Il Venerdì supplemento di Repubblica 15 Dicembre 2017
Sono rimasti tra gli ultimi luoghi di aggregazione. Per capire perché ne abbiamo scelto uno e ci abbiamo passato il pomeriggio. Scoprendo che il parroco conta più del Papa
di Daniele Castellani Perelli
ROMA. C’è una bella falce e martello d’annata, nel cuore della parrocchia di San Bonaventura, a Torre Spaccata. È incorniciata in un vecchio volantino siglato dal Commando armato proletario, che rivendicava il lancio di due molotov per impedire la costruzione della chiesa stessa, 40 anni esatti fa, il 27 dicembre 1977. Tempi in cui, in questa periferia a sud-est di Roma, il Circolo giovanile comunista scriveva: «Meno chiese, più case, più servizi sociali».
«L’ho fatto incorniciare a maggio» sbuca alle nostre spalle don Stefano Cascio, 39 anni, indicando la galleria di foto d’epoca: «È in ricordo della nostra storia». In questa storia, in realtà, don Stefano è entrato da poco. Nato a Nizza nel 1978, figlio di una geografa francese e di un architetto siciliano, è arrivato in Italia con il Giubileo del 2000, e solo da un anno è a capo della chiesa di San Bonaventura. Un tempo piccolo, che gli è bastato però per rivitalizzare l’oratorio di una parrocchia che si batte in una delle tante aree problematiche della capitale.
C’è il gruppo per bambini disabili, la scuola calcio, il biliardino, il teatro, la ginnastica, il taglio e cucito, il ballo latinoamericano, il coro, la banda, l’orto e un centro anziani finalmente aperto alle donne («Punto a coinvolgerli anche con la cultura, che se fosse per loro giocherebbero solo a carte» scherza, ma non troppo, a giudicare dalla passione con cui si va di tressette sui tavoli).
L’attivismo di don Stefano riscuote successo, e non è un caso isolato. In una società secolarizzata in cui le sezioni dei partiti chiudono, i centri sociali arrancano e i giovanissimi si attaccano a cellulari e videogame, gli oratori reggono. «Parliamo di 300 mila animatori ed educatori e, d’estate, anche due milioni di bambini e ragazzi» racconta don Riccardo Pascolini. presidente del Forum degli oratori italiani.
Sul tema è uscito da poco anche un libro di Nando Pagnoncelli, Un pomeriggio all’oratorio (Edb edizioni). Presenta e analizza un’indagine Ipsos che parla di 8.245 realtà diffuse in tutta Italia – ma soprattutto al Nord – e fa la storia di un’istituzione che ha le sue origini nelle prime esperienze di san Filippo Neri a Roma, a metà Cinquecento, e viene trasformata poi da don Bosco in una «macchina perfetta» aperta ai non credenti, come la celebrava nell’81 Umberto Eco sull’Espresso.
Ma perché l’oratorio non è ancora passato di moda? «Ha un ruolo educativo importante, offre una pluralità di attività e svolge spesso una supplenza rispetto allo Stato, che è alle prese con la crisi» ci spiega Pagnoncelli. «E poi ha saputo rinnovarsi profondamente, coinvolgendo laici e professionisti e collaborando con enti e associazioni».
«Non sarà più un’istituzione centrale come una volta, però è un luogo aggregativo in cui frequentare gli amici e cercare Gesù Cristo» dice don Stefano. Non di soli cristiani, però, vive la parrocchia. Al punto, limite, che nei campetti romani si sentono invocare Dio e la Madonna in espressioni non proprio da manuale del catechismo, soprattutto quando si prende un gol. «La bestemmia?» replica il don, «è vero, per tanti è un intercalare, ma ci sono cose ben più gravi. E lo sa che più un Paese è cattolico e più si impreca? Pensi che in Quebec si bestemmia il tabernacolo. Tabamak! Chissà perché.
Comunque sappiamo benissimo che tanti figli di non credenti vengono da noi, ma ci fa solo piacere. Meglio qui che in strada. Il fenomeno è ancora più vistoso d’estate, quando i nostri 40 ragazzi diventano 60, e ci sono anche piccoli cinesi. Succede perché, per 50 euro a settimana, siamo l’unico posto che tante famiglie possono permettersi; perché insegniamo a essere cittadini responsabili a una generazione che ha perso i binari, che vive con padri e madri in guerra e attaccati più di loro ai cellulari, ragazzi che stanno sempre dietro qualche attività agonistica e mai a casa (noi preti tra 10 anni non faremo più la benedizione delle case, già ora non ci troviamo mai nessuno); e infine perché la parrocchia è un luogo protetto.
