I cattolici in Russia fra missione ed ecumenismo

cattolici_RussiaVita e Pensiero n.6 Novembre- Dicembre 2009

Nell’ex Unione Sovietica, la Chiesa cattolica non deve cedere alla tentazione di concepirsi come Chiesa “etnica”, bensì deve manifestare la sua esistenza, storica e provvidenziale, per aprire nuovi spazi al dialogo con gli ortodossi e alla testimonianza

di Paolo Pezzi (*)

Perché la Chiesa cattolica è presente in Russia? Da dove viene la sua presenza, che senso essa ha oggi? Se, come si afferma nella nota Dominus lesus, la Chiesa russa ortodossa è una «vera chiesa particolare», nella quale è «presente e operante la chiesa di Cristo», che senso ha la presenza della Chiesa cattolica apostolica romana in terra russa? Quale sfida, per usare un termine abbastanza comune, la attende e quale sfida può portare essa stessa?

Se finora la presenza cattolica in Russia ha mirato soprattutto, da una parte, a ottenere la restituzione, ristrutturazione e nuova costruzione dei necessari edifici di culto e delle necessarie strutture; dall’altra, alla cura e ricerca dei fedeli sparsi per il territorio; diviene ora mio parere necessario – senza per questo tralasciare questi importanti compiti – porsi con più urgenza le domande sopra esposte, tentando anche di abbozzare una risposta.

Innanzi tutto occorre riconoscere l’evidenza di un dato: la presenza cattolica in Russia è un fatto. Che ci siano cattolici in Russia, e ormai in tutta la Russia, è una realtà storica. Ora, ogni fatto storico che ha a che fare con la vita della Chiesa, non può non avere anche, dal punto di vista di chi è credente, un qualche significato provvidenziale: questa presenza, questo “esserci” del cattolicesimo in Russia, deve essere anche un bene, se tale presenza si è di fatto venuta radicando lungo i secoli, in un modo in realtà non programmato dai vertici della Chiesa romana stessa. Un breve excursus storico può aiutare a comprendere meglio ciò che intendo dire.

Forse non tutti sanno che fin dal suo Battesimo (X secolo) la Rus’di Kiev ha ospitato una presenza della Chiesa latina. I cattolici vi erano presenti con loro chiese, officiate da clero latino, e con i monasteri fondati da missionari che accompagnavano i mercanti occidentali non solo per l’assistenza dei loro connazionali, ma anche per la diffusione della fede tra le popolazioni locali.

Questi contatti con la Chiesa di Roma e la sua presenza nei territori della Rus’ di Kiev non sono mai mancati, anche se va riconosciuto che la Russia di Mosca non ha mai conosciuto l’unione con Roma e fin dal suo sorgere non ha manifestato particolari interessi ad allacciare rapporti con la Chiesa cattolica.

Verso la fine del secolo XVII, con l’ingresso di parte dei territori dell’Ucraina e della Bielorussia nella Russia imperiale, diviene tuttavia stabile una presenza cattolica latina anche nella Russia di Mosca, e si costituisce così una prima comunità cattolica a Mosca, con una propria chiesa, dedicata ai santi Pietro e Paolo. Pietro il Grande e soprattutto Caterina la Grande, interessati ad attirare stranieri per modernizzare lo Stato russo e popolare le terre, permisero una presenza cattolica – soprattutto dovuta alle popolazioni di origine tedesca e polacca – sempre più organizzata, con chiese, gerarchia, scuole e cimiteri.

Nel 1783 Pio VI potè erigere l’Arcivescovado di Mogilev (nell’attuale Bielorussia), che funzionò fino all’epoca comunista, con sede a San Pietroburgo.

Bisogna tuttavia precisare che sotto gli Zar ai cattolici in Russia era vietata ogni forma di “propaganda”: l’ortodossia era religione di Stato e di fatto veniva punito come “apostasia” il passaggio a qualsiasi confessione cristiana diversa dall’ortodossia. Ciò significa che la Chiesa cattolica in Russia veniva considerata e tollerata come chiesa di stranieri. Fu questo status di chiesa per gli stranieri a garantire alla presenza cattolica una coesistenza più o meno pacifica con la Chiesa russa ortodossa.

