato globale e, dal momento che per il Pew Research Center la percentuale di musulmani nel 2050 sarà pari a circa 2,8 miliardi di persone, le cose possono solo “migliorare”. Il Global Islamic Economic report per il 2014-15 ha stimato un valore complessivo del mercato “halal” di 7mila miliardi entro il 2019, confermato nel rapporto di quest’anno.
E’ così che accanto a piccole iniziative di successo, i cosmetici Halo in Inghilterra, i tanti prodotti di macelleria in Germania o il salame di carne di pecora in Italia, a farla da padroni nell’halal europeo sono i giganti come Tesco, Carrefour, Woolworths, Cole, Aldo, Cadbury, Kraft, Kellogg e Nestlé, leader mondiale nella produzione di prodotti del genere: “Nei Paesi a maggioranza musulmana i consumatori scelgono sempre più cibo confezionato: la certificazione halal è quindi vitale per assicurare loro tranquillità”, ha detto Frits van Dijk, vice presidente di Nestlè. “E in Europa e in Occidente, dove la popolazione musulmana è in crescita, c’è ora molta attenzione”.
Fonti legate alle industrie del settore confermano che “per molti, più che di religione qui si tratta di soldi”, anche se resta il problema di una certificazione “universale”, che sia accettata da tutte le nazioni a maggioranza musulmana. Cibo halal, donne velate e burkini, la linea di demarcazione tra islamici e “infedeli” è sempre più netta. Ma va detto anche che la rivoluzione ‘halal’ non è parte della storia islamica, ma nasce tra gli anni ’70 e 80′, quando il neo liberismo alla Thatcher e Reagan si faceva strada nel mondo Occidentale e l’islam preparava la reconquista del nuovo millennio.
Prima, infatti, i musulmani potevano tranquillamente consumare cibo preparato dalla “gente del libro” – uno degli appellativi dei cristiani – ora è diventato vietato perché la distanza con i “crociati” deve essere insormontabile. E non si tratta di considerazioni esasperate. Dividere in due lo spazio tra ciò che è “permesso” da ciò che non lo è, conduce a forme di disintegrazione, piuttosto che il contrario, persino nelle nostre scuole, dove si dovrebbe puntare a quella fantomatica integrazione che tanto piace alle classi dirigenti occidentali. Anche perché lo spettro dell’accusa di razzismo pende come una spada di Damocle su chiunque abbia qualcosa da obiettare.
Persino le pressioni non sono indifferenti. Nel 2014, su Repubblica l’amministrazione delegato di Dinar Standard, società di consulenza globale specializzata nei mercati islamici, chiedeva all’Italia “di introdurre degli standard halal così come avviene in molti altri Paesi. Perché i visitatori musulmani hanno bisogno di sapere che nel luogo in cui stanno andando saranno a proprio agio, e che dunque potranno mangiare cibo adatto alla loro religione, troveranno piscine per sole donne e così via”.
Pare proprio che le nostre città diventeranno presto una riproduzione in scala di “Al Kanz“, uno dei portali online di riferimento della comunità islamica francese. La missione di questo sito è difendere i consumatori musulmani dai prodotti “impuri” reperibili sugli scaffali dei supermercati, incitando anche al boicottaggio di prodotti che non rispettano il Corano, come il dentifricio Signal, che contiene gelatina di carne di maiale, o i dei prodotti della Dove, “perché di origine israeliana”.
Ma Al Kanz si preoccupa persino di informare la comunità islamica che anche in Europa si possono fare vacanze halal-compatibili: sempre più alberghi, case vacanza e centri di villeggiatura si stanno adattando alle esigenze dei fedeli di Allah. L‘Occidente pare destinato ad essere un posto sempre più “conforme all’etica musulmana”. E la cosa pare anche conveniente economicamente, per loro.