«Ho creduto nei khmer rossi»
Per Ong Thong Hœung, sopravissuto al genocidio del popolo cambogiano, terzomondismo e anti-imperialismo sono alibi dei totalitarismi liberticidi. Il racconto di un’illusione che si trasforma in incubo
di Pietro Piccinini
Quello che resta del popolo cambogiano vive oggi faticosamente immerso nella stessa melma in cui è stato gettato ventinove anni fa. Non si è mai seccato il fango in cui nel 1975 i khmer rossi hanno immobilizzato e seppellito la vita in Cambogia dopo aver sterminato 2 milioni di persone, un terzo dell’intera popolazione. E ciò grazie anche all’impunità che sono riusciti ad assicurarsi i carnefici di ieri, che oggi dicono di avere “la coscienza pulita” e vivono liberi e dimentichi di tutto il male inflitto alle loro vittime.
In effetti, benché fosse stato sconfitto e avesse dovuto abbandonare il potere fin dal gennaio 1979, Pol Pot è morto nel 1998, di malattia, nel suo letto, a casa sua, nel suo quartier generale nella foresta del nord-ovest della Cambogia. In effetti non è mai stato istituito alcun tribunale che avesse la volontà e l’autorità per dire una parola definitiva sulla “Kampuchea democratica”. In effetti la memoria dei cambogiani è intrappolata in una vischiosa tela d’ipocrisia in cui gli sterminatori complici di Pol Pot non solo non sono ancora stati portati in giudizio per i crimini commessi, ma addirittura oggi si ergono a paladini della democrazia e alcuni di loro occupano tuttora posizioni di potere.
Nuon Chea, ex gerarca di spicco del regime khmer, vive a Pailin e viaggia tranquillamente all’estero; a Pailin abita anche Khieu Samphan, che, da ex presidente della Kampuchea, recentemente (dopo aver assistito alla proiezione del documentario del regista cambogiano Rithy Panh “S21: The Khmer Rouge Killing Machine”) si è detto «meravigliato del perché i leader hanno ucciso questa gente», ma continua a negare il suo coinvolgimento nel genocidio; Ieng Sary, ex ministro degli esteri del Grunk (Governo reale di unione nazionale della Kampuchea), possiede una villa lussuosa nella capitale e dal 1996 gode di amnistia.
Insomma, quelli che ammazzavano i poveracci anche solo per aver rubato una patata “del popolo”, adesso vanno dicendo che è ora di dimenticare il passato, “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale”. Giusto. Il problema è che coloro che oggi parlano “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale” sono gli stessi che nel 1975 entrarono a Phnom Penh, ne deportarono per intero la popolazione, affamarono, torturarono e trucidarono 2 milioni di persone, proprio… “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale”. È per questo che Ong Thong Hœung ha deciso di pubblicare solo oggi, anno 2004, il suo libro, Ho creduto nei khmer rossi (Guerini e associati). «I compagni che sono morti non meritavano questa fine. E io non meritavo di aver salva la vita».
Ho creduto nei khmer rossi è la storia di un uomo che dall’Europa dove era andato a studiare e aveva abbracciato l’utopia comunista, torna in patria nei giorni della “liberazione”. Un uomo che giunto nella Phnom Penh liberata col sogno di partecipare finalmente all’edificazione di una società socialista ed emancipata, viene internato con sua moglie in un “campo di rieducazione”, dove riesce miracolosamente a sopravvivere nonostante le torture e dove, in un villaggio trasformato in lager, nasce la sua prima figlia. Oggi Ong Thong Hœung vive in Belgio, dove Tempi lo ha raggiunto telefonicamente.
Monsieur Hœung, cosa resta della tremenda lezione cambogiana? «Restano i carnefici, rimasti impuniti. Resta la terribile assenza di memoria che mi ha costretto a mettere per iscritto quello che ho visto e vissuto sulla mia pelle dell’inaudita violenza dell’utopia. Resta l’incredibile – almeno per quelli che come me ne hanno conosciuto il suo esito tragico – ideologia terzomondista che vedo ancora molto diffusa in Occidente, o perlomeno nell’Occidente che conosco, cioè l’Europa». In effetti, vi è più di un’analogia tra gli attuali movimenti pacifisti e anti-imperialisti che protestano contro l’intervento occidentale in Irak e quei movimenti pacifisti e comunisti-internazionalisti che negli anni Settanta protestavano contro l’intervento americano in Indocina.
