di Marco Respinti
Dopo un vero testa a testa durato sino agli ultimi scampoli di voto, il 6 novembre Barack Obama ha ottenuto la rielezione per il secondo mandato presidenziale alla Casa Bianca. Vale a dire altri quattro anni di danni annunciati e più che prevedibili.
Il favore con cui la sua Amministrazione ha guardato, e quando potuto apertamente aiutato, la parificazione delle unioni omosessuali al matrimonio eterosessuale monogamico, è stato più che palese. E la violazione alla libertà umana principale, quella religiosa, di cui si è fatto alfiere non ha davvero precedenti nella storia degli Stati Uniti. La prima, maggiore nota imbarazzante di questa tornata elettorale si registra del resto proprio qui.
Mai come nel 2012 lo scontro tra le Chiese e la Casa Bianca è stato aperto, frontale, duro. Mai con la lucidità e le precisione di oggi le Chiese hanno denunciato apertamente, più volte anche nelle aule dei tribunali, la violazione della libertà religiosa (sancita a chiare lettere nella Costituzione federale statunitense) perpetrata dal potere esecutivo dalla più grande democrazia del mondo a danno dei propri cittadini attraverso l’imposizione a tutti, per via legale, di una misura di governo economico che comporta, e non come effetto collaterale, la lotta frontale alla vita umana nascente.
Mai come oggi le Chiese americane sono state più patriottiche e ligie al diritto positivo vigente nel Paese dell’Amministrazione in carica nel difendere libertà religiosa e il diritto alla vita come questione di diritto naturale e di fede confessionale. E mai come oggi la Chiesa Cattolica americana ha assunto ruoli di leadership anche nei confronti delle altre confessioni religiose nel difendere dalla prevaricazione il patrimonio nazionale di libertà religiosa in termini assolutamente e autenticamente laici.
Ma non è bastato. La grande massa del voto cattolico americano ha disinvoltamente voltato le spalle a questa battaglia di vera civiltà, facendo l’esatto contrario di ciò che la gerarchia cattolica americana ha indicato anche in termini evidentemente elettorali pur senza mai voler ingerire nello specifico della contesa partitica.
All’avversario di Obama, il mormone Mitt Romney accompagnato dal candidato alla vicepresidenza Paul Ryan, cattolico, non sono mancati solo i voti di molti, troppi cattolici statunitensi, ma certamente quelli sì.
Molti, troppi cattolici statunitensi hanno infatti preferito votare mettendo in secondo piano (o addirittura tra parentesi) lo scontro sui “princìpi non negoziabili”. In tempi di pesante crisi economica, molti, troppi cattolici statunitensi hanno pensato che il problema più urgente ora fosse quello del portafogli, o del “posto fisso”, o della “copertura sanitaria”, magari pure di una nuova legge sull’immigrazione, e per questo hanno ignorato i moniti della Chiesa Cattolica statunitense e di mille altre realtà religiose organizzate del Paese, pensando che, nonostante tutto, di quelli si può per un momento fare a meno.
Ma non è così. Anzitutto perché i “princìpi non negoziabili”, proprio per definizione, non possono mai scivolare al secondo posto delle priorità politiche ed elettorali. Poi perché, anche su un piano meramente pragmatico, il costo della lotta alla libertà religiosa e al diritto alla vita che da quattro anni Obama persegue, e che per quatto anni ancora egli ancora adesso perseguirà, peserà solo sulle tasche dei contribuenti, impoverirà ulteriormente il mercato del lavoro, farà chiudere i battenti a diverse charity che non vorranno piegarsi al diktat della Casa Bianca e genererà una “lotta di classe” American-style tra datori di lavoro e impiegati per contendersi un cachet contro l’emicrania valevole quanto un voucher per un aborto pagato dal principale, mentre chi già oggi è senza mutua continuerà nella sostanza a non averla (la riforma Obama punta più a imporre i criteri dell’assistenza sanitaria graditi alla sua politica che ad ampliare il numero gli assistiti) e la spesa pubblica a crescere.
La questione grave e profonda evidenziata dal voto americano del 6 novembre è insomma la “questione culturale dei cattolici americani”, i quali, per calcolo di bassa bottega (e sbagliato), miopia politica e soprattutto ignoranza profonda del magistero sociale della Chiesa, snobbano le indicazioni della gerarchia e si prestano a produrre danni socio-politici incalcolabili.
Spesso questa parte del mondo cattolico americano, che oggi mostra di essere la maggioranza (almeno la maggioranza di coloro che il 6 novembre si sono recati alle urne) è quella più vociante sui media, talora più radicata sul territorio, malauguratamente spesso annidata in parrocchie, centri culturali e realtà religiose varie, nonché certamente legata al fenomeno dell’immigrazione dal mondo latinoamericano, in specie il Messico.
Al voto anti–Obama non ha nuociuto solo la latitanza di un mondo cattolico sempre più ignaro di cosa significhi far politica da cattolici, ma illudersi, come troppi fanno, che basterebbe aprire all’immigrazione latinoamericana senza “ma” e senza “se” per ottenere assetti politici “più cattolici” di quanti possa offrire il Partito Repubblicano anti-Obama di tradizione (si dice) “bianca e protestante”: è un illusione che gli Stati Uniti stanno già pagando a caro prezzo.