di Gerolamo Fazzini
Due colonne sulla Stampa, mezza pagina su Avvenire, un commento su Tempi. Il resto? Silenzio o quasi. Le elezioni in Honduras, svoltesi a fine novembre dopo mesi di tensioni, sono passate quasi inosservate nei media italiani. Con ogni probabilità, a motivo del risultato: la vittoria di Porfirio Lobo, esponente del Partito nazionale, non era negli auspici di quanti tifavano per il Presidente uscente, il filo-chavista Manuel Zelaya e, quindi, guardavano con simpatia al candidato «progressista» Elvin Santos.
L’appello del presidente deposto a boicottare le urne è dunque caduto nel vuoto, così come le minacce dei Paesi confinanti di non riconoscere i risultati delle elezioni.
Con l’eccezione del Brasile e dei governi di sinistra del continente, hanno riconosciuto il voto honduregno vari Paesi, fra cui Stati Uniti, Canada e Messico. Ma di questo sui giornali italiani non troverete quasi nulla, perché si tratta di una «scomoda verità». Al contrario, il fatto che gli Usa, alla fine, abbiano sancito la legittimità del voto honduregno ha spiazzato molti dei sostenitori di Obama.
Mons. Demetrio Valentini, figura di spicco dell’episcopato brasiliano, ha scritto: «Un aspetto preoccupante, che emerge da questa situazione confusa è l’inclinazione inconfondibile degli Stati Uniti. C’era la speranza che con Obama questa posizione sarebbe cambiata, ma purtroppo il potere dei vecchi “falchi” americani si dimostra ancora una volta al top». Tutto ciò non fa che confermare un fatto: la vicenda honduregna non può essere letta con occhiali ideologici.
Tanto per fare un esempio emblematico: quello che è stato per settimane indicato come «capo del regime», bollato dagli oppositori locali e dalla stampa internazionale con il nomignolo dispregiativo di «Pinocheletti» (quasi fosse un novello dittatore), era – in realtà – un presidente ad interim, che non avrebbe potuto presentarsi alle elezioni di novembre, e che, anzi, si era detto disponibile a dimettersi anche prima se Zelaya avesse rinunciato ufficialmente alla sua pretesa di tornare in carica. Siamo dunque, ognun vede, in presenza di una questione complessa: nessuno dei contendenti è immune da colpe e, di conseguenza, la verità non sta da una parte sola.
Lo sguardo del cardinale
Ma torniamo alle origini della convulsa stagione politica che l’Honduras ha vissuto. Ho un ricordo personale molto nitido della voce preoccupata con cui mi parlò il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga il 25 giugno scorso. L’arcivescovo di Tegucigalpa si trovava a Torino, relatore al convegno delle Caritas italiane. L’avevo contattato al telefono per concordare la consueta rubrica mensile su Mondo e Missione. E il cardinale, alla fine della breve conversazione, mi aveva congedato con un: «Pregate per il nostro Paese e il nostro popolo, stiamo attraversando un momento molto difficile».
Ma simili preoccupazioni erano emerse da mail e contatti precedenti, tant’è che a crisi scoppiata il prelato se n’è uscito con questa espressione, rivolta ai media internazionali: «Avreste dovuto prestare attenzione a tutto quello che già prima stava accadendo al di fuori della legalità in Honduras e non solo a quello che è successo dopo il 28 giugno».
Se tedio i lettori con un ricordo autobiografico, apparentemente secondario, è per documentare come la crisi dell’Honduras — che per i media internazionali è scoppiata con il presunto «golpe» ai danni di Zelaya – in realtà covava sotto la cenere da tempo, ovvero da quando l’allora presidente honduregno aveva manifestato l’intenzione di modificare la Costituzione per via popolare, con un referendum consultivo, una procedura non prevista dall’ordinamento del Paese e dunque illegale. Non è un particolare da poco.
Se si rileggono passo passo gli ultimi eventi che hanno toccato il Paese, risulta più agevole comprendere che cosa effettivamente sia accaduto e come vadano collocati i protagonisti.
Ecco come uno strettissimo collaboratore del cardinale Maradiaga, monsignor Darwin Andino Ramirez, vescovo ausiliare di Tegucigalpa, ha ripercorso così gli ultimi mesi in un’intervista a Mondo e Missione. «La Conferenza episcopale non ha aspettato il cosiddetto golpe per parlare: già il 19 giugno avevamo emesso un comunicato in cui si stigmatizzava come illegale quel voto. Tutti, in verità, avevano sanzionato l’illegalità del referendum consultivo, propedeutico alla convocazione di un’assemblea costituzionale, che il presidente contro la volontà di tutte le istituzioni, compresa quella del Parlamento, voleva assolutamente svolgere».
E ancora: «La Costituzione honduregna vieta di modificare alcuni dei suoi articoli e stabilisce che chi cerca di farlo decade automaticamente dalla sua carica. Zelaya non ha mai dichiarato apertamente quali articoli voleva modificare, solo cercava di abbinare una cuarta urna alle tre previste per le elezioni di novembre prossimo [presidenziali, politiche e amministrative, ndr] per chiedere al popolo di poter convocare un’Assemblea costituente. Ma tutto questo è illegale a norma della vigente costituzione».
