di Giuliano Guzzo
Abbiamo il diritto di avere figli sani? E’ in questa breve, pungente domanda che si cristallizza uno dei nodi più centrali del dibattito bioetico contemporaneo. Accanto ai continui – e un po’ retorici, diciamolo pure – inviti a valorizzare il disabile, si stanno infatti diffondendo, nel mondo occidentale, ricorsi alla diagnosi prenatale finalizzati non tanto a rintracciare la presenza eventuale di patologie del feto, bensì a togliere di mezzo il bambino ancora nato ma già bocciato da aspettative sempre più esigenti e salutiste.
Con parole profetiche, il sociologo Zygmunt Bauman, nel suo Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, 2002), ha scritto che presto l’umanità sarà divisa tra «i prescelti all’immortalità» e coloro che ne saranno esclusi con la giustificazione che «solo un certo tipo di vita meriti di esser protratto all’infinito».Catastrofismi?
Non proprio. Lo conferma inequivocabilmente un fenomeno di questi anni: i bambini Down stanno statisticamente scomparendo. Non nascono più. E non a causa dell’inverno demografico – che pure rappresenta un problema enorme – ma perché vengono eliminati prima di poter nascere. E quando vengono al mondo, quasi sempre, è per puro caso, perché la sindrome non era stata correttamente diagnosticata.
Il caso più lampante, in Europa, è forse quello britannico: nel 1990 in Inghilterra e Galles le diagnosi prenatali di sindrome di Down erano state 1.075, nel 2008 avevano toccato quota 1.843 (+70%). Una bella impennata. Nonostante ciò, le nascite di bambini Down non solo non risultano – come ci si aspetterebbe – essere aumentate, ma son addirittura calate di 1 punto percentuale, passando da 752 a 743.
Questo perché la percentuale di coppie che ricorre all’aborto dopo aver appreso di attendere un figlio Down, in Inghilterra, è pari al 92%. Sia chiaro: non s’intende in alcun modo, qui, esprimere giudizi su persone, ma solo indurre una riflessione su una mentalità che ricorda sempre più quella eugenetica e che annovera esempi inquietanti.
Pensiamo, ad esempio, a quanto scritto da Daniel Gunther e Douglas Diekema del Children’s Hospital and Regional Medical Center di Seattle, i quali, sulle pagine della rivista Archives of pediatric and adolescent medicine, hanno avanzato l’ipotesi di arrestare la crescita dei bambini handicappati trattandoli con dosi massicce di estrogeni. Alla base di questa disumana proposta, starebbe l’idea che un soggetto disabile minuto darebbe meno problemi, in termini di accadimento, di uno corpulento.
Un esempio al quanto significativo di come siffatta mentalità stia prendendo progressivamente piede ci viene poi dall’appello lanciato qualche anno fa dall’associazione dei ginecologi inglesi – il prestigioso Royal College of Obstetricians and Gynaecology – attraverso le colonne del Sunday Times; un appello di cui è sufficiente, per rabbrividire, riportare il titolo: «Lasciateci uccidere i bambini disabili».
Un altro terreno fertile della mentalità eugenetica è indubbiamente quello della fecondazione in vitro. Centinaia, anzi migliaia di famiglie – spesso senza aver prima valutato alternative, quali ad esempio le cure della sterilità – si rivolgono alle strutture che eseguono questa tecnica e pretendono, non foss’altro per il consistente investimento che la procreazione medicalmente assistita chiede loro, un figlio sano.
Una tendenza, questa, che ha contagiato anche le patriarcali società del Medioriente. Dal Maghreb ai Paesi arabi, dal Golfo all’Iran, già nel 2009 risultavano infatti raddoppiate le richieste di ricorrere a questo sistema per avere figli. Richieste molto spesso precise, per quanto riguarda sesso e salute dei nascituri. Alcuni studiosi dell’American University di Beirut, incuriositi dal fenomeno, hanno voluto censirlo. Ed hanno concluso che «più dell’80 per cento delle coppie intervistate, se viene a sottoporsi a fecondazione in vitro, chiede due cose: che sia sano e che sia maschio» (Corriere della Sera, 31/10/2010).
A questo punto è importante ricordare le ragioni che rendono la mentalità eugenetica del tutto inaccettabile. Esse sono principalmente tre. Anzitutto perché nega a degli esseri umani il diritto fondamentale alla vita, un diritto connaturato alla loro esistenza e pertanto inalienabile. Esso, infatti, spetta in egual misura ai più deboli come ai più forti, ed è il volto giuridico della dignità di ciascuno di noi.
Una seconda motivazione di contrasto all’eugenetica, per stare all’Italia, ci viene ricordata dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha chiarito come sia incompatibile col nostro ordinamento ogni «principio di eugenesi o di eutanasia prenatale», in quanto esso sarebbe in totale antitesi con «i princìpi di solidarietà» (Cassazione, sez. III civile, sent. 29 luglio 2004, n. 14488; Cassazione, sez. III civile, sent. 14 luglio 2006, n. 16123).
L’ultimo, non meno rilevante motivo di profonda ingiustizia dell’eugenetica riguarda il fatto che i disabili, come può testimoniare l’esempio di tantissime famiglie, non sono mai un peso, ma una risorsa per la famiglia e per la società. Il più toccante manifesto di questa realtà ce l’ha offerto in Nati due volte, romanzo pubblicato tre anni prima di morire, lo scrittore Giuseppe Pontiggia – a sua volta genitore di un disabile -, riferendo il commovente colloquio avuto con un medico a proposito dei bambini handicappati: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita».