di Eugenia Roccella
(Giornalista e saggista)
Per capire com’è accaduto che sui documenti degli organismi internazionali sia comparso, infiltrandosi dappertutto con la velocità di una pianta infestante, il termine “genere”, forse è necessario delineare una breve sintesi degli sviluppi teorici del neofemminismo.
Negli anni Sessanta, però, arrivano dagli Stati Uniti suggestioni teoriche e politiche nuove; le donne si organizzano al di fuori della politica tradizionale, e cominciano ad occupare le strade e le piazze. L’impatto è enorme. Lo slogan iniziale è: donne non si nasce, si diventa. Le diversità biologiche sono secondarie se confrontate allo sforzo poderoso di costruzione della “mistica della femminilità”, come recita il titolo del libro di Betty Friedan con cui si apre il periodo d’oro del neofemminismo.
Il fiocco rosa posto sulla culla è il marchio, meno cruento ma altrettanto inesorabile della lettera scarlatta di Hawthorne, che indica e delimita il territorio sociale e culturale del femminile, la costruzione di un modello unico a cui è necessario uniformarsi per essere identificate (e identificarsi) come donna.
L’autrice più letta oltre alla Friedan è Simone de Beauvoir, con la sua diffidenza nei confronti della maternità e della biologia femminile, l’ostilità per quella che considera una sorda resistenza alla libertà del pensiero. La creazione del soggetto-donna, per la De Beauvoir, non può avvenire che contro l’opacità passiva della carne, la cieca rassegnazione biologica che consente all’uomo di appiattire la femminilità sulla natura e l’immanenza, negandole l’accesso al trascendente e alla semplice razionalità.
Il femminile da sempre rappresenta l’alterità, il secondo termine di ogni coppia oppositiva del pensiero occidentale (forma-materia, cultura-natura, libertà-necessità, e così via). La maternità è, in fondo, una zavorra che impedisce alle donne l’autonomia intellettuale. Per lei, la fecondazione artificiale rappresenta la rottura di questa catena, la sospirata liberazione dalla “schiavitù della riproduzione”.
Da questa linea discende anche la visione tecno-utopica di Shulamith Firestone, l’autrice della Dialettica dei sessi, che nei tardi anni Sessanta sosteneva che la fecondazione in vitro e l’utero artificiale avrebbero posto fine all’oppressione patriarcale, liberando le donne da quell’evento “barbarico” che è la gravidanza; la procreazione naturale è in sé invalidante, e l’immagine che si insegue è quella di una libertà avulsa dalla corporeità, perfettamente ricalcata sul modello maschile.
È da questo filone di pensiero che nasce l’idea di un’uguaglianza e di una libertà modellate appunto sul corpo maschile, cioè su un corpo che non genera; si tratta di una svalorizzazione o addirittura negazione della differenza sessuale, per assumere come oggetto del desiderio il ruolo pubblico dell’uomo, e come scopo politico l’assoluta parità sessuale e l’emancipazione.
Il pensiero della differenza
Poi, però, nascono e si diffondono, soprattutto in Francia e in Italia, le teorie della differenza, e le cose si rovesciano. L’idea che, cancellando la specificità del ruolo procreativo della donna, si cancelli automaticamente la sua inferiorità sociale appare una semplificazione autolesionista. Dare la vita è il potere femminile per eccellenza, che gli uomini hanno sempre cercato di controllare simbolicamente e socialmente.
Il materno è la patria femminile, il luogo di costruzione e riconoscimento della soggettività, è il legame verticale con le altre donne: “per la sua esistenza libera una donna ha bisogno, simbolicamente, della potenza materna, così come ne ha avuto bisogno materialmente per venire al mondo”, scrive Luisa Muraro nell’Ordine simbolico della madre. Per le femministe della differenza, è sul piano dell’ordine simbolico (e quindi del linguaggio), sul piano del senso, che ha agito e agisce la sopraffazione sulle donne. È lì che si rivela e si realizza il tentativo di annullare la differenza sessuale, annegandola in un’umanità indifferenziata.
Questa impostazione mette in crisi i concetti di parità ed eguaglianza diffusi dal femminismo emancipazionista. Nella prima fase del neofemminismo, si combatteva con forza l’idea di una naturale vocazione femminile al ruolo domestico e materno. La diffidenza era comprensibile: l’accento posto sulla differenza biologica aveva storicamente inchiodato la donna a una diversità intesa come inferiorità ed esclusione, impedendole l’accesso allo spazio pubblico. Il movimento delle donne puntava quindi a sganciare la maternità dal destino biologico, e a ridefinirla come libera scelta.
Questa posizione ha sempre lasciato irrisolta la contraddizione tra valorizzazione della specificità, e quindi della maternità e dei saperi femminili, e omologazione al modello maschile. È proprio dalla critica all’apparente neutralità dell’umano, che maschera un modello maschile spacciato come universalmente valido, che è nata la tendenza a riappropriarsi del concetto di differenza, caricandolo di nuovi valori.
L’esperienza fondamentale dell’essere donna, per il femminismo della differenza, è quella di nascere con un corpo sessuato, e la capacità di procreare ne è il cuore. Se l’esperienza non è neutra, ma sessuata, anche la conoscenza lo è. In questa chiave conoscitiva, la maternità non è solo una potenzialità straordinaria, ma un serbatoio di forza a cui attingere per costruire una soggettività autonoma. Comincia a diffondersi la terminologia del genere (differenza di genere, ottica di genere, identità di genere) come espressione di una differenza che travalica quella puramente biologica, e investe la donna come soggetto della conoscenza.
Il femminismo della differenza, però, per quanto sposti il problema della costruzione dell’identità femminile sul piano, squisitamente culturale, dell’elaborazione di simboli e significati, rimane fortemente ancorato al corpo, tanto da essere accusato di essenzialismo.
Le teorie del “gender”
Si tratta di un’accusa tutta maturata all’interno del pensiero postmoderno, decostruzionista e relativista, che nega recisamente la possibilità di una “essenza” femminile immutabile. Non esiste un’unica differenza sessuale (quella maschio/femmina), ma tante differenze, legate all’orientamento sessuale, alla razza, alla cultura, alla condizione sociale.
Da questi presupposti si sviluppa il vero e proprio pensiero “gender”, che si allarga fino a destituire totalmente di significato la dualità maschio/femmina, operando una separazione sempre più netta tra la differenza sessuale biologica e la costruzione dell’identità, sociale e psicologica.
Il fatto che a maschi e femmine venga assegnata un’identità sessuale definita in base ad alcuni caratteri anatomici è, per i sostenitori del “genere”, solo una convenzione, una costruzione culturale, a cui contribuiscono potentemente i condizionamenti messi in atto dalla società e dalla famiglia. Le sfumature possibili, tra maschio e femmina, sono molte, e la dualità dei sessi è frutto dell’imposizione di ruoli e gerarchie prefissate. La differenza maschio/femmina non ha alcun fondamento nella realtà: si tratta solo di un “discorso” connesso alle pratiche del potere, e fondato sull’esclusione di chi è diverso.
L’identità di genere non può essere stabile, visto che non dipende da fatti biologici, ma è fluida, relazionale, legata ai mutamenti storici, geografici, culturali, ambientali, personali e collettivi.
Questa linea di pensiero conduce inesorabilmente verso la decostruzione di ogni possibile identità femminile, derubricata a una delle mille varianti delle differenze identitarie. Se la definizione di donna non può riferirsi a una categoria eterna e universale, è insensata; secondo una sostenitrice del gender come la studiosa Judith Butler, poiché non è una categoria biologica, né ontologicamente fondata, come si può decidere chi vi è incluso?
Per altre teoriche, l’identità sessuale definita va superata attraverso una radicale manipolazione del corpo, che si può rendere in tutto o in parte artificiale, completandolo con innesti elettronici, animali o meccanici, e accogliendo con entusiasmo le nuove tecnologie riproduttive.
Il caso più spavaldo di radicalismo tecnolibertario è quello di Donna Haraway e del suo Manifesto cyborg, uscito negli Usa nel 1991. Il cyborg, secondo la definizione dell’autrice, è “un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, (…) una creatura di un mondo post-genere”. Il corpo mutante del cyborg, ottenuto grazie a innesti tecnologici di ogni tipo, è la leva che scardina l’identità sessuale definita, liberandola per sempre dal condizionamento biologico e culturale: non ci sarà più l’oppressione di un sesso su un altro, perché non ci saranno più né donne, né uomini.
È evidente che questa impostazione, anche accantonando le formulazioni più estreme, toglie ogni rilevanza alla differenza femminile, e indebolisce il soggetto donna. Accettare l’ideologia di genere è, per il femminismo, una forma di suicidio.
Scrivono giustamente Maria Giovanna Noccelli e Piersandro Vanzan: “Dietro all’identificazione della persona come “genere” piuttosto che come “essere sessuato” è leggibile ancora il rischio della neutralizzazione dell’identità sessuata. In definitiva una riproposizione di quel concetto di neutro, messo in luce dalla recente speculazione femminile” (1).
In conclusione, il vocabolo “genere” si presta quantomeno a interpretazioni ambigue, e la sua adozione indiscriminata da parte delle Nazioni Unite e dell’Europa contribuisce alla confusione generale. L’impressione è che da alcuni il termine sia adoperato, in campo internazionale, come una leva per scardinare l’idea tradizionale di famiglia e l’identità sessuale definita (il cosiddetto “paradigma eterosessuale”).
Il concetto di genere appare come un’arma impropria che gli organismi internazionali si illudono di poter maneggiare, mentre tende spontaneamente a sfuggir loro di mano. Una volta sfondato l’argine della differenza biologica, il corpo diventa un’astrazione, qualcosa di artificiale e manipolabile (come dicono le teoriche postmoderniste, è solo un testo).
La Chiesa cattolica, che è entrata direttamente in questo dibattito soprattutto con la Conferenza mondiale di Pechino sulla condizione femminile, ha ben chiara la diversità di posizioni esistente nell’ambito del pensiero delle donne. In occasione della Conferenza, Giovanni Paolo II scrisse una “Lettera alle donne” che, unita a quella indirizzata nel 2004 ai vescovi dall’allora cardinale Ratzinger (2), delinea una posizione che dialoga con il femminismo della differenza e prende le distanze da quello emancipazionista e dalle teorie del gender.
