di Massimo Introvigne
Negli Stati Uniti, dove mi trovo, il presidente Barack Obama – in questi giorni bersaglio preferito della satira per l’impreparazione che nostra di fronte a una vicenda complessa come quella egiziana, e che si traduce in repentini cambi di opinione – si è augurato che alla fine prevalgano i “musulmani moderati”. Vorrei rispondere con un’affermazione che potrà apparire paradossale, ma che passerò subito a spiegare: a rigore, i musulmani moderati non esistono.
I musulmani che vivono in Italia hanno capito che per vivere tranquilli da noi e farsi invitare ai talk show televisivi bisogna presentarsi comunque come “moderati”, salvo quei rari casi (spesso pagati, però, con un decreto di espulsione) di personaggi disposti a fare audience esibendo al contrario il loro estremismo in TV. Per esempio, un esponente dei Fratelli Musulmani, il movimento da cui trae origine gran parte del fondamentalismo islamico, si presenterà come “moderato” alla televisione in Italia mentre non userebbe mai questo aggettivo in Egitto o in Giordania.
La colpa non è solo dei musulmani. Buona parte della stampa divide i seguaci dell’islam in due sole categorie: “terroristi” e “moderati”. Non senza una certa logica, molti musulmani ne concludono che se non ci si auto-definisce “moderati” si sarà etichettati come “terroristi”, con tutte le conseguenze del caso. Così, decodificando il suo discorso, un esponente dei Fratelli Musulmani potrebbe stare cercando semplicemente d’ingannare l’interlocutore italiano presentandosi come “moderato”. Ma se vuole dire di non essere un terrorista e non avere simpatie per Bin Laden – anche se ne ha per Hamas – non sta, a rigore, mentendo.
Decodificare è la parola chiave, perché “musulmano moderato” è usato alla rinfusa per un buon numero di categorie, creando una notevole confusione. Il fenomeno potenzialmente più fuorviante è la presentazione come “musulmani moderati” d’intellettuali che sono moderati ma non sono musulmani. Qualche volta si citano pensatori e politici rigorosamente marxisti o seguaci convinti della massoneria anti-religiosa di matrice francese, molto affezionati ai loro grembiulini, come “musulmani moderati” solo perché sono nati da genitori musulmani.
Sarebbe come presentare Marco Pannella o Emma Bonino al Cairo o ad Algeri come “cattolici moderati” solo perché sono nati in Italia: un errore, detto per inciso, in cui cadono talora musulmani dei Paesi arabi, dove per esempio la Bonino è piuttosto conosciuta.
Certamente ingannarsi è più facile a proposito dell’islam che – almeno nel mondo sunnita – non ha un’organizzazione gerarchica o una “Chiesa” che definisca in modo autorevole chi è dentro o chi è fuori.
Ma qualunque autorevole pensatore musulmano ci direbbe che per essere musulmani bisogna credere obbligatoriamente che Allah sia l’unico Dio, il che presuppone – è una banalità, ma non è poco – essere anzitutto certi che Dio esista, e che Muhammad sia il suo profeta, dunque che il Corano sia “il” Libro – non solo “uno dei libri” – che contiene la pienezza della rivelazione divina.
Poiché l’islam è una religione che comporta un certo formalismo, la maggioranza delle scuole teologiche e giuridiche negherebbe che sia musulmano chi non rispetta almeno i doveri della preghiera quotidiana e del digiuno del Ramadan, e s’insospettirebbe di fronte a chi mangia carne di maiale o beve alcolici, mentre sarebbe più tollerante sulla mancata frequentazione delle moschee, che per la maggioranza dei musulmani – a differenza di quanto accade per i cattolici, che hanno l’obbligo di andare a Messa – non rientra fra i doveri fondamentali del culto.
In America e anche in Italia si cita così fra i “musulmani moderati” Ayaan Hirshi Ali, la compagna del regista assassinato olandese Theo Van Gogh (1957-2004). Avendo pubblicamente dibattuto qualche anno fa a Toronto con la signora Ali – cui non nego, beninteso, tutta la mia solidarietà quando i terroristi cercano di ucciderla –, mi sento di escludere che sia musulmana, dal momento che sostiene senza tatticismi che Dio non esiste e che tutte le religioni – islam, ebraismo, cristianesimo, induismo – sono nocive all’uomo e ancor di più alla donna e al gay, giacché perpetuano un pericoloso sistema patriarcale e una morale sessuale arcaica.