Come all’epoca le piazze europee erano attraversate dal popolo comunista e arcobaleno che gridava «meglio rossi che morti», così oggi il pacifismo sembra unito dalla protesta sull’intervento alleato in Medio Oriente e dal trasferimento di ogni colpa sull’Occidente. Come spiega questa cecità, questa volontà di non guardare in faccia la realtà? «Non si spiega se non con la propaganda ideologica – dice Ong Thong Hœung – e comunque è davvero impressionante questa attitudine occidentale al senso di colpa. Ma l’Occidente non è colpevole! Al contrario.
L’Occidente è democrazia, libertà, diritti umani! Un modello di cui il mondo ha bisogno. Consideri l’Asia, gli unici regimi che funzionano e che resistono sono quelli a democrazia liberale, penso al Giappone, a Singapore, alla Corea del Sud, a Taiwan. Dove invece è passato il socialismo, ci sono ancora solo macerie, povertà, disgregazione sociale. Anch’io sono rimasto colpito dalla reazione agli attentati di Madrid. Come si fa a gridare sulle piazze “Aznar assassino”? Ma è una follia! Oggi è il fondamentalismo islamico il nuovo totalitarismo». Che verrebbe arginato se l’Occidente si ritirasse dall’Irak? «Ritirarsi dall’Irak? Sarebbe un catastrofe – dice lo scrittore cambogiano – piuttosto bisogna avere ben presente che il Medio Oriente ha bisogno di trovare la strada verso la democrazia e che l’islam deve essere aiutato a mettersi in discussione.
Come il cristianesimo ha avuto una sua evoluzione, così bisogna insistere perché l’islam si confronti con la modernità e trovi anch’esso la strada dei diritti umani e della democrazia. No, non condivido affatto la linea del pacifismo angelico che è un alibi per il potere totalitario. Mi spiace, io sono per la pace, ma il pacifismo in Europa è uguale al terzomondismo. E ribadisco: chi dice che l’Occidente è colpevole non rende un buon servizio alla pace, ma a quanti nel mondo calpestano la libertà, la democrazia e i diritti umani. Dico ai pacifisti e ai terzomondisti: andate in Indocina, andate in Laos, in Vietnam, in Cambogia, e vedete cosa ha prodotto l’odio antioccidentale. Però lei è un italiano e allora mi lasci dire: contrariamente a quello che leggo su tanta stampa europea io penso che Berlusconi sia un grande e coraggioso leader democratico dell’Occidente».
Ma chi è questo sopravvissuto di un’utopia che nasce e viene coltivata in Occidente e trova il suo campo di sperimentazione e di morte in Oriente? Come tanti cambogiani in quegli anni, Ong Thong Hœung, studia a Parigi, e come tanti suoi concittadini è un attivista dei movimenti sorti dal ’68, che inneggiano al socialismo e alla guerriglia indocinese contro l’aggressione americana. E come tanti, per realizzare gli obiettivi della resistenza rivoluzionaria, entra nel Funk (Fronte unito nazionale della Kampuchea), dove incontra e frequenta i futuri boia del suo popolo.
Era da dieci anni in Francia quando, il 17 aprile del 1975, i khmer rossi liberano Phnom Penh, convincendo moltissimi cambogiani a rientrare in patria per servire il loro paese, per ricostruirlo. Essi avevano atteso a lungo il giorno della rivoluzione, in cui finalmente la Cambogia sarebbe stata di nuovo libera dagli invasori americani. Così, nel luglio del 1976, anche Ong parte da Parigi. In volo già assapora il ritono al paradiso perduto molti anni prima. Non può nemmeno immaginare che a Phnom Penh, invece, lo aspetta l’inferno.