Un caso speciale è la questione dei greco-cattolici, entrati a far parte dell’Impero russo in seguito all’annessione di territori storici che tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo avevano aderito all’Unione con Roma, conservando la tradizione liturgica bizantino-slava. Nei confronti di questi ultimi la politica degli Zar (in particolare di Nicola I) fu quella del ritorno forzato all’Ortodossia, mediante l’esautorazione delle comunità greco-cattoliche locali.

Nel contempo non si può passare sotto silenzio il significativo — benché assai circoscritto – fenomeno dei cosiddetti “cattolici russi”, cioè di russi etnici passati al cattolicesimo, che, soprattutto a partire dal XIX secolo, in diverse epoche e in diverse condizioni storico-ecclesiali elaborarono un certo programma religioso che si usa convenzionalmente chiamare “idea cattolica russa”.

Si tratta di persone come loann-Ksaverij Gagarin, Elizaveta Volkonskaja, e soprattutto Vladimir Solov’ev, che desideravano e vivevano già in modo più o meno provvisorio una riunione fattuale e definitiva con quella che consideravano la Chiesa universale, cioè la Chiesa cattolica. All’inizio (dal 1830 circa), sviluppano la loro attività nell’emigrazione, ma già alla fine del XIX secolo vediamo il formarsi delle prime comunità di cattolici russi di rito orientale, all’interno della Russia. Tali comunità ottennero un riconoscimento anche giuridico nella primavera del 1917 dal Governo provvisorio.

Nell’Unione Sovietica, assieme a tutti gli altri cristiani, anche i cattolici hanno subito la tremenda persecuzione che ha dilaniato la Russia e hanno vissuto per quasi settant’anni nella quasi totale assenza di educazione religiosa e cura pastorale. Questa enorme tragedia della Chiesa cattolica in Russia inizia già subito con l’avvento dei bolscevichi al potere e si sviluppa immediatamente negli anni della guerra civile che sconvolse il Paese (1917-1922).

Le persecuzioni portarono alla fine degli anni Trenta pressoché all’annientamento della Chiesa cattolica, almeno nelle sue strutture ufficiali. Se nel 1917 due milioni circa di cattolici che vivevano in Russia potevano contare sull’opera di 900 sacerdoti e religiosi, nel 1935 non ne avevano più che una decina. Con il progressivo diminuire dei presbiteri, furono i laici a sostenere le comunità cattoliche e a svolgere azioni di apostolato, durante il periodo delle repressioni.

Con la caduta del regime sovietico si è aperta una nuova pagina per la presenza cattolica in Russia. A tutt’oggi, e nonostante il consistente flusso migratorio verificatosi soprattutto negli anni Novanta delle popolazioni di origine tedesca, polacca, lituana, ucraina e bielorussa verso quei Paesi, i cattolici nella Federazione Russa costituiscono una realtà che, pur evidentemente minoritaria, ha tuttavia una propria consistenza significativa

Le possibili concezioni di una presenza

Alla luce di tutto ciò, penso che una prima sfida che la Chiesa cattolica in Russia deve oggi affrontare sia quella di non cedere alla tentazione di concepirsi come Chiesa “etnica”. Come Chiesa cioè dei “non russi”.

La Chiesa non è mai riducibile ad alcun principio etnico. Un principio etnico non può mai fungere da principio giustificativo della presenza ecclesiale in un determinato ambiente, quali che siano le condizioni di quello stesso ambiente. Ciò è stato una volta per sempre stabilito dal Concilio di Gerusalemme, alle origini stesse della storia della Chiesa (cfr. At 15,1-31; Gal 2,1-9). Se, per circostanze eccezionali, la Chiesa in un determinato luogo o in un determinato periodo deve limitare la sua cura a certi gruppi “etnici” (come era il caso della presenza cattolica in Russia fino al 1905), essa lo deve fare con il forte desiderio di “aprire” le sue porte a tutti gli altri appena possibile; altrimenti alla fine soffocherebbe.

Ha scritto Giovanni Paolo II: «Se vogliamo evitare il rinascere di particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo comprendere che l’annuncio del Vangelo deve essere, a un tempo, profondamente radicato nella specificità delle culture e aperto a confluire in una universalità che è scambio per il comune arricchimento».

Per la presenza cattolica in Russia questo significa da una parte la necessità di non rinnegare o dimenticare la propria storia, e quindi che essa è nata di fatto esattamente come presenza “etnica”: di polacchi, tedeschi, lituani, ucraini, francesi venuti e rimasti in Russia; e tuttavia anche di russi, già nel passato, secondo la loro storia del tutto particolare di “russi cattolici”.

D’altra parte, significa che, se la presenza cattolica è e deve essere radicata nella specificità delle varie culture dentro le quali è stata portata in Russia, essa deve anche aprirsi «a confluire in una universalità che è scambio per il comune arricchimento».

Ciò implica che, per esempio, la tradizione tipicamente “latina” di gran parte dei russi cattolici (secondo la loro origine tedesca, lituana, ecc.) certamente non deve essere rinnegata né trascurata. Nello stesso tempo, però, non si può confondere l’essere “latini” (così come l’essere tedeschi, lituani, polacchi, ecc.) con la propria identità di “cattolici”; essere cattolico significa semplicemente essere un seguace di Cristo, che vive la propria fede in comunione con il proprio Vescovo che è a sua volta in comunione con il Vescovo di Roma.

Ma i cattolici presenti in Russia, come in qualsiasi altro luogo, vivono la propria fede anche in un preciso ambiente, quello della Russia dell’inizio del XXI secolo. E la fede cristiana muore se non accetta di incarnarsi nelle circostanze di tempo e di luogo, di cultura in cui è chiamata a maturare.

Come ha scritto Jean Daniélou: «Cristo è il gesto di Dio, venuto per l’uomo laddove questi si trova, per prenderlo e innalzarlo fino a sé […]. Ciascuno accoglie la Parola di Dio secondo la propria forma di religiosità, e i valori delle diverse religioni nel cristianesimo si conservano. Un indiano, facendosi cristiano, resta pienamente indiano […]. Spesso nutriamo l’illusione che la nostra maniera di essere cristiani sia l’unica. Nasce di qui il nostro desiderio di imperla agli altri. Ed è proprio qui l’errore del colonialismo cristiano».

La Chiesa perciò non diméntica la sua storia, cioè le modalità concrete per le quali e nelle quali ha storicamente formulato il suo annuncio (tra cui certamente anche le tradizioni “etniche”); essa però non si fossilizza mai in esse ed è capace di adattarsi a ogni ambiente per mostrare che qualsiasi valore umano, vissuto “con Cristo”, viene riconosciuto e anzi esaltato e fatto fruttare.

A ciò si collega in modo diretto la seconda sfida che la Chiesa cattolica in Russia si trova oggi ad affrontare, e che coinvolge inseparabilmente l’idea di missione e quella di ecumenismo. Il principio sopra osservato, infatti, ci aiuta a comprendere come missione ed ecumenismo non siano affatto in opposizione, ma siano al contrario l’una un aspetto dell’altro.

Se lo scopo della Chiesa è annunciare Cristo all’uomo e unirlo al Suo corpo misterioso senza fargli perdere l’originalità dei suoi tratti personali, irripetibili e distintivi, ma anzi valorizzandoli e facendoli fruttare, si comprende come non sia possibile essere cattolici in Russia, senza nutrire il più profondo rispetto e il più sincero e profondo desiderio di unità con la Chiesa russa ortodossa, che, di questo popolo, si può dire custodisca gran parte della ricchissima tradizione spirituale.

Una tradizione che, nonostante le differenze culturali, ha alla sua radice una fede che è, da un punto di vista dei fondamenti basilari, praticamente la stessa. Il teologo russo ortodosso Sergej Bulgakov, nel suo Alle mura di Chersoneso, riconosceva che «la divisione della Chiesa non arriva fino in profondità, nella sua vita sacramentale la Chiesa resta una, [questo] si può affermarlo almeno per quanto riguarda i rapporti tra ortodossia e cattolicesimo».