La posizione di Ayaan Hirshi Ali, ancorché più diffusa di quanto si creda fra certe élite nate in tre islamiche, è estrema. Molti altri intellettuali nati da genitori islamici non rispettano il digiuno del Ramadan, mangiano carne di maiale, bevono alcolici, non credono che il Corano sia il Libro rivelato da Dio ma nello stesso tempo rivendicano il valore dell’islam come “eredità culturale” vantando magari lo splendore dell’arte islamica o la grandezza dei filosofi musulmani del Medioevo.
Alcuni di questi intellettuali, che incontriamo spesso nei congressi, potranno essere intelligentissimi osservatori della realtà musulmana nazionale e internazionale, bravi giornalisti, consulenti preziosi: ma non sono “musulmani moderati” perché non raggiungono il livello di ortodossia e di ortoprassi minimo per essere definiti “musulmani”.
Alcuni di loro probabilmente risponderebbero – dal momento che sono nati da genitori sunniti (il discorso sarebbe parzialmente diverso per gli sciiti) – che non esiste nessuna autorità che possa negare loro il carattere di musulmani. Obiezione impeccabile dal punto di vista formale. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, il fatto che l’islam (sunnita) sia una religione “orizzontale” (come l’induismo), senza una gerarchia in grado di stabilire in modo autorevole chi è musulmano e chi no, non significa che la parola “musulmano” sia diventata completamente priva di senso.
Anche se un talebano dell’ateismo come il filosofo torinese Carlo Augusto Viano ha definito “cripto-cattolici” anche Eugenio Scalfari ed Emma Bonino perché talora parlano del mondo cattolico con un rispetto per lui improprio e inopportuno, non abbiamo bisogno di un pronunciamento del Papa per affermare che né Scalfari né la Bonino sono cattolici. Bastano il buon senso e l’uso normale delle parole.
Così – anche se l’islam non ha un Papa per certificarlo (ma neanche per certificare il contrario) – non sono musulmani coloro che non credono nel carattere divino del Corano e non praticano i doveri fondamentali della fede, che in una religione senza gerarchia e senza teologia condivisa sono più normativi che nel cattolicesimo: mentre ci sono “cattolici non praticanti” è difficile concepire “musulmani non praticanti”, nel senso che non pregano e non digiunano. Certo, ci sono “musulmani che non vanno in moschea” i quali sono musulmani a tutti gli effetti, e spesso sono pure tutt’altro che “moderati”. Ma andare in moschea, come spiegato, non è obbligatorio nell’islam.
Sgombrato il campo dai “musulmani moderati” che non sono musulmani, possiamo occuparci di quelli che sono musulmani ma non sono moderati. La moderazione è, per la verità, una caratteristica difficile da definire se non “per relationem”. Se è difficile dire che cos’è un moderato, è relativamente facile dire che qualcuno è più moderato di qualcun altro. Possiamo dire, per esempio, che – se utilizziamo parametri come il rapporto con il terrorismo, con gli Stati Uniti o con Israele – il re dell’Arabia Saudita è più “moderato” dei dirigenti egiziani dei Fratelli Musulmani, e che questi ultimi sono più moderati di Bin Laden.
Tuttavia, se utilizziamo i tre criteri proposti nei suoi viaggi in Turchia e Terrasanta da Benedetto XVI come condizione per il dialogo con l’islam – rifiuto incondizionato del terrorismo (il che implica la condanna di Hamas e non solo quella di Al Qa’ida), rispetto dei diritti umani in genere, compresi quelli delle donne, libertà delle minoranze religiose intesa non solo come libertà di culto ma anche di missione, con conseguente diritto del musulmano che aderisce a questa predicazione di convertirai al cristianesimo –, e chiamiamo “moderato” chi si conforma a questi criteri, non sono “moderati” né il re dell’Arabia Saudita, né i Fratelli Musulmani, né Bin Laden.