«Come avremmo potuto indovinare la sorte dei nostri amici rientrati per servire il paese? Al loro ritorno, sono stati tutti rinchiusi in differenti campi a Phnom Penh o nei dintorni. Fino al 1979 non sapremo niente di quello che succedeva nel resto del paese. Non avremo la minima idea della vita fuori dai campi. Avremo una visione d’insieme della realtà del regime dei khmer rossi solo dopo la sua caduta». Per due anni e mezzo Ong, come la stragrande maggioranza degli “intellettuali” rientrati dall’Europa, è rimasto rinchiuso nei campi di rieducazione, dove fu costretto a “ricostruirsi” per abbandonare individualismo, borghesismo, dignità, per imparare a fare “come il popolo”.
Nessuno dei rimpatriati ebbe il tempo nemmeno di far visita a ciò che rimaneva della propria famiglia. Nessuno poté tornare nei luoghi che desiderava rivedere e che adesso erano diventati dormitori, camere di tortura, macerie. Ai cambogiani rientrati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, invece, il governo della Kampuchea democratica riservava un trattamento più efficace: furono quasi tutti giustiziati all’arrivo con l’accusa di essere agenti della Cia o del Kgb.
Nei campi, gli “intellettuali” venivano educati ad accettare che l’Angkar, il partito, fosse l’unica entità in grado di prendere decisioni, programmare, avere una volontà o un’opinione, pensare, desiderare. A questo scopo, ogni momento della vita doveva essere politicizzato. Le persone, gli amici, i parenti, prima ancora di essere tali, dovevano diventare compagni oppure traditori. Perché, per l’Angkar, prima bisogna essere rossi, poi uomini.
Tra chi era riuscito a farsi giudicare “del popolo” dal partito, «qualcuno provava compassione per noi. Ma cosa potevano fare? Se qualcuno avesse osato difenderci sarebbe stato designato come un elemento indesiderabile, frutto della cattiva classe sociale, marcio, di destra, appartenente al Funk». In questo modo il regime creava la nuova società di cui nutrirsi: chi non riusciva a fare “come il popolo” veniva chiamato “a compiere il suo dovere per l’Angkar”, e nessuno lo rivedeva più. «Poco a poco, parliamo la stessa lingua, con le stesse parole e lo stesso stile della radio
L’identità di vedute sui problemi politici è ogni giorno più totale. Mai un punto di disaccordo. Al lavoro, ognuno segue l’altro. Tuttavia, si deve partire dal principio che bisogna essere il più “perfetti” possibile. Dobbiamo tirar fuori i nostri difetti per respingerli. Se no, gli altri diranno che non siamo sinceri. La riunione si incaricherà di eliminare tutti i pensieri reazionari, i tradimenti».
La disintegrazione dell’umano nei campi di rieducazione, portata avanti scientificamente durante le sedute di critica/autocritica pubblica, era resa ancora più insopportabile dal lavoro, duro quanto inutile, e dalla fame. «Nessuno conosce più nessuno, ormai. Non osiamo più guardarci in faccia. Ognuno è un potenziale nemico, un traditore da abbattere. Secondo Marx ed Engels, lavorando per modificare la natura, l’uomo trasforma il suo essere. Raccogliere merda, demolire una chiesa, zappare la terra, distruggere case: abbiamo lavorato con le nostre mani lottando contro quello che pensavano le nostre teste. Facciamo ciò che ci chiede l’Angkar, come bestie da soma. Eccoci trasformati in animali. Così abbiamo corretto la nostra natura».
Solo nel 1979, dopo l’invasione della Cambogia da parte dei vietnamiti, Ong poté sapere quale destino era toccato a quel popolo che l’Angkar lo aveva costretto ad invidiare. A partire dal 1975, la gente era stata allontanata a forza dalle proprie abitazioni. I villaggi e le città erano state programmaticamente svuotati, perché l’Angkar aveva stabilito che la popolazione si dovesse dedicare solo all’agricoltura e all’industria. Bisognava raggiungere la piena autarchia economica del paese. Chi non poteva camminare era stato eliminato durante la deportazione. Alla stessa sorte erano andati incontro i sospetti antirivoluzionari. La fame aveva ucciso centinaia di persone ogni giorno. Un bilancio allucinante. «Faccio un conto: due terzi dei miei parenti sono morti».
