di Franco Cardini
Chiudo con straordinaria soddisfazione lo Hitler di Rainer Zitelmann (Laterza): un libro breve, denso, documentato, spregiudicato, che mi ha lasciato l’impressione di aver davvero riempito una lacuna nella mia cultura storica. Un libro che, fra l’altro, fa coraggiosamente e serenamente il punto sulla cosiddetta «storiografia revisionistica» e sulla polemica fra il grande Ernst Nolte e il noioso inquisitorello Jürgen Habermas.
Ma non è questo il punto. Anzi, sia chiaro che la biografia dello Zitelmann è tutt’altro che una riabilitazione del Führer. Al contrario. Il punto è che tipo di condanna dell’uomo politico bavarese emerge da queste pagine. E che tipo di immagine della sua ideologia e dei suoi presupposti.
Si continua tuttora tranquillamente, nonostante le molte e autorevoli smentite, a favoleggiare di un Hitler “romantico”, “irrazionale”, “mistico”, “regressivo” e di altre piacevolezze che, implicitamente, farebbero di lui un “reazionario”; e quindi – anche se non lo si dice lo si sottintende – un mostro da mettersi in contro a quell’ala nera della storia che sta dalla parte degli orrori mistico-irrazionali. Fra i quali, si sa, v’è chi pone anche la mentalità religiosa e il mondo cristiano-cattolico. Hitler sarebbe una cupa parentesi regressiva in un mondo felicemente avviato alle glorie progressive e laicizzatici.
Macché. Zitelmann richiama molto efficacemente quel che, del resto, già emergeva con chiarezza dalla lettura dei suoi Tischreden, un testo di primissimo piano. Hitler era un uomo brutale, che non aveva mai fatto mistero delle sue intenzioni: il che, se teniamo presente che egli non parla mai esplicitamente di totale eliminazione fisica degli ebrei (né si conosce al riguardo alcun probante documento che rechi la sua firma) fa pensare che forse in ciò le sue responsabilità siano diverse da quel che di solito si dice.
Né si può portare a spiegazione di ciò la prudenza: egli non si vergognò mai di sostenere apertamente, in altre situazioni, cause non meno criminali.
Qui sta la faccenda. Il Führer non era affatto un sognatore romantico. Era un figlio dell’Ottocento positivista che credeva ciecamente nelle ragioni del progresso e della scienza: è vero che subiva il fascino della magia, ma questo lato del suo carattere restava in ombra dinanzi alla sua continua, sistematica ricerca del “vero” razionale.
Era positivistica e razionalistica la sua critica alla religione, ai miracoli, all’eternità; era positivistico e razionalistico il suo pervicace anticlericalismo. Sono noti i provvedimenti ecologistici e zoofili del regime nazista, che non si capisce proprio perché molti ambientalisti d’oggi tendano contro la realtà dei fatti a negare.
Rifiutando la tesi della comune natura della famiglia umana, i nazisti abbassavano una parte dell’umanità al livello degli animali, ma in cambio asserivano la necessità di trattar bene questi ultimi e di non farli soffrire: e, al limite, di trattar bene anche gli Untermenschen non indogermanici nella misura in cui essi stessi erano animali. Toglieteci il razzismo ariano, e resta l’omologazione uomo-animale, il rifiuto della soglia distintiva fra questo e quello. Vi dice nulla tutto questo?
E allo stesso modo, vi dice nulla il fatto che nella Germania nazionalsocialista divorzio e aborto fossero facilmente consentiti e che dal 1939 si varasse addirittura un organico programma di eutanasia alla base del quale non stava nulla di diverso dalle solite ragioni umanitarie che in questi casi vengono ancora proposte?
La vittoria contro il nazismo, che era pur barbaro, non è stata affatto una vittoria sulla barbarie, bensì una vittoria sulla Germania e le sue pretese revisionistiche rispetto a Versailles. Ma la barbarie è continuata. Che cosa aspettano i progressisti occidentali per innalzare un monumento al Führer?