Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
Newsletter n.552 – 25 novembre 2014
di Fabio Trevisan
Nel richiamare lo Stato ai suoi inderogabili compiti, il pensatore cattolico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) definiva, nel 1938, l’alta missione di conservare e incrementare il bene comune: “Lo Stato è una necessità sociale, un’esigenza del bene comune…Lo Stato non si deve assolutamente sostituire alla società né si deve identificare con la nazione. E non deve neppure far tutto, ma deve capire e dirigere il tutto. Questa è la missione elevata, difficile, imperiosa dello Stato”.
Lo Stato compie la sua missione ?
Dopo aver confutato il sofisma della concezione dello Stato come minor male, Gonzague de Reynold interrogava quei Messieurs de Berne ai quali erano rivolti i suoi profondi interrogativi, purtroppo rimasti senza risposta. Egli si chiedeva e chiedeva ai governanti svizzeri se uno Stato adempisse ai propri doveri e lo faceva con una serie di domande che già contenevano, nell’intelligenza dei quesiti proposti, una possibile soddisfacente risposta.
Lo Stato compiva la sua autentica missione – domandava il de Reynold- quando lasciava che un elemento di civiltà si ipertrofizzava a spese degli altri, la vita economica a spese della vita spirituale? Quando assegnava come ideale al popolo solamente un “livello di prosperità”? Quando sostituiva i funzionari alle autorità? Quando si abbandonava alla corrente anziché dirigerla? Quando, a vantaggio di una costituzione legale, sopprimeva la costituzione storica e naturale del Paese? Quando obbligava la società, la persona a difendersi contro di esso? Aveva ancora il diritto di chiamarsi Stato?
I diritti della natura umana
Per comprendere i doveri dello Stato bisognava innanzitutto delineare con chiarezza i diritti della natura umana, dell’uomo reale e non quello astratto ed irreale spesso concepito in modo erroneo. Gonzague de Reynold, nel rimarcare il federalismo cristiano che stava alla base della Confederazione elvetica, poneva due elementi basilari come fondamenta del rapporto Stato-cittadini:la fede e l’onore, essenziali legami costitutivi del giuramento-foedus, che davano un carattere sacro alla Confederazione elvetica: “L’unità nella diversità (nel federalismo) ha il valore di un principio intangibile, il cui carattere è religioso…E’ un principio vitale, dal momento che nessuno ha il diritto di arrestare arbitrariamente lo sviluppo storico di una nazione né di sterilizzare l’idea generatrice della prima alleanza”.
L’idea generatrice, il patto-foedus era qualcosa di sostanzialmente diverso di un semplice contratto e imponeva un cambiamento totale nel pensiero: “Imparare a pensare diversamente la politica, la società, la vita economica, l’uomo…Vedere diversamente la Svizzera. Uscire dalla legalità (che non significa non rispettare le leggi) per rientrare nella legittimità. Uscire dalla costituzione per rientrare nella vita. Uscire dal diritto per rientrare nella filosofia”.Gonzague de Reynold insisteva sulla fedeltà al patto originario, un legame naturale e storico che impegnava tutti al reciproco rispetto e tutelava le stesse libertà: “L’uomo reale, l’uomo vivente è inseparabile dalla società, a cominciare da quella cui è il prodotto naturale: suo padre e sua madre. Ma la società deve restare a misura dell’uomo, organizzarsi secondo la natura umana”.
Ogni politica riporta a una filosofia
Gonzague de Reynold soleva riaffermare in continuazione che le idee contenevano i fatti in potenza e che quindi bisognava aver cura di coltivare sane idee: “Ogni politica si riporta a una filosofia, di cui è semplicemente l’applicazione pratica…le idee finiscono sempre per ripercuotersi nei fatti…Ecco perché bisogna anzitutto prendere in considerazione le idee per farsene, poi per farsene di giuste. Quando non se ne hanno, si subisce necessariamente la spinta delle idee false”.
A distanza di parecchi decenni le affermazioni del de Reynold avallano l’importanza dell’egemonia culturale e la subordinazione del pensiero cattolico all’ideologia dominante (sia essa di ispirazione progressista sia essa liberale). In questa mancanza di percezione di un’idea unitaria con un preciso riferimento al trascendente stava, secondo il grande pensatore svizzero, la situazione drammatica dell’uomo moderno: “All’uomo moderno gli si è detto:”Sei libero, sei il tuo cosmo. Ma sei solo. E adesso va!”. E l’uomo si è trovato solo di fronte a realtà molto più potenti: lo Stato, la nazione, la razza, la classe, l’umanità, la scienza, la natura, e la pace e la guerra…Ecco perché l’uomo contemporaneo si sente condannato all’isolamento. Ecco perché ha paura dell’uomo. Ecco perché fugge in avanti. Ecco perché non padroneggia più le forze che ha scoperto o scatenato”.
Che cos’è la proprietà ?
Nell’additare i mali del potere e le sue degenerazioni (centralismo, burocratismo, abdicazioni) lo storico e poeta di Friburgo individuava alcuni caratteri per poter uscire dalla crisi: “Nella storia nulla è fatale, finché non ci si rassegna a praticare la politica della carogna di cane portata dalla corrente. Ma bisogna aver genio, carattere e coraggio: saltare a cavallo degli avvenimenti e prendere in mano le redini”.