E questo senza per nulla diminuire la tragica consapevolezza che «la divisione della Chiesa è una ferita per entrambi». In questo senso, è importante non concepire la nostra missione come parallela o in concorrenza a quella della Chiesa ortodossa, nel senso che si cerca di avere al più presto più russi cattolici; ma piuttosto come veramente “ecumenica”, cioè pervasa dal desiderio di vivere e manifestare già ora, nelle forme che Dio concede, un’unità che si deve ancora esplicitare.

E interessante a questo proposito osservare come le presenze più “missionarie” in Russia (sia cattoliche che ortodosse) non cerchino di “ingrossare le fila dei propri gruppi”, ma di porre le persone in un responsabile atteggiamento nei confronti della loro Chiesa d’origine con una consapevolezza della catholica.

Questo spirito di fratellanza, pur nell’unità non ancora piena, non credo si possa fondare solo sul richiamo a “nemici comuni” come il secolarismo contemporaneo. Certamente si tratta di una circostanza che urge più che mai a una comune testimonianza. Ma un atteggiamento realmente libero da faziosità e particolarismo è in realtà possibile solo se ci si spinge più a fondo. Solo cioè se lo scopo che si persegue nell’azione pastorale, culturale, missionaria, è sic et simpliciter, l’annuncio di Cristo. È l’amore e la passione per l’unico Cristo, che può generare una reale e non artefatta “sinergia”.

Nella sua lettera apostolica Orientale Lumen, Giovanni Paolo II affermò: «Un legame particolarmente stretto già ci unisce. Abbiamo in comune quasi tutto; e abbiamo in comune soprattutto l’anelito sincero all’unità».

E durante l’Angelus nella Solennità dei santi Pietro e Paolo dell’anno passato, Benedetto XVI disse: «L’Oriente e l’Occidente cristiani sono molto vicini tra loro, e possono già contare su una comunione quasi piena, come ricorda il Concilio Vaticano II, faro che guida i passi del cammino ecumenico. I nostri incontri, le visite reciproche, i dialoghi in corso non sono […] dei semplici gesti di cortesia, o tentativi per giungere a compromessi, ma il segno di una comune volontà di fare il possibile perché quanto prima possiamo giungere a quella piena comunione implorata da Cristo nella sua preghiera al Padre dopo l’Ultima Cena: “ut unum sint“».

Considerando i frutti (cfr. Mt 7,16-20) della fede professata dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, il tipo di vita e di sensibilità che ne nascono e che si possono trovare negli esponenti migliori sia del cattolicesimo latino sia dell’ortodossia russa, cioè i santi, è più che lecito non solo sperare ma quasi constatare che la fede, così come professata e soprattutto vissuta ai vertici delle esperienze “occidentali” e “orientali”, è integra, “cattolica” e “ortodossa”. In un tale contesto il dialogo teologico ortodosso-cattolico esiste proprio per scoprire ed esplicitare questo.

Un altro tipo di presenza: conoscersi per amarsi

Non si ama se non ciò che si conosce. E non si conosce se non ciò con cui c’è una qualche “convivenza”. «Bisogna conoscere l’animo dei fratelli separati», dice il Vaticano II. Le vie per raggiungere tale scopo possono essere: conoscere la liturgia della Chiesa orientale; approfondire la conoscenza delle tradizioni spirituali dei Padri dell’Oriente cristiano; assimilare e paragonarsi con l’evangelizzazione della Chiesa orientale; limare l’inevitabile tensione fra latinitas e bizantinità; formare e stimolare il dialogo fra teologi, liturgisti, storici e canonisti che possano diffondere, a loro volta, la conoscenza delle Chiese d’Oriente; offrire nei seminari e nelle facoltà teologiche un insegnamento adeguato su tali materie, soprattutto per i futuri sacerdoti.

Ma la conoscenza deve andare di pari passo con la frequentazione reciproca, senza la quale non c’è vera conoscenza dell’altro. A questo riguardo si potrebbe qui sottolineare il ruolo della vita monastica all’interno delle Chiese, anche considerando la profonda sensibilità dell’esperienza monastica, tanto in Oriente quanto in Occidente.