Nel testo firmato dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, la differenza sessuale è interpretata “come realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna: la sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Essa non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano”.
La Chiesa riconosce come, alla base di ogni esperienza umana, ci sia quella di nascere sessuati: questione che nel pensiero della differenza ha un peso fondamentale. La lettera del Pontefice del ’95, invece, è stata commentata come un vero e proprio manifesto per l’empowerment, un accrescimento di potere che permetta alle donne di espandere il proprio “genio”, la propria “capacità dell’altro”, al di fuori della casa e della famiglia.
Sul piano delle scelte politiche, il femminismo della differenza si distacca moltissimo dall’emancipazionismo istituzionale: “Uguaglianza e parità tra i sessi sono criteri omicidi, non permettono alla donna di pensare a se stessa in modo indipendente, né di avere ambizioni autonome”, ha scritto la teorica femminista Alessandra Becchetti (3). C’è un’evidente assonanza tra queste parole e quelle di Janne Haaland Matlary, femminista cattolica: “La discriminazione si verifica non solo quando soggetti uguali vengono trattati in modo diverso, ma anche quando soggetti diversi vengono trattati in modo uguale” (4).
Il nuovo lessico come progetto culturale
Anche ad un esame sommario dei documenti internazionali, colpisce la centralità assunta dalle scelte lessicali. È un’attenzione che si iscrive in una vera e propria strategia di trasformazione linguistica, che si configura come un progetto culturale globale.
La politica mondiale dei diritti umani, vista anche la frequente situazione di impotenza e di stallo diplomatico delle Nazioni Unite, si esprime sempre di più nell’ambito del linguaggio, un esperanto decifrabile solo dalle burocrazie internazionali, che però ha enorme influenza nell’orientare i governi, soprattutto occidentali.
A questa strategia consapevole e vincente si contrappone per adesso solo una guerriglia di soggetti dispersi e distanti tra loro, con l’eccezione della Santa Sede, unico soggetto dotato di visibilità e di autorevolezza, che non a caso viene individuato come l’avversario per eccellenza.
Ad ogni appuntamento delle Nazioni Unite sui temi della donna, della procreazione e della sessualità, si discutono ferocemente questioni che ai profani possono apparire come inessenziali modifiche terminologiche, e che invece, se recepite, aprirebbero squarci profondi nella faticosa costruzione di un quadro etico condiviso.
La battaglia delle parole si articola in alcune riconoscibili modalità d’intervento, che non possiamo analizzare qui (5). Basta accennare al fatto che la trasformazione agisce in più direzioni, di cui la più clamorosa e significativa è quella che tende a cancellare ogni parola sessuata, riferita cioè alla distinzione tra maschile e femminile. Il vocabolario adottato deve essere “gender neutral”, quindi non deve contenere, nemmeno implicitamente, la temuta differenza sessuale.
I termini “madre” e padre” sono stati abbandonati in favore di “progetto parentale” o “genitorialità”: parole che abbinano l’asetticità emotiva alla neutralità sessuale. Naturalmente, anche il termine “maternità” è bandito dal nuovo linguaggio delle burocrazie internazionali, sia all’Onu che nell’Unione europea.
Non è un caso che “maternità” sia considerata parola troppo valoriale, troppo carica di peso storico e sentimentale, ma persino il vocabolo “procreazione” è assente nel linguaggio dei diritti; anche questo ha sfumature di significato inaccettabili, perché su di esso si allunga l’ombra dell’unicità umana, di un di più rispetto alla mera riproduzione biologica. Meglio la definizione “diritti riproduttivi”, dove il sostantivo, “diritto”, dovrebbe riscattare la sgradevole piattezza dell’aggettivo, “riproduttivo”, schiacciato sul biologismo; un aggettivo che richiama la riproduzione dell’identico, quindi della specie, e non dell’individuo, il quale, per fortuna, rimane (ancora) dotato della sua fragile irripetibilità.
Note
1) Maria Giovanna Noccelli e Piersandro Vanzan, Pechino 1995. Bilancio e prospettive della V Conferenza Mondiale sulla donna, Ave, Roma, 1996, pg. 43.
2) Congregatio prò doctrina fidei; documenta inde – concilio vaticano secondo expleto edita (1966-2005) Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, pp. 604-619.
3) Alessandra Becchetti, Politica delle donne e politica per le donne, in P. Bono, a cura di, Questioni di teoria femminista, La Tartaruga, Milano, 1993, pg.199.
4) Janne Haaland Matlary, L’uomo e la donna nella famiglia, nella società e nella politica in AaVv, II ruolo della donna nella Chiesa e nel mondo, Quaderni dell’Osservatore Romano, Roma, marzo 2005.
5) Per un’analisi più dettagliata di questo tema, vedi: Eugenia Roccella, Non crescete, non moltiplicatevi, in E. Roccella, L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’Onu e l’Unione europea come ideologia, Piemme, Casale Monferrato, 2005