Asia News 3 Settembre 2022
L’apertura alla libertà religiosa non faceva parte del programma iniziale delle riforme. Furono le vicende seguite al disastro di Černobyl a costringere il segretario-presidente a modificare il suo atteggiamento, fino alla sintonia che stabilì con Giovanni Paolo II. Ma i russi gli rimproverano la fine dell’Urss come rinuncia al ruolo di potenza mondiale.
Stefano Caprio
Si tengono oggi a Mosca le esequie di Mikhail Gorbačev, primo e ultimo presidente dell’Unione Sovietica, scomparsa nel 1991, anno che segnò anche la morte politica del suo leader.
Negli ultimi 31 anni Gorbačev non è più esistito in Russia: la sua fondazione, molto attiva nel campo della beneficenza, non ha avuto alcun influsso politico e culturale né durante il travagliato decennio eltsiniano, né durante il sempre più roboante ventennio putiniano.
Lo stesso Putin ha reso frettolosamente omaggio alla salma, depositando dei fiori e affrettandosi ad andare a Kaliningrad, e poi in altre località, a presiedere le fasi finali delle olimpiadi giovanili dei “Colloqui sulle cose importanti”, manifestazioni di propaganda finalizzate alla spiegazione delle motivazioni dell’operazione militare speciale in Ucraina, e alla rilettura in senso eroico dell’intera storia russa.
I funerali si svolgono con “qualche elemento delle esequie ufficiali”, come ha spiegato il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, col picchetto d’onore e la presenza di alti rappresentanti dello Stato. Non ci sarà il presidente, che ha riconosciuto “il grande ruolo nella storia universale” di Gorbačev, più per onorare la Russia e il suo potere, che non per esaltare la figura del riformatore fallito.
Gli elogi a Gorbačev non si sono invece risparmiati al di fuori della patria, con ricordi appassionati di Macron, Scholz, Biden, Johnson, Walesa, Guterres, Draghi, von der Leyden e tanti altri. Il secondo leader sovietico, insieme a Khruščev, a concludere il suo mandato ancora in vita, era certamente molto più amato all’estero che in Russia.
I motivi sono ben noti: a livello ideologico, i russi gli rimproverano la fine dell’Urss come rinuncia al ruolo di potenza mondiale, e l’eccessiva indulgenza ai favori interessati degli occidentali, di cui viene considerato il principale storico “agente straniero”, il termine oggi in voga per designare i traditori.
La popolazione, più sensibile agli aspetti materiali della vita sociale, ricorda con i brividi quel quinquennio maledetto tra il 1986 e il 1991, quando venne bloccata la pianificazione economica senza di fatto riuscire a instaurare un qualunque altro sistema, di cui non c’era una concezione positiva nella declamata perestrojka.
Di fatto la svolta portò a una crisi mai vista: gli enormi supermercati, in cui nel ventennio brezneviano c’erano pochi ma sicuri prodotti, apparivano tragicamente vuoti, e per comprare carne e verdura bisognava andare ai mercati caucasici a prezzi astronomici, o nei negozi per stranieri per chi aveva la fortuna di possedere i talony, gli speciali buoni d’acquisto riservati a pochi.
E soprattutto a far infuriare la maggior parte dei russi è il ricordo della “legge secca” (sukhoj zakon) del 1987 che limitò la produzione di bevande alcoliche: nei giorni di Gorbačev si bevevano profumi e miscele, compreso l’olio dei freni, oppure si stava in fila una giornata intera per una bottiglia di vodka.
La condanna ufficiale del gorbaciovismo fu pronunciata da Putin nel messaggio all’Assemblea federale del 2004, quando affermò che “il crollo dell’Unione Sovietica è stata la principale catastrofe geopolitica del XX secolo”, un disastro a cui oggi si cerca di porre rimedio con la riconquista delle terre ex-sovietiche, a partire dall’Ucraina. il “crollo” viene imputato all’inettitudine dell’allora presidente, anche se di fatto fu sancito l’8 dicembre 1991 dall’accordo di Belovežka tra Eltsyn, Kravčuk e Šuškevic, i presidenti delle repubbliche sovietiche di Russia, Ucraina e Bielorussia che diventarono Stati indipendenti, senza alcun coinvolgimento di Gorbačev, ormai emarginato dopo il golpe di agosto.
Egli in realtà aveva anche tentato di impedire la disgregazione dell’impero, con tragici risultati come la “notte delle palette dei genieri” di Tbilisi nel 1989, una sanguinosa repressione delle pacifiche manifestazioni antisovietiche, il “gennaio nero” del 1990 a Baku e soprattutto la presa militare del centro televisivo di Vilnius del 1991, che suscitò la rivolta della Lituania, primo Stato a separarsi dall’Urss. Questi eventi aggiunsero soltanto odio e disprezzo verso una figura già da tutti ritenuta infelice, segnata in modo indelebile fin dal 1986, con l’esplosione della centrale di Černobyl che costrinse a sostituire la perestrojka con la glasnost, la libertà d’informazione, aprendo l’Urss a quella “invasione dell’Occidente” tanto deprecata oggi da Putin e dal patriarca Kirill.