Ma, mentre giungiamo a questa doverosa conclusione, ci accorgiamo che la griglia che divide un miliardo e mezzo di musulmani in “moderati” e “terroristi” è clamorosamente inadeguata, perché mette dalla stessa parte tagliagole di professione e nemici giurati di Al Qa’ida come il sovrano saudita Abdullah, nonché filo-americani e anti-americani, una distinzione in Medio Oriente e altrove non proprio irrilevante.
Emerge allora l’opportunità di abbandonare la comoda ma ultimamente ingannevole etichetta “moderati”, che in alcuni Paesi a maggioranza islamica del resto molti rifiutano, e di seguire piuttosto i criteri più complessi elaborati dagli studiosi accademici. Anche se talora non aiutano i politici adottando una pletora di terminologie diverse, questi dividono il miliardo e mezzo di musulmani in almeno cinque categorie che chi scrive, con altri, preferisce chiamare ultraprogressisti, progressisti, conservatori, fondamentalisti e ultrafondamentalisti.
Le parole scelte per designare ciascuna categoria variano, ma la sostanza – pure fra studiosi di tendenze diverse – è spesso simile in modo perfino sorprendente. Se il tema è quello del rapporto con la modernità – e con la nozione moderna dei diritti umani – i progressisti sono quei musulmani che accettano la modernità come inevitabile, e gli ultraprogressisti quelli che la abbracciano con entusiasmo, così lentamente corrodendo l’integrità tradizionale della dottrina, pur rimanendo ancora all’interno dell’islam. Diversamente, non sarebbero musulmani, neppure ultraprogressisti, ma intellettuali non credenti di origine islamica.
Queste posizioni non sono inesistenti né nei paesi islamici né nell’emigrazione: ma sono ultra-minoritarie. Quando si presentano alle elezioni – dove ci sono le elezioni – raramente raggiungono percentuali a due cifre. Non si può neppure affermare con certezza che i progressisti siano in aumento. Li si trova soprattutto fra gl’intellettuali, e radunati in due luoghi: nei paesi islamici, nei cimiteri – perché è facile che i governi o gli ultrafondamentalisti facciano loro la pelle –, e in Occidente nelle università e nelle redazioni dei grandi giornali.
La buona notizia è che le idee della maggioranza dei musulmani nel mondo non sono neppure fondamentaliste o ultrafondamentaliste. Si definisce in genere fondamentalista un musulmano che giudica in modo globalmente negativo la modernità e l’accostamento occidentale ai diritti umani – anche se si serve dei suoi prodotti, dalle armi moderne a Internet: chi diffida anche dei prodotti è chiamato, più che fondamentalista, tradizionalista – e ultrafondamentalista chi non esclude la violenza e il terrorismo dalla gamma di strumenti attraverso cui manifesta tale rifiuto.
I fondamentalisti non sono, come spesso si dice, una piccola minoranza. Lo sono i terroristi ultra-fondamentalisti e i loro fiancheggiatori diretti – da 50mila a 100mila musulmani: la maggiore massa d’urto nella storia del terrorismo mondiale ma lo 0,01% dell’islam nel suo complesso -, mentre le organizzazioni fondamentaliste possono contare all’incirca su 50 milioni di adepti e simpatizzanti nel mondo (meno del 5% dei musulmani), cui si aggiungono almeno altrettanti “tradizionalisti” che sono vicini ai fondamentalisti per teologia, ma che si occupano più di morale individuale e meno di politica.
Il personaggio che si trova alle origini del movimento fondamentalista è l’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949), fondatore nel 1928 dei Fratelli Musulmani, tuttora la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale. Negli anni 1940 al-Banna vede nella questione della Palestina possibilità di indicare ai suoi seguaci la dimensione sopranazionale della comunità islamica, la umma, trasformando un movimento dal limitato orizzonte egiziano in una realtà musulmana globale.
La propaganda in favore della causa palestinese è alla base stessa del successo internazionale del movimento negli anni 1935-1945. Per questo i Fratelli Musulmani concentrano i loro sforzi in Palestina, ed è dalla branca palestinese dei Fratelli Musulmani che, dopo alterne vicende, nascerà nel 1987 Hamas, una realtà che si definisce all’articolo 2 del suo Statuto “una delle branche dei Fratelli Musulmani in Palestina”.
