Pubblicato il libro che racconta diciannove anni di odissea nei lager cinesi
di Pietro Licciardi
Harry Wu è un sopravvissuto; come quei pochi scampati all’inferno nazionalsocialista di Auschwitz, Birkenau, Dachau, o dall’altro inferno, forse ancor più terribile, dei gulag sovietici. Wu è uno dei milioni di cinesi che hanno conosciuto un altro dei paradisi socialisti del nostro tempo: il Laogai.
Harry Wu venne arrestato dalle autorità comuniste nel 1960, quando era studente universitario, e rilasciato nel 1979. Durante questi interminabili anni ha avuto modo di sperimentare l’abisso di scientifica abiezione nella quale l’ideologia e l’utopia socialista fa sprofondare l’essere umano, specialmente quando cerca in qualche modo di resistere all’idiozia di certe sedicenti teorie di “liberazione”.
Nel 1985 riuscì fortunosamente a raggiungere gli Stati Uniti, dove si è dedicato a far conoscere al mondo come i diritti umani nel suo Paese siano sistematicamente ignorati e soprattutto per far conoscere ciò che si nasconde dietro il volto rassicurante di una Cina aperta all’Occidente e, secondo alcuni, ormai avviata sulla strada per quanto ancora incerta della democratizzazione.
Harry Wu sarà in Italia dal 23 al 27 gennaio 2008 per presentare il suo ultimo libro: «Il Controrivoluzionario. I miei anni nei gulag cinesi», edito da San Paolo e già in libreria.
In poco più di quattrocento pagine narra la storia della sua prigionia e della sua sopravvivenza, degli straordinari atti di coraggio che lui e i compagni dovettero praticare per sopravvivere. Con particolari a volte persino raccapriccianti, Wu racconta di quando setaccia i campi alla ricerca di rane e di serpenti che poi la notte nelle baracche diventavano cibo. Più di una volta al limite della morte e della pazzia, Wu è riuscito a risalire dagli abissi del nulla, grazie alla forza della dignità personale.
Ciò che Harry Wu racconta in questo libro non è una tragedia che appartiene al passato, ma è una testimonianza attuale che riguarda milioni di cinesi, moltissimi cattolici. È un urlo in difesa dei diritti umani e della dignità umana che, nell’anno delle Olimpiadi a Pechino, riguardano milioni di persone.
Oggi in Cina esistono 1045 Laogai, dove milioni di uomini, donne e bambini sono condannati ai lavori forzati a vantaggio economico del regime comunista cinese e di numerose multinazionali che investono o producono in Cina. Un sistema capillare in piena attività, grazie al quale la Cina inonda il mercato internazionale di prodotti a basso prezzo.
Mao Zedong inaugurò i Laogai nel 1950, seguendo il modello staliniano dei Gulag. Mentre i Lager nazisti furono chiusi nel 1945 ed i Gulag sovietici sono in disuso dagli anni Novanta, i Laogai cinesi sono tuttora operanti. La parola Laogai è in realtà una sigla ricavata da “Laodong gaizao dui” e significa “riforma attraverso il lavoro”. Una frase che riecheggia il motto ancora affisso all’ingresso di Auschwitz: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi.
Una riprova dell’esistenza di un filo rosso che ad ogni latitudine unisce le diverse espressioni dell’ideologia socialista, così come si è affermata a partire dal secolo scorso e che ancora sopravvive non soltanto nella Cina contemporanea ma anche in Birmania, a Cuba, nel Venezuela di Hugo Chavez e nell’Italia dei Bertinotti, dei Diliberto e del manipolo di squinternati che nei giorni scorsi hanno contestato la presenza del papa alla Sapienza di Roma.
I Laogai sono tuttora strettamente funzionali alla Cina con il doppio scopo di perpetuare la macchina dell’intimidazione e del terrore per gli oppositori politici e di fornire un’inesauribile forza lavoro a costo zero.
Le condizioni di vita nei Laogai sono tremende. L’orario di lavoro arriva fino a 16 ore al giorno, secondo il tipo di attività praticata (industria, campi o miniere). Sicurezza ed igiene non esistono. Il giaciglio è di nuda pietra. Il cibo è inadeguato.
Manfred Nowak, inviato delle Nazioni Unite, che ispezionò nel dicembre 2005 alcuni dei Laogai in Cina, ha denunciato nel suo rapporto del 10 marzo 2006 il continuo abuso della tortura e chiesto al Governo di Pechino di eliminare le esecuzioni capitali per crimini non violenti o per ragioni economiche. Tutto ciò invece continua ancora oggi, nel terzo millennio.
Lu Decheng, uno dei tre famosi giovani che lanciarono gusci d’uova pieni di vernice sul ritratto di Mao Zedong in Piazza Tian An Men il 23 maggio del 1989, è stato detenuto nei Laogai per 9 anni. Nella sua intervista con l’agenzia di stampa Asianews, il 4 giugno 2007, Lu Decheng ha detto: «Ho passato 9 anni in un laogai, che era in realtà una fabbrica che produceva autoveicoli. Eravamo costretti al lavoro forzato per 15-16 ore al giorno… Dopo il lavoro dovevamo seguire le “sessioni di studio”, di indottrinamento forzato, che dovevano trasformarci in persone fiduciose nel socialismo. La situazione oggi in molte fabbriche della Cina è come ai lavori forzati».
Il Laogai è lo strumento prioritario di repressione contro dissidenti, religiosi e credenti di tutte le religioni. Oggi si usa contro il Falun Gong, una pratica religiosa cinese con elementi di confucianesimo, buddismo, taoismo ed esercizi fisici, e in molti casi contro i Cristiani. Infatti, dal 1999 è in corso una durissima persecuzione contro tutte le religioni non “ufficiali”.
I fedeli non allineati, che vengono arrestati o uccisi, sono sottoposti all’espianto degli organi, alimentando un altro lucroso mercato internazionale i cui proventi, come quelli creati dal lavoro dei detenuti-schiavi va nelle tasche del 20-30 per cento dell’intera popolazione (circa un miliardo e trecento milioni), per lo più quadri e dirigenti del partito comunista.
La stampa internazionale, il Congresso USA e numerosi politici hanno denunciato questo crimine in più occasioni. David Kilgour, ex segretario di stato canadese, e David Matas, avvocato, hanno pubblicato un rapporto sulla “Conferma di espianti di organi a praticanti del Falun Gong”. Questo rapporto è stato rivisto ed aggiornato nel gennaio 2007.
Il governo italiano, invece, in occasione dei viaggi compiuti anche dall’attuale presidente del Consiglio Romano Prodi in Cina per favorire i rapporti commerciali tra i due Paesi, ha preferito tacere. Come preferiscono far finta di niente le aziende e le multinazionali che pur di decuplicare i loro guadagni si fanno complici di un immenso sistema repressivo e sangunario.
Quando acquistiamo qualcosa “made in China”… pensiamoci.
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Harry Wu Controrivoluzionario. I miei anni nei gulag cinesi Ed San Paolo 2008