Il patriarca è un personaggio emblematico del succedersi delle varie fasi, nel passaggio tra l’Urss e la Russia neo-imperiale.
Da giovane vescovo brezneviano, Kirill difendeva a spada tratta la politica sovietica in tutte le assise ecumeniche internazionali, ma fu tra i primi gerarchi della Chiesa ortodossa a cavalcare le riforme dopo l’elezione di Gorbačev nel 1985, partecipando attivamente alle grandi celebrazioni del Millennio del Battesimo della Rus’ nel 1988 che segnarono l’inizio della “rinascita religiosa” dopo settant’anni di ateismo di Stato.
Nel 1990 riuscì a spingere per l’elezione a patriarca di Aleksij (Ridiger), il metropolita di Leningrado che egli poteva controllare, evitando con l’aiuto dei funzionari sovietici la vittoria del candidato di Kiev Filaret (Denisenko), oggi 95enne ispiratore della rivolta ucraina contro la Russia e contro lo stesso Kirill, che Filaret aveva ordinato vescovo nel 1976. Negli anni di Eltsyn, come metropolita degli esteri del patriarcato, Kirill si meritò la fama di “oligarca ecclesiastico”, per poi diventare il principale ideologo della restaurazione putiniana della Chiesa di Stato della Grande Russia. Proprio nel campo religioso sono evidenti le contraddizioni del gorbaciovismo, che hanno infine portato alla nuova “sinfonia dei poteri”.
L’apertura alla libertà religiosa, in realtà, non faceva parte del programma iniziale delle riforme di Gorbačev.
Il nuovo segretario generale del Comitato centrale del Pcus, eletto a marzo 1985, e la sua squadra appartenevano alla generazione degli anni Sessanta. Erano persone sulla cui formazione aveva avuto un decisivo influsso il XX Congresso del Pcus (1956) e la campagna antireligiosa del 1958-1964. Come la maggioranza di essi, Gorbačëv era “sordo” alle problematiche religiose.
Del fatto che i “capicantiere della perestrojka”, come chiamavano i collaboratori di Gorbačëv, non intendessero cambiare nulla nelle relazioni con la Chiesa, testimoniano diversi documenti pubblicati di recente.
Come ha scritto l’ex collaboratore responsabile del settore della propaganda del Comitato Centrale del Komsomol’, Valerij Alekseev, “Gorbačëv e Likhačev disposero l’elaborazione e l’approvazione per gli anni 1985-1990 di un pacchetto di decisioni segrete sul rafforzamento della lotta contro l’attivizzazione del settarismo religioso, l’influsso reazionario del clero islamico, sulla limitazione dell’influsso del cattolicesimo sulla popolazione, sulle misure di contrapposizione all’influenza ortodossa ecc.”.
La fedeltà ai dogmi marxisti sulla religione fu confermata nella nuova redazione del Programma del Pcus, approvato al XXVII congresso del partito nel 1986.
Anche le celebrazioni del Millennio della Rus’, in programma fin dal 1983, si dovevano tenere solo all’interno delle chiese, con l’indicazione di “non attirare attenzione a questo particolare evento”.
Le vicende esterne dopo Černobyl costrinsero il segretario-presidente a modificare il suo atteggiamento, soprattutto dopo i primi contatti con Reagan e gli altri leader occidentali, che esaltavano la novità di un segretario sovietico elegante e dialogante, che girava il mondo con l’affascinante moglie Raissa, e magari era disposto anche a concedere aperture alla libertà di espressione e di professione religiosa.
Allora Gorbačev scoprì il mondo della spiritualità, sintonizzandosi con il leader mondiale più affermato, il papa Giovanni Paolo II, che terrorizzava i burocrati sovietici con i suoi messaggi di “nuova evangelizzazione”.
Il neo-presidente dell’Urss riformata incontrò il papa a Roma, il 1 dicembre 1989, aprendo alle relazioni diplomatiche con la Santa Sede e concordando sulla visione dell’Europa cristiana “dall’Atlantico agli Urali”.
La svolta religiosa gorbacioviana gettò nel panico non solo i funzionari statali, ma anche i gerarchi ecclesiastici ortodossi, che non sapevano come governare una rinascita religiosa totalmente al di fuori delle tradizioni confessionali russe.
La sintonia tra Gorbačev e Giovanni Paolo II è forse il peccato più grave che viene imputato dai russi al leader che oggi viene sepolto al monastero di Novodeviči, accanto a tante altre figure storiche della politica e della cultura russa, compreso il filosofo Vladimir Solov’ev che desiderava l’unione degli ortodossi con i cattolici, per costruire insieme una Chiesa universale.
Oggi invece Kirill e Putin sostengono l’ideale di una santa Russia che si stende “da Lisbona a Vladivostok”, un sogno imperiale e mistico destinato a rimanere anch’esso incompiuto, come tutte le grandi immagini della Russia antica e moderna, anche quella soltanto sognata da Mikhail Gorbačev.
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