È un diario tremendo il libro di Ong Thong Hœung, dove sembra non esistere scampo alla ferocia di cui l’uomo è capace. Confessa le colpe per cui non ha saputo sottrarre sua moglie, i suoi amici, i suoi compagni di università, i suoi parenti alla bestialità dell’Angkar. Ho creduto ai khmer rossi è il lungo racconto di quanti, meno di trent’anni fa, come insetti attorno a una lampada, «incoscienti, si lasciano attirare dalla luce e muoiono a centinaia».
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Pol Pot boia? Invenzione della Cia
Padre Gheddo, trent’anni fa tu sei stato fra i primi a dare notizia del genocidio che i khmer rossi compivano in Cambogia
di Casadei Rodolfo
Padre Gheddo, trent’anni fa tu sei stato fra i primi a dare notizia del genocidio che i khmer rossi compivano in Cambogia, e fosti accusato di essere al servizio della Cia. Perché tanti qua da noi non volevano credere a quello che tu e altri raccontavate?
Perché erano dominati da una visione ideologica della realtà ed erano riusciti ad imporla nei media e nell’opinione pubblica. Con molta abilità il Pci aveva saputo imporre il suo modo di leggere i problemi internazionali extraeuropei. In Europa tutti vedevano che dietro la Cortina di Ferro si stava peggio, ma quando si trattava di paesi molto lontani come la Cambogia e il Vietnam o il Mozambico, allora il discorso ideologico funzionava, perché i comunisti erano riusciti a trasfonderlo nelle masse attraverso le loro organizzazioni.
Erano dominati dal pregiudizio ideologico secondo cui il socialismo è sempre meglio del capitalismo; quindi non deve meravigliare il fatto che dopo aver esaltato per parecchi anni la guerra di liberazione del Vietnam e della Cambogia, quando i comunisti cambogiani e vietnamiti sono saliti al potere si siano trovati spiazzati: le notizie che arrivavano contraddicevano le certezze dell’ideologia. E non solo nel caso della Cambogia: in Vietnam dopo la “liberazione” sono fuggite via mare rischiando la vita fra 1,5 e 2 milioni di persone; nel 1954-56 dal nord divenuto comunista erano fuggiti 600-700mila. Ma in Italia molti non ci credevano, oppure dicevano che si trattava di capitalisti e di collaborazionisti degli americani.
Venendo ai giorni nostri, secondo te c’è ancora una visione ideologica dominante a proposito dei conflitti nel Terzo mondo? Bisogna distinguere. Allora la sinistra di opposizione era tutta dominata da questa ideologia, oggi grazie a Dio no. Abbiamo una sinistra che è giunta ad una visione più realistica della realtà internazionale, che si oppone al governo Berlusconi sulla questione dell’Irak, ma che tuttavia ha una posizione ben diversa da quella degli estremisti di sinistra, cioè gli intellettuali dei Girotondi come Vattimo e Flores d’Arcais e i partiti alla sinistra dei Ds.
Quest’ultima è una sinistra ancora ideologica sotto molti aspetti, compreso quello dell’idealizzazione dell’Onu. In una recente intervista radiofonica hai sottolineato il ruolo di pacificazione che i cristiani svolgono in certe realtà di conflitto nel Terzo mondo.
Ho ricordato una cosa detta dal ministro degli Interni indonesiano, che è un musulmano. Lui diceva: «Quando formiamo dei comitati di riconciliazione dopo conflitti etnici fra popolazioni islamiche, mettiamo sempre un paio di cristiani che talvolta finiscono per presiedere il comitato. Perché voi cristiani avete il senso del perdono, dell’universalità, della gratuità, valori decisivi in queste circostanze».
Nei paesi asiatici a maggioranza musulmana le comunità cristiane sono molto vive, evangelizzano le minoranze non islamiche e costruiscono un rapporto armonioso con la maggioranza musulmana. Perché capiscono che è il modo migliore per favorire quell’evoluzione dall’interno dell’islam nel senso dell’apertura e della modernizzazione, che si comincia a scorgere in alcuni paesi.