Nel 1954 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970), che pure era stato affiliato in gioventù ai Fratelli Musulmani, li mette fuorilegge, nel quadro del più classico degli scontri fra nazionalisti laicisti e fondamentalisti. A seguito di questo avvenimento si determinano all’interno del movimento fondamentalista due linee: una “neo-tradizionalista”, che propone una via non violenta di “islamizzazione dal basso” della società prima di puntare al potere; e una “radicale”, che punta alla “islamizzazione dall’alto” dopo la conquista del potere tramite mezzi, ove necessario, violenti e non esclude l’opzione terroristica.
In Egitto la via “radicale” è rappresentata dal ricchissimo intellettuale Ayman al-Zawahiri, numero due di Al Qa’ida, quella “neo-tradizionalista” dall’attuale dirigenza dei Fratelli Musulmani, che ha concrete possibilità di prendere il potere nel dopo-Mubarak in quanto rappresenta la forza politica più capillarmente diffusa in Egitto anche attraverso una miriade di organizzazioni professionali e culturali. Questi dirigenti non vanno confusi con i terroristi alla al-Zawahiri. Ma certamente sono fondamentalisti e non sono, in nessun senso del termine, “moderati”.
La grande maggioranza dei musulmani però, non è né progressista né fondamentalista. Si situa al centro fra progressisti e fondamentalisti e la parola più adatta per definirla è conservatori: anche se neppure i “conservatori” sono tutti uguali e andrebbero introdotte ulteriori e più complesse distinzioni. I conservatori non sono progressisti: rimangono assai perplessi sulle dichiarazioni occidentali dei diritti umani perché pensano che i diritti dell’uomo mettano in pericolo i diritti sovrani di Dio, non vogliono neanche sentir parlare di accostamento moderno – cioè storico-critico – al Corano, perché temono che faccia la fine della Bibbia nelle mani dell’esegesi universitaria occidentale degli ultimi due secoli, vogliono che alle donne sia permesso – non imposto, ma almeno caldamente consigliato – di portare ovunque il velo.
Su questioni che stanno a cuore agli europei e agli americani come la libertà religiosa delle minoranze nei paesi islamici, i diritti delle donne, la poligamia, l’esistenza dello Stato di Israele non sono pronti ad abbracciare immediatamente il punto di vista occidentale, ma sono disposti a discuterne, il che li differenzia dai fondamentalisti.
Come molti di loro – alcuni dei quali dirigono movimenti che contano milioni, e anche decine di milioni di membri anche se si tratta di gruppi i cui nomi rimangono sconosciuti in Occidente a differenza di realtà più piccole come i Fratelli Musulmani o Al Qa’ida – hanno scritto al Papa dopo il discorso di Ratisbona del 2006, non sono d’accordo con lui quando afferma che le nozioni di Dio e del rapporto ragione-fede che sono prevalse nell’islam lasciano di per sé una porta aperta alla violenza, ma sono disposti a dialogare sul fatto che la violenza e il terrorismo siano effettivamente una piaga aperta nell’islam contemporaneo, non possano essere liquidati semplicemente come non islamici, e chiamino in causa la responsabilità almeno per omissione (come mancata condanna) di élite islamiche che non hanno approfondito per tempo il problema.
I musulmani conservatori non sono come Ayaan Hirshi Ali. Né “come noi”, da nessun punto di vista. Non sono “musulmani moderati” come forse li immagina Obama. Sono anche diversi dai Fratelli Musulmani. Ma sono la grande maggioranza dei musulmani: un miliardo e più di persone verso le quali – come ha mostrato nelle parole e nei fatti Benedetto XVI – la Chiesa cattolica è disponibile ad aprire un dialogo. Precisando, però, che la chiave della porta del dialogo è nelle mani di questi musulmani. Dibattano pure sui loro problemi. Ma il dialogo è possibile solo con chi rispetta i diritti umani, condanna la violenza e il terrorismo – sì, anche contro Israele – e concede nei Paesi musulmani quei diritti delle minoranze religiose che reclama per sé in Occidente.