Aldo Ciappi
Si succedono sempre con maggiore frequenza in Italia, come i recenti noti fatti accaduti nella cittadina calabrese e nel capoluogo lombardo attestano, allarmanti segnali di conflittualità sociale a fronte di una massiccia immigrazione extracomunitaria non regolamentata.
Tale congiuntura è aggravata dalla presenza di influenti circoli di benpensanti, molto frequentati da politici, intellettuali, opinion-makers e non da ultimo, giudici, che, nei talk-show, nei dibattiti pubblici o nei tribunali, continuano a ripeterci ormai sclerotici luoghi comuni; primo fra tutti quello secondo cui il multiculturalismo (evidentemente creduto sinonimo di “pluralismo”) costituirebbe in sé un valore, salvo poi, in privato, dato che i più se lo possono permettere, ritirarsi in certi resorts esclusivi lontano dal frastuono dei bassifondi e delle periferie dove ormai si parla prevalentemente l’arabo o il cinese.
A questo diffuso “luogo-comunismo” snob, che-tanto-non-ci-costa-niente perchè a Cortina i vucumpra’ non ci arrivano, fanno da spalla vari e numericamente consistenti movimenti anarcoidi o nostalgici del barbuto filosofo di Treviri (si pensi ai centri sociali presenti ed attivi, con la loro rete, in ogni città e ovunque ci sia da sfasciare qualcosa) secondo cui gli immigrati rappresentano il nuovo proletariato da dirigere sapientemente contro il capitale o il neo clerico-fascismo.
Un inatteso revival, questo, che consente a molti reduci degli anni di piombo (e ai loro figli) di rinviare ancora i propri conti con la realtà seminando nuova zizzania e, perché no, terrore e sangue.
In alternativa, una più consistente massa di immigrati può sempre rappresentare un buon serbatoio elettorale cui attingere per impinguare l’emorragia dei voti di una certa sinistra meno ringhiosa ma altrettanto disfattista.
Ad ingrossare le fila di questo pericoloso melting-pot post-ideologico non poteva di certo mancare la folta schiera di cristiani “adulti”, sempre pronti ad aprirsi al nuovo-che-avanza e, se necessario, a diluire la loro identità fino a farla scomparire pur di non dispiacere all’altro che, una volta entrato in casa con al seguito mogli, figli, nipoti e zie, prima o poi finisce con l’ imporre le proprie regole agli stessi padroni di casa.
Si può, pertanto, a buon motivo ritenere che la presenza di queste distinte ma convergenti “scuole di pensiero” politico in tema di immigrazione, unite ad una comprensibile difficoltà del nostro corpo sociale a metabolizzare in cosi poco tempo flussi migratori di questa portata (cui non è di certo paragonabile l’emigrazione post guerra dal sud al nord Italia essendo molto più profonde le divergenze culturali tra un italiano, sia esso del nord o del sud, con un pakistano, un cinese, un egiziano…), rendono estremamente difficili risposte adeguate alla gravità del problema.
Non si tratterebbe, beninteso, di negare le doverose cure a coloro che, pur avendo violato la legge vigente, arrivano stremati nel nostro paese o di negare asilo a chi fugge dalla propria terra perché perseguitato per ragioni politiche o religiose.
Basterebbe, però, essere in grado di mantenere una certa determinazione nel riaccompagnare al paese di provenienza chi non può restare qui perché non è un perseguitato o perché non gli si può assicurare un lavoro e dei servizi degni di questo nome, dando così un chiaro segnale politico soprattutto alle organizzazioni criminali, nostrane e straniere, che, in combutta tra di loro, lucrano su questo aberrante commercio umano “en plain air”.
La vicenda di Rosarno ben si inquadra in questo contesto: migliaia di immigranti per lo più nordafricani irregolari sono stati “accolti”, se non proprio reclutati, per essere utilizzati nella raccolta degli agrumi al di fuori di ogni tutela sociale e con salari irrisori, senza che alcuna autorità locale o nazionale, certamente a conoscenza della situazione, sia intervenuta a far rispettare le leggi.
E’ questo l’ inevitabile corollario dell’ irresponsabile “buonismo” di cui sopra: si lasciano arrivare tutti indiscriminatamente (perché “diverso” è fico) salvo poi, una volta entrati infischiarsene e battere la ritirata.
Così non può andare. Una volta stabilitisi, nel rispetto delle regole e secondo flussi programmati, come avvenuto per tutti i profughi che, nella storia di questo paese, hanno sempre hanno trovato fraterna accoglienza, dovranno alla fin fine far parte anch’essi della nostra comunità; con gli stessi diritti e gli stessi doveri sul lavoro, verso l’erario, nell’istruzione, nella previdenza, nella sanità, ecc..
Insomma, dovranno gradualmente diventare “italiani” con tutto quello, e non è poco, che tale attributo comporta: un’ identità culturale, una storia, una lingua, una religione…, ben definiti che dovranno se non essere da tutti condivise perlomeno rispettate.
E’ questo un difficile, lungo epperò necessario processo di integrazione che, solo, può scongiurare le derive di cui gli episodi di Rosarno e di Milano costituiscono pericolose avvisaglie.
E’ evidente a tutti – all’infuori che ai “buonisti”, versione aggiornata degli “utili idioti” di leniniana memoria – che il contatto ravvicinato tra mondi così diversi tra loro, lasciati completamente liberi di muoversi senza un valido progetto di graduale integrazione con i nostri usi e la nostra cultura, non può che portare al conflitto sociale e quindi alla reazione proporzionata e, Dio non voglia, sproporzionata della maggioranza degli italiani che si sente abbandonata a se stessa.
Ognuno, in questa decisiva ora, deve fare la propria parte. O l’integrazione, nel significato qui indicato, o l’estinzione dell’italianità. Tertium non datur.