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Alle radici dell’incredulità
di Casadei Rodolfo
Giudicata col senno di poi, l’incredulità di cui furono oggetto trent’anni fa le notizie sul genocidio compiuto dai khmer rossi può apparire una svista tanto clamorosa quanto incomprensibile. In realtà, Pol Pot e il suo comunismo rurale sono soltanto uno dei tanti miti, poi caduti nella polvere e nel sangue, davanti a cui intellettuali e movimenti politici occidentali si sono prosternati prima di ricredersi a fatica: Mao Zedong, Ho Chi Minh, Samora Machel, Yasser Arafat, Fidel Castro, Aristide e per un breve periodo persino Khomeini sono stati considerati icone venerabili e le loro realizzazioni modelli a cui ispirarsi.
La ragione di tutti questi folli innamoramenti sfociati in cocenti delusioni dopo fasi più o meno lunghe di accecamento l’ha spiegata Pascal Bruckner una ventina di anni fa nel suo libro Il singhiozzo dell’uomo bianco. Bruckner ha spiegato che il terzomondismo – oggi ribattezzato “altermondialismo” – è una religione secolarizzata che scimmiotta il cristianesimo.
È infatti centrata su di un peccato originale, quello compiuto dai popoli del Nord ai danni di quelli del Sud e che consiste nello sfruttamento e nell’asservimento di questi ultimi; e su di una figura di redentore: gli stessi popoli del Sud, che proprio per la loro natura di oppressi e vittime innocenti hanno tutte le qualità politiche e morali per redimere se stessi e tutta l’umanità, attraverso rivoluzioni che sono vere e proprie palingenesi morali. In nome di questa visione giornalisti come Tiziano Terzani non potevano credere nemmeno a quello che si compiva sotto i loro occhi: era semplicemente impossibile che chi era innocente per natura si macchiasse di crimini; era semplicemente impossibile che i complici del sistema globale di oppressione dicessero la verità.
Questo meccanismo fideistico continua a funzionare anche oggi, al cospetto della minaccia jihadista: è di capitale importanza per gli altermondialisti sottolineare che Osama Bin Laden, i talebani, la monarchia saudita, Saddam Hussein, ecc. sono stati in un momento o nell’altro alleati o soci degli americani. Questo permette infatti di confermare il dato di fede secondo cui gli esseri umani del Sud sono buoni e innocenti, e diventano cattivi e colpevoli solo quando si fanno corrompere dal potere del capitalismo finanziario e dell’imperialismo.
Perché la religione secolarizzata del terzomondismo-altermondialismo esercita tanta presa in Occidente? Perché, almeno in Europa, l’Occidente non crede più alle sue religioni di un tempo: non crede alle “magnifiche sorti e progressive” promesse dall’illuminismo e dal positivismo, e da più tempo ancora non crede alla formula storica della cristianità e alla sua promessa di “pace frutto della giustizia”.
E siccome non soltanto la natura, ma anche la storia non tollera vuoti, alle religioni di un tempo se ne è sostituita una nuova, fondata sull’odio di sé: le distruzioni delle guerre mondiali e del colonialismo dimostrano che la nostra storia è sbagliata, la salvezza può soltanto arrivare dal di fuori, dall’Altro. Ma l’Altro che arriva si rivela sempre un falso messia.
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Pentimento cinese
Dietro ai khmer rossi c’era il maoismo, illusione degli intellettuali occidentali, incubo di quelli cinesi. Che oggi cercano nel cristianesimo una via oltre la disumanità dell’ideologia. Un missionario racconta
di Casadei Rodolfo
Per la prima volta dal sedicesimo secolo, dall’epopea di Matteo Ricci, gli intellettuali cinesi si rivolgono al cristianesimo con interesse e simpatia». Gianni Criveller, missionario Pime a Hong Kong da dodici anni, si esprime col linguaggio austero e irreprensibile dello studioso, ma soddisfazione e un senso di rivincita trapelano dalle sue parole.