Mentre è invece già in atto una felice accoglienza di docenti e studenti ortodossi presso le Università Pontificie e altre istituzioni accademiche teologiche e si sta sviluppando un reciproco movimento. «Ovviamente, non è sufficiente evitare gli errori, ma occorre promuovere positivamente la vita comune nel reciproco, concorde rispetto» scrisse nel 1991 Giovanni Paolo II ai Vescovi europei.

Proprio in questo senso vanno segnalate due realtà nate dentro la Chiesa cattolica nel secolo scorso che hanno avuto e hanno un ruolo prezioso in questo lavoro di promozione del positivo incontro nel reciproco rispetto e volte a una crescente conoscenza e frequentazione.

Il Pontificio Istituto Orientale rimane punto di ritrovo di studiosi, professori, scrittori ed editori, tra i migliori conoscitori dell’Oriente cristiano: fin dalla sua fondazione è strumento di conoscenza dell’Oriente, ma soprattutto negli ultimi anni anche importantissimo luogo d’incontro: non solo attraverso convegni, ma anche con la presenza regolare di docenti e studenti ortodossi. Come è importante che ci siano degli ortodossi all’Istituto Orientale, così sarebbe altrettanto importante che ci fossero delle presenze cattoliche nei più importanti atenei ortodossi.

Il Centro Russia Cristiana, sorto nel 1958 dalla felice intuizione di padre Romano Scalfì circa l’esistenza di una presenza cristiana viva in una terra che in quegli anni era considerata la «patria dell’ateismo», ha svolto fino alla perestrojka la preziosa funzione di far conoscere al lettore occidentale la testimonianza della «Chiesa del silenzio» e della cultura del samizdat, istituendo ponti informali di amicizia e scambi culturali.

Successivamente, fino a tutt’oggi, la sua attività editoriale e culturale in Russia (grazie al Centro «Biblioteca dello Spirito» di Mosca) è volta a far conoscere al pubblico russo la ricchezza della tradizione cristiana occidentale.

L’unità dei cristiani, il segno più chiaro della presenza di Dio nel mondo, è un dono di Dio, sommo dono che corrisponde profondamente ai veri desideri e bisogni dell’uomo.

E se l’unità è un dono di Dio, bisogna domandarla, perché Dio da all’uomo ciò che desidera e chiede (cfr. Lc 11,5-13; 18,1-8). Lo spiega Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi: «[Sant’Agostino] definisce la preghiera come un esercizio del desiderio. L’uomo è stato creato per una realtà grande – per Dio stesso, per essere riempito da Lui. Ma il suo cuore è troppo stretto per la grande realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato. Rinviando [il suo dono], Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace [di accogliere Lui stesso]».

Già nel momento in cui si domanda, la preghiera purifica e mette nella posizione giusta: «Al di là delle nostre fragilità dobbiamo volgerci a Lui, unico Maestro, partecipando alla Sua morte, in modo da purificarci da quel geloso attaccamento ai sentimenti e alle memorie non delle grandi cose che Dio ha fatto per noi, ma delle vicende umane di un passato che pesa ancora fortemente sui nostri cuori.

Lo Spirito renda limpido il nostro sguardo, perché insieme possiamo camminare verso l’uomo contemporaneo che attende il lieto annuncio. Se di fronte alle attese e alle sofferenze del mondo daremo una risposta concorde, illuminante, vivificante, contribuiremo davvero a un annuncio più efficace del Vangelo tra gli uomini del nostro tempo» (Giovanni Paolo II). Ma per chiedere una cosa, bisogna desiderarla.

Infatti, la prima cosa che Cristo fa nell’incontro con quelli che poi saranno i cristiani è far sì che si rendano conto del proprio desiderio: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Occorre chiedersi se l’unità sia veramente desiderata o soltanto proclamata. Desiderare, sapere dove domandare, e domandare.