Aiutiamo i ragazzi con i compiti, soprattutto gli stranieri e chi non può permettersi lezioni private». Sarà protetto, sì, ma la cronaca parla di preti pedofili ogni settimana. Qui don Stefano si scalda, si toglie il cappotto; «La pedofilia è diffusa anzitutto nelle famiglie. Gli scandali dei preti ci sono, ma non mi hanno cambiato, abbraccio ancora i bambini, anche se ora, per evitare problemi, non ne accompagnerei mai uno in bagno». Lo stile moderno di questo giovane curato di periferia fa pensare subito alla rivoluzione di papa Francesco, tanto più che una delle iniziative di cui va più fiero è l’aver accolto in parrocchia una famiglia cristiana siriana.
Eppure si scopre che il suo punto di riferimento è un altro, è Giovanni Paolo E. Lo dice la sua libreria, su cui Wojtyla è in bella mostra in una foto insieme a lui (mentre Francesco è presente con un pupazzetto con testa ciondolante). Sul suo profilo TWitter, poi, critica la decisione del Vaticano di dedicare un francobollo alla riforma protestante, e si mostra vicino alla destra francese.
«Mi sento un conservatore. Però ho una mentalità aperta» racconta, lui che dietro la scrivania ha una riproduzione di un Tossissimo Rothko («Sono attratto dai pittori suicidi») e dice di non chiedere mai a un ragazzo se si masturba (non fa insomma quelle confessioni in stile Amarcord: «Ti tocchi? Lo sai che San Luigi piange quando ti tocchi?»). «Papa Francesco ha un capitale di simpatia eccezionale» spiega, «ma non basta a spingere qualcuno a messa ogni domenica. È il buon prete che ti porta in chiesa non il papa».
I soldi di Francesco e del Vaticano, però, mandano avanti la sua parrocchia, no? «No, è una piramide al contrario, dal basso verso l’alto. La stragrande maggioranza dei soldi con cui paghiamo ad esempio i 30 mila euro della nuova caldaia vengono dalla questua domenicale. Vuole sapere quanto guadagno? 860,66 euro lordi al mese, cioè meno di 600 netti, frutto perlopiù dell’8 per mille. Per arrivare a 800 dovrei usare i soldi della parrocchia, ma finora li ho devoluti a un prete cinese che è stato nostro ospite».
La parrocchia, che fa parte della rete del Centro oratori romani, è un punto di ritrovo gratuito in un quartiere dormitorio in cui il rischio di frammentazione sociale è molto alto: «Per questo organizziamo tante feste, dalle castagnate all’Oktoberfest. Questo è un quartiere diviso in due. Da una parte funzionari delle forze dell’ordine, dall’altra la zona per così dire “napoletana”, gli immigrati che negli anni 70 vivevano nelle baracche e i cui figli e nipoti sono spesso ancora in difficoltà. È un quartiere con i suoi problemi.
A Pasqua gli spacciatori ci hanno tirato un sasso contro una vetrata, mentre un’anziana che aiutavamo con la Caritas è stata arrestata perché nascondeva l’arsenale di una rapina». Ogni tanto qualche pecorella entra nell’ufficio del don, cerca una chiave oppure un prete per chiacchierar.
Don Stefano si coccola i piccoli, ma anche gli anziani, come i quattro “umarells” con cappellino che si piazzano davanti alla nuova finestra, appena installata, e commentano il lavoro. In gioventù don Stefano ha frequentato l’amore («Se rimpiango quei tempi? Non più di quanto faccia un uomo sposato con dei figli»), ma non la politica, che in compenso pratica a suo modo ora, da parroco: «Abbiamo ripulito il piazzale, e ci battiamo per la bonifica del parco archeologico di Centocelle, che camion dell’Est trasformano in discarica buttando slot machine e amianto. È la nostra Terra dei fuochi, e ci stiamo organizzando per porre fine a tutto ciò. Abbiamo scritto una lettera anche alla sindaca Raggi. Aspettiamo risposta».
Interpellati, dicono solo bene di lui sia Antonella Manotti del Comitato di quartiere sia Francesco Consalvi, giovanissimo coordinatore del circolo Pd, la cui sezione – segno dei tempi – per quattro anni è rimasta chiusa, e ha riaperto solo ora. Sono passati 40 anni dalle due molotov del ’77. Alle ultime elezioni, stravinte dal M5S, qui il Pd ha preso l’11 per cento, il Partito comunista l’1,31. Di comunista, in questa zona, c’è soltanto il nome, viale Togliatti. A Torre Spaccata Peppone non c’è più, è rimasto solo don Stefano. Perché Dio sarà pure morto, e Marx non ne parliamo. Ma l’oratorio è vivo, e lotta insieme a noi.