L’art. 239 della Costituzione della Repubblica dell’Honduras vieta espressamente la rielezione e dice che chi non rispetta questa disposizione o ne propone la riforma «cessa immediatamente di ricoprire la sua carica e per dieci anni non può esercitare alcuna funzione pubblica». È, questo, un punto decisivo, alla luce del quale si comprende perché il cardinale Maradiaga e i vescovi honduregni abbiano preso coraggiosamente posizione contro Zelaya, prendendo le distanze da quanti hanno parlato di «colpo di Stato» in merito alla sua destituzione: quest’ultimo non era già più presidente della Repubblica quando è stato catturato.
«Tutti i documenti di cui siamo entrati in possesso», si legge in un documento della Conferenza episcopale diffuso all’indomani della crisi, «dimostrano che le istituzioni dello Stato democratico honduregno sono in vigore e che le loro azioni in materia giuridico-legale sono in conformità con il diritto… I tre poteri dello Stato, esecutivo, legislativo e giudiziario, agiscono in senso legale e democratico in accordo con la Costituzione della Repubblica dell’Honduras».
Con questa scelta, com’è noto, Maradiaga si è attirato – lui, con un profilo storicamente di prelato «progressista» – l’etichetta di «golpista» reazionario, il che la dice lunga sulla confusione che regna sotto il ciclo, come bene ha spiegato Alessandro Armato in un commento sul sito MissiOnLine.
Un Paese nel caos
A ben guardare, però (anche in questo caso i media non hanno reso un buon servizio), la Conferenza episcopale honduregna non ha appoggiato acriticamente Micheletti, anzi ha chiesto spiegazioni sulle dinamiche che hanno portato all’espulsione di Zelaya. La bussola, ancora una volta, era la Costituzione: l’articolo 102, infatti, recita: «Nessun honduregno potrà essere espatriato né consegnato a uno Stato straniero».
Va anche detto che, nei giorni immediatamente successivi alla deposizione di Zelaya, si sono verificati disordini, violenze e abusi la cui responsabilità va addebitata anche a Micheletti e alle persone ai suoi ordini. Il direttore di Caritas Honduras, Pedro Landa, spiegando la situazione di quest’estate, ha parlato di «un Paese pesantemente militarizzato» e di «persone imprigionate, arrestate e anche scomparse».
Uno degli attivisti per i diritti umani più noti, padre José Andres Tamayo, è stato costretto a nascondersi per sfuggire all’arresto dopo aver protestato pubblicamente contro il «golpe». Secondo quanto riferito dall’agenzia dei vescovi Usa Catholic News Service, padre Tamayo ha partecipato a una dimostrazione di piazza nella città di Los Limones, quando è stato attaccato dai soldati che hanno picchiato lui e molti altri dimostranti.
Un altro grave episodio: il 30 giugno un gruppo di soldati ha chiuso con la forza Radio Progreso, nel Nord del Paese. I soldati sono entrati e hanno ordinato di interrompere le trasmissioni, come ha raccontato con dovizia di particolari il direttore della radio, il gesuita Ismael Morene, sulla rivista Popoli.
È innegabile che, a livello ecclesiale, quanto accaduto abbia lasciato strascichi e ferite: una buona fetta della «base» e molti religiosi e religiose guardano a sinistra e simpatizzano per Zelaya e i suoi. Ma va sottolineato, altresì, che i vescovi hanno assunto una posizione pressoché compatta, a eccezione del vescovo Luis Santos Villeda di Santa Rosa de Copan, che ha rilasciato dichiarazioni a sostegno di Zelaya, spiegando che questi ha aumentato i salari minimi e ha investito fondi governativi a favore delle cittadine più povere.
Maradiaga, da parte sua, ha dichiarato in una recente intervista, di aver perso la fiducia in Zelaya dopo essere venuto a conoscenza che quest’ultimo era colpevole di corruzione, avendo rubato denaro destinato a programmi a favore dei poveri. Ha poi aggiunto di aver collaborato con la moglie di Zelaya, in alcuni programmi quali il censimento dei settori poveri del Paese, scoprendo però che parte dei fondi per i finanziamenti erano stati sottratti a fini privati.
Anche un’altra iniziativa apparentemente meritevole di Zelaya, quella di tenere gli incontri del governo in diverse cittadine in tutto il Paese, si è rivelata perlomeno ambigua: il cardinale ammette di essersi accorto tardivamente che quegli incontri avevano in realtà «lo scopo di istillare odio tra le classi».
Ora, a voto avvenuto, il Paese prova a ripartire ma le tossine della violenza sono ancora disperse nell’aria. Di qui l’appello della Caritas locale al «dialogo tra le parti: tutti i settori della società dovrebbero ora aprirsi al dialogo e a costruire il consenso. La crisi dovrebbe essere un’opportunità per la società di generare iniziative e soluzioni ai problemi seri del Paese».
Mai come ora quanti hanno a cuore il bene del popolo non possono che far loro tale auspicio.