Bisognava difendere tutte le libertà garantite dal patto federalista e annesse alla persona, alla famiglia, alle città. Anche il diritto di possedere, cioè il diritto di vivere umanamente, in conformità alla Dottrina sociale della Chiesa, doveva essere tutelato. Ma cos’era la proprietà? Ecco la risposta semplice e pregna di significato di Gonzague de Reynold: “Proprietà: questa parola non evoca carte, titoli, depositi bancari, ma la terra, la casa costruita al centro del campo. Abbastanza legna per il fuoco, che non si deve mai spegnere, abbastanza terra per il nutrimento, che non deve mai mancare: una terra abbastanza estesa, una dimora abbastanza stabile perché la famiglia si radichi e perché la patria cominci, perché la patria comincia dove il progenitore ha la tomba. Nel diritto di proprietà dobbiamo vedere la conseguenza del diritto alla famiglia, cioè alla discendenza e al focolare”.
Il significato della rivoluzione
Dopo aver sollecitato maggiore cura alle idee ed aver sostenuto un continuo investimento culturale alle idee buone e belle, egli esplicitava le conseguenze del crollo del pensiero, soprattutto, ma non solo, metafisico: “La forza dei fatti, corrispondente alla logica delle idee, ha spinto l’individuo e la società fino alle estreme conseguenze della rivoluzione moderna, perché l’epoca moderna è stata solo un’unica e medesima rivoluzione”.
Certamente egli sosteneva che pagavamo l’errore iniziale sulla vera natura dell’uomo: in questo stava l’aspetto rivoluzionario unico e continuo: “L’uomo, grazie al proprio egocentrismo, tendeva a ricadere su se stesso, a ritornare ad materiam primam…Significava così abbattere tutte le infrastrutture edificate dall’intelligenza e dalla volontà”.
Cos’era quindi la rivoluzione? Così la definiva lucidamente Gonzague de Reynold: “E’ una negazione, seguita da una distruzione. Sotto queste violenze, cosa si scopre? Una stanchezza dello spirito, una nostalgia istintiva per quanto è facile e semplice, embrionale e primitivo…è la legge del minor sforzo travestita da progresso. Basta un minimo sforzo per ritornare alla natura (nel senso contrario alla civiltà) che per far progredire una civiltà, per ricollegarsi alla materia piuttosto che per ricollegarsi a Dio”.
Egli individuava così i falsi miti che edulcoravano la rivoluzione e smantellava gli orpelli in cui ella si agghindava e si mascherava: “Ecco perché la rivoluzione moderna, con tutte le sue fanfare, i suoi lumi, i suoi discorsi, le sue armi, i suoi apparati è giunta al materialismo, dopo il quale vi è solo la barbarie, l’animalità”. Gonzague de Reynold mostrava così il volto perfido che si era via via consolidato nella storia: “Questa rivoluzione si è svolta su piani successivi, dall’alto verso il basso. Anzitutto è stata religiosa; poi si è realizzata sul piano intellettuale; poi è scesa sul piano politico ed infine si conclude sul piano economico e sociale. Ha portato dalla Riforma protestante al laicismo, dall’umanesimo al liberalismo, dal liberalismo all’anarchia contemporanea. Si è compiuta in nome della ragione e dell’intelligenza, per rivolgersi poi sia contro la ragione che contro l’intelligenza. Ha scalzato, una dopo l’altra, tutte le forme d’autorità, tutti i principi d’unità”.
Nella definizione dell’impianto rivoluzionario a grandi linee, de Reynold era consapevole della maggiore complessità della rivoluzione, che bisognava studiare dettagliatamente in tutte le sue concatenazioni di idee e di fatti. Da grande storico ed appassionato di poesia egli non disdiceva rappresentare l’impeto rivoluzionario con alcune immagini legate alla geografia dei cari luoghi natii:“Una massa si è staccata dalla montagna e si è messa a rotolare, trascinando con sé pietre, sabbia, tronchi d’albero, intere foreste e capanne, e villaggi, fino al fondo del pendio. L’uomo, la massa umana, si è in questo modo staccato dal suo centro spirituale. L’umanesimo, in tutte le sue forme – individualismo, antropocentrismo- è solamente la negazione progressiva dell’ideale cristiano. In secondo luogo, la velocità cresce: all’inizio lenta, esitante e poi sempre più rapida, vertiginosa…In terzo luogo, la volgarizzazione, direi la democratizzazione delle idee…”.
Dalla rivoluzione alla rivelazione
Nel VII volume de La formation de l’Europe, scritto nel 1956, Gonzague de Reynold concepiva la storia come una scala che saliva,composta di sette gradini: il primo era quello della ricerca (cercare i documenti, classificarli); il secondo era quello dell’arte (interpretare i documenti); poi quello della composizione (capacità di ordinare i fatti), dell’immaginazione (la facoltà di far vivere la storia, di evocare il passato, di risuscitare i morti); poi ancora la giustizia storica (giustizia distributiva: non giudicare mai il passato secondo il presente). Ed ancora la saggezza (la cui ragion d’essere è d’insegnare agli uomini a vivere insieme), a riconoscere la storia come sintesi (che non saprebbe essere tale senza l’appoggio di una filosofia).
Il sesto gradino stava nel riconoscere la storia come una forza (che si impadroniva del passato per spingerlo sul presente e spingere entrambi verso l’avvenire) ed infine il settimo ed ultimo gradino, quello dell’insondabile mistero: “A questo culmine della scala lo storico registra, come fosse un’antenna, segnali che a lui provengono da molto lontano e da molto in alto”.
Ecco che allora la storia, nella quale si era prodotta la rivoluzione, sfociava in qualcosa che Gonzague de Reynold definiva in questo modo: “La storia sfocia in una rivelazione parallela: quella di una provvidenza direttrice…La storia è un temporale che passa, un temporale inframmezzato da luminosi raggi di sole: e poi la luce di nuovo si spegne. Ma là in alto, sullo sfondo delle nubi nere, splende l’arcobaleno”.