Da oltre mezzo secolo i missionari cristiani non sono accetti nella Cina continentale, ma da una dozzina di anni nelle ufficialissime università statali si svolgono corsi di studi cristiani, e lui è l’unico sacerdote cattolico di tutto il mondo puntualmente invitato a svolgere lezioni e seminari di cristianesimo al cospetto di studenti e professori delle facoltà di filosofia, studi umanistici, scienze religiose. Gli “studi cristiani” sono uno dei fenomeni di maggiore rilievo nel mondo accademico cinese contemporaneo.
La tradizione antireligiosa cinese è ben nota, specialmente nei riguardi del cristianesimo. Nella Cina imperiale prima e comunista poi migliaia di missionari (compresa una decina di confratelli di padre Criveller) sono stati martirizzati nei modi più crudeli, e una gran quantità di cristiani locali sono stati trucidati. Alla luce di ciò quel che sta succedendo nelle università è sorprendente, ma solo se si dimenticano due passaggi essenziali. «Gli intellettuali cinesi – spiega Criveller – sono stati traumatizzati da due vicende: la Rivoluzione culturale e la repressione di piazza Tien-An-Men.
Quelle due esperienze hanno segnato ai loro occhi prima il fallimento del maoismo, e poi quello del riformismo di Deng Xiaoping. Si sono messi alla ricerca di nuove vie, e così sono arrivati al cristianesimo. Tutti i cinesi vengono educati all’idea che la religione è un’aberrazione dello spirito, è una superstizione antiscientifica; e che il cristianesimo è stato uno strumento della penetrazione imperialista in Cina.
Ma chi frequenta gli “studi cristiani” scopre che il cristianesimo è al cuore dello sviluppo della civiltà occidentale, che non è affatto nemico della ragione e della crescita sociale. Quello che però li colpisce di più e cambia i loro pregiudizi è l’approccio con l’arte sacra, come quella di Raffaello e Michelangelo: se i soggetti religiosi hanno ispirato tanta bellezza, pensano, non possono essere una cosa da disprezzare».
Identikit dei “cristiani culturali”
Le università cinesi che tengono corsi di cristianesimo sono dodici, la prima è stata l’università Zejong di Pechino nel 1991. Padre Criveller viene invitato attraverso l’Istituto di studi sino-cristiani di Hong Kong di cui è guest professor, l’unica realtà a cui si rivolgono le autorità accademiche cinesi. L’istituto è sponsorizzato dalla Federazione luterana mondiale, e tranne Criveller tutti gli insegnanti spediti in Cina sono protestanti.
Alla fine, fra le migliaia di studiosi cinesi del cristianesimo contemporanei alcune centinaia possono essere definiti “cristiani culturali”, che hanno nel cristianesimo un punto di riferimento intellettuale, morale o spirituale. Per alcuni di essi non è importante la verità religiosa del messaggio, ma il suo contenuto morale, visto come l’ancora di salvezza della società cinese in trasformazione.
Altri invece approdano ad un’adesione piena all’annuncio cristiano, che però vivono al di fuori di qualsiasi contesto ecclesiale per varie ragioni: non vogliono entrare nella Chiesa clandestina per non essere estromessi dall’università e non aderiscono alla Chiesa ufficiale, filo-governativa, perché la giudicano un’istituzione politica e non autenticamente evangelica; sono scandalizzati dalle divisioni fra i cristiani, dalla frammentazione delle denominazioni che secondo loro rende priva di significato la partecipazione istituzionale.
«Liu Shao Bong, il “padre” dei cristiani culturali – dice Criveller – un giorno ha detto: “Siamo come Simone Weil, cristiani senza battesimo e senza Chiesa”. Poi però si è fatto battezzare in Svizzera da un pastore protestante. E a me personalmente è accaduto più di una volta di sentirmi dire da uno studente: “Professore, ho deciso di chiedere il Battesimo”. L’ultima volta che mi è capitato è stata una vera sorpresa, si trattava di una delle traduttrici delle lezioni: era raggiante»