Un’intera generazione ubriacata dall’odio e dalla violenza ideologica. Colpa dei cattivi maestri, di una classe intellettuale che seminava il male con le parole. In questo articolo, nomi e cognomi di chi ha sulla coscienza gli orrori di un’epoca da non dimenticare.
di Michele Brambilla
Com’è possibile che qualcuno sia arrivato a dar fuoco, di notte, alla casa di un povero spazzino per «punirlo» della sua fede politica? E ancora: com’è possibile che li sciagurati che appiccarono quell’incendio – uccidendo un ragazzo di ventidue anni e un bambino di otto – abbiano potuto farla franca grazie a una così diffusa rete di solidarietà? Insomma: ma che paese era, quell’Italia degli anni Settanta? Come mai tanti giovani si fecero inebriare dalla violenza?
Per arrivare a rispondere a queste domande, non si può prescindere dal contesto in cui accaddero quei fatti.
Perché, in quel «contesto», grande fu la responsabilità della classe intellettuale italiana (quasi tutta). Cominciamo con la lettera aperta che nell’ottobre 1971 fu inviata ala Procuratore della Repubblica di Torino, il quale aveva denunciato direttori e militanti di Lotta Continua (un movimento di estrema sinistra, lo diciamo per i più giovani) per istigazione a delinquere.
Nella lettera aperta si scriveva: «Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro.
Quando essi gridano “lotta di classe, amiamo le masse”, lo gridiamo con loro». Ma ecco il passaggio finale di quella lettera: «Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro».
Chi erano i firmatari di questa lettera, che si impegnavano a «combattere con le armi in pugno»? Cinquanta esponenti del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Nomi sorprendenti.
Ecco alcuni firmatari di quell’appello in cui si annunciava la propria adesione alla lotta armata: Umberto Eco, Tinto Brass, Cesare Zavattini, Carlo Gregoretti, Enzo Paci, Giulio A. Maccacaro, Giulio Carlo Argan,. Salvatore Saperi, Pasquale Squitieri, Natalia Ginzburg, Tullio De Mauro, Paolo Portoghesi, Lucio Colletti, Paolo Mieli, Sergio Saviane, Serena Rossetti, Nelo Risi, Giovanni Roboni.
Come si vede, professori universitari, registi cinematografici, filosofi, storici, futuri ministri, poeti, scrittori, giornalisti. In una parola, gente che ricopriva una posizione centrale nel mondo in cui si formano le coscienze di un popolo. Degli isolati, quei cinquanta firmatari? Macché. Furono più di ottocento i rappresentanti della cultura italiana che sottoscrissero un documento pubblicato su “L’Espresso” il 13 giugno 1971, documento in cui il commissario Calabresi veniva definito «un torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli».
Prima di elencare alcuni nomi di quegli ottocento firmatari, va ricordato che il commissario Calabresi fu ritenuto innocente della morte dell’anarchico Pino Pinelli con una sentenza emessa dal giudice (dichiaratamente di sinistra) Gerardo D’Ambrosio; e che lo stesso Calabresi venne ucciso in un agguato il 17 maggio 1972 al culmine di una campagna di odio e di false accuse scatenata contro di lui.
Ed ecco dunque alcuni di quegli ottocento che calunniarono Calabresi: i filosofi Norberto Bobbio, Lucio Colletti e Lucio Villari; i registi cinematografici Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Salvatore Saperi, Ugo Gregoretti, Nanni Loy; i poeti Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni e Giovanni Giudici; i pittori Renato Guttuso, Andrea Cascella, Ernesto Treccani; gli editori Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli; i critici Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Morando Morandini, Fernanda Pivano; la scienziata Margherita Hack; gli architetti Gae Aulenti, Gio Pomodoro, Paolo Portoghesi; gli scrittori Alberto Moravia, Umberto Eco, Domenico Porzio, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Natalino Spegno, Primo Levi, Lalla Romano; i politici Umberto Terracini, Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Paietta; i sindacalisti Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti; i giornalisti Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Giuseppe Turani, Carlo Rossella, Camilla Cederna, Tiziano Terzani.
Si potrebbe continuare a lungo. Ma crediamo che basti per dimostrare che il novanta per cento (per non dire il novantanove) della cultura italiana era, allora, orientata in tal senso. Quello era il clima. Un clima che non risparmiò i giornali. Se molti intellettuali flirtarono (a parole, beninteso) con l’estremismo, quando non addirittura con la lotta armata, molti giornalisti furono maestri di disinformazione.
Per anni su quasi tutti i giornali italiani si denunciò, giustamente, la violenza “nera” (che, sia chiaro, c’era) ma si nascose l’esistenza di una violenza “rossa”. Ecco che cosa scrisse Giorgio Bocca su “Il Giorno” il 23 febbraio 1975: «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile…».
Mentre Bocca scriveva quel pezzo, le Brigate Rosse avevano già ucciso tre persone (i missini Mazzola e Giralucci a Padova e il maresciallo dei carabinieri Maritano a Robbiano di Mediglia), rapito un giudice (Mario Sossi) e organizzato l’evasione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato.
Ma erano in tanti, come Bocca (che anni dopo fece un’onesta autocritica) a scrivere che le Brigate Rosse erano “sedicenti”, fascisti o poliziotti mascherati. Ha scritto Gianpaolo Pansa, giornalista di sinistra e quindi non sospettabile di faziosità destrorsa: « A sinistra dinanzi a quei primi colpi di pistola molti non vollero vedere né sentire. Alzava la testa un nemico nuovo, eppure non si avvertì il pericolo e non si riconobbe da che parte veniva. Soltanto alcuni ebbero l’onestà di ammettere subito che il terrorismo delle Brigate rosse e dei gruppi affini nasceva in casa, tra le file delle sinistre, e andava messo nel conto del Sessantotto, tra i frutti marci di quella straordinaria stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori».
Per dare un’idea di quanto quel clima condizionò perfino la cosiddetta “stampa borghese”, si pensi che lo stesso rogo di Primavalle fu definito dal “Messaggero” di Roma come «una faida tra fascisti» e che quando, il 2 giugno 1977, Indro Montanelli fu ferito dalle Brigate Rosse, il “Corriere della Sera” di Piero Ottone riuscì nel miracolo giornalistico di non mettere nel titolo il nome di Montanelli.
Cose che succedevano in quell’Italia, e che oggi molti vorrebbero dimenticare per sempre. Ecco il contesto che spinse tanti ragazzi – i più fragili probabilmente – a pensare di risolvere le ingiustizie con altre, tragiche, ingiustizie.