Una presenza “simbolica”

A questo punto mi sembra che si possa vedere con chiarezza il senso provvidenziale della presenza cattolica in Russia: in un Paese, tradizionalmente ortodosso, è possibile conoscere da vicino l’esperienza della Chiesa cattolica romana, come tappa preparatoria indispensabile per un più grande desiderio e una più insistente domanda a Dio per l’unità delle Chiese.

Presenza che può aiutare a far capire più semplicemente che l’unità dottrinale tra Chiesa ortodossa e Chiesa romana cattolica realmente esiste già, che davvero ciò che unisce è infinitamente di più di ciò che ancora ci divide. E che questo vale per il cristiano individuale così come per le Chiese intere, perché l’unità dei cristiani è la più grande testimonianza della verità di Cristo (cfr. Gv 17,21).

Se questo è il senso della presenza cattolica in Russia, si sente immediatamente la grande responsabilità dei cattolici che in Russia vivono e operano: quella di crescere nella consapevolezza di ciò che significa “essere cattolici” e anche di ciò che “non significa”. Qual è il nucleo, il “nocciolo” dell’identità cattolica, cioè ecclesiale qua talis? È la domanda che l’Imperatore rivolge ai cristiani nel Breve racconto sull’Anticristo di Solov’ev: «Che cosa avete di più caro nel cristianesimo?».

Bisogna imparare a riflettere bene, per poi, insieme allo starec Giovanni, al Papa Pietro II e al professore luterano Pauli, rispondere: «Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». L’essenza del cristianesimo è Cristo stesso, e noi L’abbiamo conosciuto e possiamo conoscerLo sempre di più e stare con Lui stando nell’unica Chiesa di Cristo (cfr. Gv 15,27; 17,20; 1Gv 1,1-3; 2,24 ecc.).

L’affezione a Cristo: conoscere e amare Cristo e farLo conoscere e amare. «Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11). Nella misura in cui uno comincia a conoscere e amare Cristo, comincerà anche a stimare tutto ciò che Cristo porta: libertà, unità, verità, fedeltà… E questo farà cambiare lo sguardo del cristiano, là dove si trova, rendendolo sempre più cristiano, quindi sempre più ortodosso e cattolico.

In questo vedo il compito della presenza cattolica in Russia, presenza storica e quindi provvidenziale: essa deve essere vera, sempre più vera, sempre più fedele a se stessa. Cosciente del fatto di “avere già tutto”, essa deve impegnarsi a diventare sempre più consapevole di se stessa e quindi sempre più grata: consapevolezza e gratitudine che, quando Dio vuole, saranno visibili e si esprimeranno in tentativi di valorizzazione e di missione, dettati dal puro entusiasmo per Cristo – e quindi senza alcuna preoccupazione per l’esito.

Questa forma di presenza si potrebbe chiamare “simbolica”, nel senso etimologico della parola. Nella appartenenza a Cristo nella Chiesa è «agglomerato» (syn-ballo) tutto: «Tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,21b-23).

Concludo con un’ultima citazione di Giovanni Paolo II: «II peccato della nostra separazione è gravissimo: sento il bisogno che cresca la nostra comune disponibilità allo Spirito che ci chiama a conversione, ad accettare e riconoscere l’altro con rispetto fraterno, a compiere nuovi gesti coraggiosi, capaci di sciogliere ogni tentazione di ripiegamento. Sentiamo la necessità di andare oltre il grado di comunione che abbiamo raggiunto. […]. Voglia Dio far breve il tempo e lo spazio. Presto, molto presto Cristo, l’Orientale Lumen, ci conceda di scoprire che in realtà, nonostante tanti secoli di lontananza, eravamo vicinissimi, perché insieme, forse senza saperlo, camminavamo verso l’unico Signore, e quindi gli uni verso gli altri. E così noi ci presenteremo a Dio con le mani pure della riconciliazione e gli uomini del mondo avranno una solida ragione in più per credere e per sperare».

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(*) Paolo Pezzi è ordinario dell’Arcidiocesi cattolica della Madre di Dio a Mosca Membro della Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, ha studiato filosofia e teologia a Roma, presso la Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino e Lateranense. Dal 1993 esercita in Russia il suo impegno pastorale